Perché leggere questo libro: L’arte della gioia di Goliarda Sapienza
In questi giorni di “ritiro” la redazione di La letteratura e noi ha pensato che possa essere utile raggiungere i suoi lettori con la rubrica “Perché leggere” nelle giornate di martedì, giovedì e sabato: nel nostro blog troveranno spazio per lo più pezzi inediti ma potrebbero venire riproposti anche suggestioni di lettura già pubblicate in passato.
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Ed eccovi me a quattro, cinque anni in uno spazio fangoso che trascino un pezzo di legno immenso. Non ci sono né alberi né case intorno, solo il sudore per lo sforzo di trascinare quel corpo duro e il bruciore acuto delle palme ferite dal legno. Affondo nel fango fin sino alle caviglie ma devo tirare, non so perché, ma lo devo fare. Lasciamo questo mio primo ricordo così com’è; non mi va di fare supposizioni o d’inventare. Voglio dirvi quello che è stato senza alterare niente. Dunque, trascinavo quel pezzo di legno; e dopo averlo nascosto o abbandonato, entrai nel buco grande della parete, chiuso solo da un velo nero pieno di mosche. Mi trovo ora nel buio della stanza dove si dormiva, si mangiava pane e olive, pane e cipolla. Si cucinava solo la domenica. Mia madre con gli occhi dilatati dal silenzio cuce in un cantone. Non parla mai, mia madre. O urla, o tace. I capelli di velo nero pesante sono pieni di mosche. Mia sorella seduta in terra la fissa da due fessure buie seppellite nel grasso. Tutta la vita, almeno quanto durò la loro vita, la seguì sempre fissandola a quel modo. E se mia madre – cosa rara – usciva, bisognava chiuderla nello stanzino del cesso, perché non voleva saperne di staccarsi da lei. E in quello stanzino urlava, si strappava i capelli, sbatteva la testa ai muri fino a che lei, mia madre, non tornava, la prendeva fra le braccia e l’accarezzava muta.
Per anni l’avevo sentita urlare così senza badarci, sino al giorno che, stanca di trascinare quel legno, buttata in terra, avvertii a sentirla gridare come una dolcezza in tutto il corpo. Dolcezza che in seguito si tramutò in brividi di piacere, tanto che piano piano, tutti i giorni cominciai a sperare che mia madre uscisse per poter ascoltare, l’orecchio alla porta dello stanzino, e godere di quegli urli. Quando accadeva, chiudevo gli occhi e immaginavo che si lacerasse la carne, si ferisse. E fu così che seguendo le mie mani spinte dagli urli scoprii, toccandomi là dove esce la pipì, che si provava un godimento più grande che a mangiare il pane fresco, la frutta. Mia madre diceva che mia sorella Tina: «La croce che Dio ci ha mandato giustamente per la cattiveria di tuo padre» aveva vent’anni; ma era alta come me, e così grassa che sembrava, se si fosse potuto levarle la testa, il baule sempre chiuso del nonno: «Anima dannata più di suo figlio…», che era stato marinaio. Che mestiere fosse questo del marinaio non riuscivo a capirlo. Tuzzu diceva che era gente che viveva sulle navi e andava per il mare… ma il mare che cos’era?
Sembrava proprio la cassa del nonno Tina, e quando mi annoiavo chiudevo gli occhi e le staccavo la testa, Se lei aveva vent’anni ed era femmina, tutte le femmine a vent’anni dovevano sicuramente diventare come lei o come la mamma; per i maschi era diverso: Tuzzu era alto e non gli mancavano i denti come a Tina, li aveva forti e bianchi come il cielo d’estate quando ci si alza presto per fare il pane. E anche suo padre era come lui: robusto e coi denti che brillavano come quelli di Tuzzu quando rideva. Rideva sempre il padre di Tuzzu. La nostra mamma non rideva mai e anche questo perché era femmina, sicuramente. Ma anche se non rideva mai e non aveva denti, io speravo di diventare come lei; almeno era alta e gli occhi erano grandi e dolci, e aveva i capelli neri. Tina non aveva neanche quello: solo dei fili che la mamma allargava col pettine cercando di coprire la cima di quell’uovo. I gridi sono cessati, sicuramente la mamma è tornata e fa tacere Tina accarezzandola sulla testa. Chissà se anche la mamma ha scoperto che si può provare tanto piacere accarezzandosi in quel posto? E Tuzzu, chissà se lo sa Tuzzu? Deve essere a raccogliere le canne. II sole è alto. Io devo cercare e chiedergli di queste carezze e anche di questo mare devo chiedere. Ci sarà ancora?
da Goliarda Sapienza, L’arte della gioia, Einaudi, Torino 2008
Perché leggere questo libro?
