La forza dell’utopia. Una riflessione sull’attualità di Ivan Illich
A cinquant’anni di distanza dalla prima pubblicazione, esce una nuova edizione italiana dell’opera di Ivan Illich Deschooling society (Descolarizzare la società. Una società senza scuola è possibile?, 1971, ora Mimesis 2019). L’opera conserva intatta tutta la sua carica di idealismo e di verità, come traspare dalle considerazioni conclusive del libro:
Certo, un’organizzazione imperialistica e capitalistica della società genera una struttura sociale entro la quale una minoranza è in grado di esercitare un’influenza sproporzionata sull’opinione della maggioranza. Ma in una società tecnocratica il potere dei capitalisti del sapere può impedire che si formi un’autentica opinione pubblica controllando le capacità scientifiche e i mezzi di comunicazione. Le garanzie costituzionali delle libertà di parola, di stampa e di riunione intendevano assicurare il governo del popolo. L’elettronica, i moderni procedimenti di fotocomposizione e di stampa in offset, i calcolatori che operano in tempo reale, i telefoni offrono in teoria un’attrezzatura che potrebbe dare a quelle libertà un senso del tutto nuovo. Ma purtroppo questi strumenti vengono impiegati nei media moderni per accrescere il potere, proprio dei banchieri del sapere, di convogliare i loro programmi preconfezionati, tramite catene internazionali, verso un maggior numero di persone, anziché essere usati per incrementare delle vere reti capaci di offrire eguali occasioni d’incontro fra i membri della maggioranza.
Leggere e discutere simili idee può essere utile in questo particolare momento storico, in cui la scuola è percorsa da una tensione molto marcata: da una parte, agisce una forte spinta verso forme di quantificazione, controllo, esattezza, oggettività (telecamere nelle aule, registri e comunicazioni elettroniche, proliferare di test e misurazioni nazionali ed internazionali degli apprendimenti, fiducia incondizionata nelle strumentazioni tecnologiche); dall’altra, si percepisce un diffuso bisogno di quello che Bergson chiamava supplemento di anima, uno spirito di appartenenza e di condivisione capace di tradursi in forme di comunicazione profonda e di relazione autentica fra i soggetti che abitano l’istituzione.
Letture come questa possono contribuire a restituire agli insegnanti lo slancio utopistico di cui molti sentono il bisogno.
UN LIBRO, MOLTE DIREZIONI
Qualunque chiave di lettura si voglia utilizzare, per comprendere le idee di Illich e misurarle sul nostro presente, impone una particolare cautela, nell’accostare realtà sociali e culturali tanto distanti da sembrare a volte mondi rovesciati.
Una prima chiave è storica e politica. Attraverso queste pagine, ci viene infatti restituito un quadro vivido e coinvolgente degli anni Settanta: grandi speranze, ideali internazionalisti comunitari e democratici, forti conflitti ideologici, violenza e repressione di Stato e per bande armate.
Una seconda è culturale e filosofica, e coincide con un momento straordinario di sviluppo del pensiero libertario, di messa in discussione dell’autorità costituita nei più diversi campi. In questa prospettiva, Illich si colloca accanto a Foucault, Chomsky, Laing, Deleuze e Guattari, e ad altri intellettuali – i primi nomi italiani che mi vengono in mente sono quelli di Basaglia e Pasolini – che segnano la storia culturale di quegli anni. Utilizzando un approccio interdisciplinare, capace di fare convergere i metodi propri delle differenti discipline (Diritto, Sociologia politica, Linguistica, Medicina, Pedagogia ed istruzione), questi intellettuali elaborarono una riflessione molto incisiva sull’intreccio fra strutture linguistiche-cognitive, immaginario individuale e collettivo, elaborazione di istituzioni e codici di comportamento.
Una terza chiave di lettura concentra l’attenzione sulla storia dell’educazione, sull’insegnamento e sull’apprendimento. In quest’ambito, l’autore tratteggia la nascita di una visione dell’adolescenza e del conseguente compito di formare il nuovo adolescente perché possa inserirsi nella società e nel mondo della produzione. Egli immagina anche, in termini abbastanza vaghi, scenari possibili di una rivoluzione nella scuola, che si accompagni ad un cambiamento profondo e ad una scelta etica nel mondo politico ed economico.
