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diretto da Romano Luperini

 

Ad alta voce

Sono cresciuta con le letture ad alta voce.

Da bambini, mia sorella, mio fratello ed io leggevamo (lo confesso) Il Giornalino. Soprattutto ci appassionavano le storie del moderno vichingo Capitan Erik (nato dalla penna e dalla matita di Claudio Nizzi e Ruggero Giovannini) e della sua ciurma variegata, che accoglieva ugualmente l’italiano Gilberto Pittaluga come lo spagnolo Felipe Hernandez, come il cinese Jang-Tsuem, il turco Yasar Masmin, lo scozzese Ernie Mc Oran, il tedesco Rolf Krugen, il francese Pierre Lacoste, il gemelli russi Ivan e Vladimir Mikjtin, il texano Robert Kent e altri ancora, di provenienza disparata, perché la nave Adventurer di Erik il rosso sembrava uscita da una strofa di Imagine e, nonostante i suoi marinai non fossero proprio tutti mahatma, nonostante qua e là ci scappassero cazzotti e zuffe, erano comunque tutti uniti to give peace a chance. Questi fumetti, li ricordo ancora perfettamente; erano per noi talmente avvincenti, che, per non strapparci l’un l’altra il giornaletto dalle mani, finimmo per leggerli tutti e tre insieme, mio fratello, che era più piccolo, al centro e mia sorella ed io ai lati. Ognuno prendeva per sé un personaggio e ne leggeva le battute con la presunzione di rifarne l’inflessione della nazionalità di appartenenza; gli esiti erano a dir poco stereotipati: Lacoste arrotava tutte le r, Jang le pronunciava l, Krugen scambiava tutte le sonore con le sorde, Kent parlava come se avesse sempre un chewing-gum fra i denti e Hernandez ci mancava poco che concludesse ogni frase con olè; e per quelli di cui non avevamo idea, ci attrezzammo come ci riuscì, chiedendo a nostro padre, che faceva parlare i gemelli russi (diceva lui) come Leonida Breznev, o a nostra madre, che si piccava di saper rifare tutte le intonazioni regionali e prestava la voce al genovese Pittaluga. Era uno spasso. Ragazzini, leggemmo poi Le tigri di Mompracem estrapolandone, ove possibile, i dialoghi fra Sandokan, Yanez e la perla di Labuan (per la cronaca: io volevo essere Yanez). E ormai studenti, chi al liceo, chi all’università, passavamo da una stanza all’altra, dove ognuno di noi languiva immerso nel suo studio matto e disperatissimo, leggendoci a vicenda brani scelti di Saperla lunga di Woody Allen, al quale dobbiamo riconoscere il merito di averci fatto ridere alla vigilia di esami impossibili.

Alla (stentorea) lettura a voce alta della mia insegnante della media devo le poche poesie che conosco a memoria, e gliene sono grata: perché si portano dentro quella che ero e quella che sono e forse sono per me l’unico contenitore ancora capace di tanto. Sono grata al mio professore di Filosofia e Storia del liceo, che ci leggeva i testi dei filosofi e anche le lettere di Abelardo ed Eloisa (e chi se lo scorda, quando faceva Eloisa?), perché finalmente sembrava tutto vero e vicino; e alla mia professoressa di Greco, che si ostinava a leggerci le tragedie in lingua, nonostante non aspettassimo che la traduzione, per farci sentire il martellare di una sticomitìa o la spezzatura di un trimetro per l’antilabé. E – sempre grata – fino a pochissimi giorni fa ho ascoltato Alessandra Sarchi leggere le sue stesse pagine, la voce ferma, che scolpiva senza tremori; forse più emozionata io di lei.

Nessun dubbio, dunque, sul valore – come oggi si dice – socializzante della lettura ad alta voce e sul fatto che essa sia la prima forma di interpretazione di un testo, anche se a leggerlo non è un attore.