Per incontrare un personaggio straordinario
Protagonista, fulcro e motore narrativo del romanzo è Modesta, nata nel 1900 in un angolo della Sicilia. Nel panorama femminile della letteratura italiana, Modesta è un personaggio straordinario (in senso etimologico): è una donna i cui sentimenti e le cui passioni (erotiche, culturali, politiche) non sono scindibili dalla coraggiosa e determinata lucidità intellettuale con cui affronta il mondo. La sua vicenda è quella di un’ascesa sociale: di origini poverissime, bambina violentata dal padre e privata dell’affetto materno, entrerà a far parte di una famiglia aristocratica e arriverà ad amministrarne il patrimonio, ad occuparsi – lei donna – di affari e calcoli. Ma diventerà anche colta e avvertita, lettrice onnivora, appassionata di filosofia e di poesia; e sarà indirettamente quanto consapevolmente coinvolta in una lotta politica che la condurrà all’esperienza del carcere. Nella sua storia pubblico e privato, corpo e intelletto, generosità e calcolo si mescolano in un fuoco alimentato dall’esercizio di quell’arte della gioia che dà il titolo al romanzo: una sorta di eccitazione vitale che si fa, appunto, esercizio, pratica quotidiana di una sapienza – verrebbe da dire – da artigiana, tenendosi a una certa distanza dal vitalismo.
Il nome del personaggio è vistosamente antifrastico: tutt’altro che docile e sottomessa, tutt’altro che dedita all’ideologia (tradizionalmente femminile) del sacrificio, Modesta non rinuncia mai alla libertà dalle briglie rassicuranti della morale comune, delle convenzioni sociali, dell’opportunismo politico. Modesta è un personaggio scabroso, non solo e non tanto sul piano erotico (ne vengono narrate, per esempio, la scoperta precoce dell’autoerotismo e le esperienze omosessuali) quanto, soprattutto, su quello intellettuale.
Perché ha urgenza di “dire”
L’arte della gioia è un romanzo che nasce e prende corpo da un’urgenza di dire e far dire, anche a costo di ridondanze, eccessi e ruvidezze stilistiche: è il prezzo che paga Goliarda Sapienza per rispondere all’urgenza di comunicare ciò che, inevitabilmente, non si può dire che per strappi, affastellamenti e ripetizioni, con movimenti sgraziati ma con l’impeto e l’incisività che ha certe volte la materia bruta. Nell’ultima pagina, una Modesta sessantenne ammette che «no, non si può comunicare a nessuno questa gioia piena dell’eccitazione vitale di sfidare il tempo in due, d’essere compagni nel dilatarlo, vivendolo il più intensamente possibile prima che scatti l’ora dell’ultima avventura». Eppure la conclusione del romanzo è affidata a una voce che invita Modesta a raccontare, a riprendere fiato e rispondere all’urgenza di dire oltre lo spazio del romanzo: «Dormi, Modesta? No. Pensi? Sì. Racconta, Modesta, racconta.»). D’altra parte il personaggio di Modesta domina non solo nell‘economia e non solo nell‘architettura del romanzo, ma più propriamente sulla sua economia e sulla sua architettura: sullo stile, sulla macchina narrativa e sulla postura discorsiva, che oscilla tra la prima e la seconda persona. La voce di Modesta si sdoppia frequentemente nella ricerca dell’oggettivazione narrativa, con oscillazioni che mostrano un processo prima che un risultato.
Perché racconta il Novecento da un punto di vista eccentrico
Eccentrico perché isolano; e perché femminile.
Modesta nasce il primo gennaio del 1900 e la sua vita attraversa quasi per intero il secolo scorso.
Le due guerre mondiali, il fascismo e l’antifascismo, l’Italia repubblicana vengono illuminati dallo sguardo di questa siciliana che solo molto tardi imparerà a separarsi dalla sua isola e che interpreta le vicende storiche dall’esterno, soprattutto attraverso i racconti altrui e mantenendo un’ottica della distanza (confermata e insieme smentita dall’esperienza estrema della reclusione), e donna dotata di un’intelligenza critica che, all’altezza del 1950, le fa dire con piglio profetico al figlio Prando: «E va bene Prando, te l’ho detto e te lo ripeto: io voglio essere indipendente dagli uomini come Lucio. E state attenti perché di questo passo quando le donne si accorgeranno di come voi uomini di sinistra sorridete con sufficienza paternalistica ai loro discorsi, quando la tua Amalia si accorgerà di non essere ascoltata e di fare due lavori sfinendosi davanti ai fornelli e in laboratorio – perché non mi parli mai del lavoro di Amalia, eh? Perché devo sentire solo quanto è dolce, carina o gelosa? – quando si accorgeranno la loro vendetta sarà tremenda, Prando.»
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