Per voce sola

Provo a fare lo stesso anch’io, in aula, con i miei allievi; e spesso onestamente mi riesce, complice – anche – qualche trascorso attoriale. Naturalmente ho i miei cavalli di battaglia (i sonetti di Cavalcanti; alcune novelle del Decameron; il carme dei Sepolcri, specie l’inizio e la fine; il dialogo tra fra Cristoforo e don Rodrigo…), ma in generale provo a leggere un po’ tutto, a voce alta, con loro. Non solo le poesie, che in qualche modo sembrano imporci la restituzione delle sonorità, ma le prose, delle quali vorrei che cogliessero la cadenza diversa – distesa, sincopata, spezzata, complessa, contorta… – a secondo di come proceda il racconto – aperto, concitato, drammatico, articolato, ripiegato su di sé… Mi fermo su un vocabolo – un sostantivo inusitato, un aggettivo scelto bene, un verbo che muoverebbe il mondo; percorro con insistenza la sintassi, evidenziando gli snodi; do le voci ai personaggi, se ci sono i dialoghi, non molto diversamente da quel che facevo, da bambina, con Capitan Erik; e provo a condividere le mie emozioni, che non sempre sono le loro, ma lo faccio lo stesso e, le loro, li invito a raccontarle. Però poi, sempre, invariabilmente, ho l’impressione malinconica di una performance per voce sola.

Allora chiedo a qualcuno della classe, “Marco, leggi tu!”, “Valeria, continua!”; ma loro fanno come col gioco della spazzola: chi la riceve, non può rifiutarla e volentieri la passerebbe a sua volta, temendo di pagare pegno. Alcuni incespicano sulla punteggiatura, si perdono nella sintassi come in un labirinto e s’arrendono davanti a una parentesi. C’è anche ovviamente chi porta a termine la lettura senza esitazione; ma lo fa come chi compia un dovere oneroso: lo svolge dignitosamente, ma senza alcun coinvolgimento emotivo; il che, in particolare nel caso di letture di testi teatrali, consegue esiti raggelanti. Qualcuno addirittura implora: “Prof, per favore, legga lei”; e questo non mi lusinga, anzi, mi preoccupa. E mi dà da pensare. “Ma, a casa, leggete a voce alta?”. Mi rispondono di no, e, se lo fanno, è raramente e solo per certi libri di scuola; perché “si perde tempo” – mi dicono – ed è faticoso. Dunque la lettura è attività da espletarsi col minor dispendio possibile di tempo e di energie. Niente a che vedere con il raccoglimento di Ambrogio, raccontato nelle Confessioni da un ammiratissimo Agostino. Perché?

Vox populi

La vulgata è che i giovani non leggono più perché sono distratti da “altro”. I social sono gli imputati numero uno. Non mi addentrerò nella questione, nella quale ogni persona avveduta individua limiti, approssimazioni, inesattezze, faziosità. Ricordo soltanto che, all’epoca di Capitan Erik, a noi bambini rimproveravano già che la televisione ci allontanasse dai libri (e allora la TV per i ragazzi era su un unico canale e a tempo più che determinato). Quindi magari sarà il caso di cercare altrove le origini di un disagio rispetto al quale schermi di diversi pollici, fattezze, spessore hanno scavato nel tempo una profonda trincea. I nostri ragazzi guardano e si guardano molto, ma ascoltano e si ascoltano poco. E forse è perché noi adulti – genitori, docenti, politici, registi, discografici, pubblicitari… – li guardiamo moltissimo e non li ascoltiamo granché; tanto che loro stessi hanno perso interesse ad ascoltare la loro stessa voce. Cosa desiderano? Non cosa vogliono: quello, di solito, l’ottengono; se l’oggetto è reperibile, se si può comprare o raggiungere, è solo questione di tempo e agli adulti non par vero di poterli accontentare così a buon mercato. Ma cosa desiderano? Cosa genera e cosa orienta il loro desiderio? Il desiderio è tensione, aspirazione, ipotesi, progetto, curiosità. E i libri questo sono.

E’ giusto, è bello, è socializzante leggere a voce alta e può incentivare i nostri allievi alla lettura. Ma noi non saremo sempre lì a declamare per loro: non sarebbe neppure normale, perché la lettura è anche un fatto individuale e privatissimo, una sonda, un confessionale, un sogno, una cura, una fuga. Perciò io credo che dovremmo insegnargli anche ad ascoltare le voci di dentro. La lettura può partire in aula dalla nostra voce, ma è la loro che – alla fine – devono essere capaci di ascoltare per scoprirne differenze o affinità di timbro con quelle degli altri, per riconoscerne – nel frastuono indistinto degli schiamazzi – le modulazioni, lo spessore, la capacità e il diritto di dire.

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