Il progetto occulto e il ruolo delle istituzioni
«La scuola è l’agenzia pubblicitaria che ti fa credere di aver bisogno della società così com’è».
In questa affermazione si concentra il senso del lavoro dell’istituzione scolastica secondo Illich: una spinta verso il conformismo, la sottomissione e l’obbedienza a qualsivoglia potere. A suo avviso, infatti, le scuole non dipendono da una particolare ideologia né da una particolare organizzazione del mercato e dell’economia: mentre altre istituzioni (famiglia, partito, chiesa, stampa) si differenziano in base a questi criteri, «il sistema scolastico ha dappertutto la stessa struttura e dappertutto il suo programma occulto produce gli stessi effetti».
Essi si producono attraverso una struttura arbitraria di contenuti ed idee scandite in modo artificiale in unità (le materie); queste vengono proposte senza diritto di critica ad un pubblico sempre più ampio, unificato ed omologato in partenza secondo il criterio dell’età, funzionale non ad un’idea naturale e soggettiva di crescita personale, bensì agli interessi della società industriale, dell’apprendimento e della simulazione dei ritmi del lavoro e della produzione, del successivo inserimento nel mondo produttivo:
[Questo programma] inizia il cittadino al mito dell’efficienza e benevolenza delle burocrazie guidate dalla conoscenza scientifica. (…) istilla nell’allievo il mito che una produzione maggiore assicurerà una vita migliore. E dappertutto crea l’abitudine al consumo frustrante di servizi e alla produzione alienante, l’assuefazione e il dipendere dalle istituzioni e l’accettazione delle gerarchie istituzionali. Il programma occulto realizza tutto questo nonostante gli sforzi in senso contrario intrapresi dagli insegnanti e qualunque sia l’ideologia dominante.
Questa interpretazione nasce da una precedente riflessione sulla natura profonda delle istituzioni, che distingue fra “istituzioni manipolatrici” ed “istituzioni conviviali”, e dalla constatazione che la prima tipologia è prevalente al punto da poter quasi caratterizzare l’epoca contemporanea all’autore, mentre la creazione di istituzioni conviviali è invece una concreta utopia da realizzarsi in futuro:
“Il futuro dipende dalla nostra capacità di scegliere istituzioni che favoriscano una vita attiva, più che dall’elaborazione di nuove ideologie o tecnologie. Abbiamo bisogno sia di parametri che ci permettano di individuare le istituzioni foriere di sviluppo personale anziché di intossicazione, sia della volontà di investire preferenzialmente le nostre risorse tecnologiche in queste istituzioni che favoriscono lo sviluppo.
Semantica della scuola di oggi: istituzioni, tecnologie, socialità
Queste riflessioni non hanno perso valore né incisività, nonostante siano state elaborate mezzo secolo fa. Ci impongono però un serio lavoro di contestualizzazione, se vogliamo servircene come lente per osservare il presente.
Da una parte, infatti balza agli occhi che il “progetto occulto” non è più tale, ed anzi la saldatura fra tecnocrazia, progresso e sapere è apertamente dichiarata e spacciata per “bene dell’umanità”. Eric Sadin, il filosofo francese autore di Critica della ragione artificiale (Luiss, 2019) definisce il processo «siliconizzazione del mondo» (è il titolo di un suo recente libro tradotto in Italia per Einaudi), pur senza dedicare un’attenzione specifica al tema dell’istruzione.
Anche la lotta contro questo progetto è sotto gli occhi dell’opinione pubblica: lo dimostra il caso del neuroscienziato ed intellettuale tedesco Manfred Spitzer, raccontato nel suo ultimo libro, Emergenza smartphone (Corbaccio, 2019), in particolare nel sesto capitolo (“Istruzione 0.0”). La sua vicenda offre, fra l’altro, un esempio significativo di come il potere istituzionale – se lo ritiene funzionale ai suoi scopi – ignori senza alcun imbarazzo le evidenze scientifiche e il metodo sperimentale che in altri ambiti (per esempio quello dei vaccini) considera supremo ed intoccabile
Tuttavia, l’utilizzo del termine “istituzione” – centrale nell’ipotesi di descolarizzazione elaborata da Illich – comporta oggi grandi problemi. Nel suo contesto storico e nel suo immaginario, infatti, “istituzione” indica un “luogo” di valori, codici, comportamenti pubblici storicamente sedimentati e riconosciuti, magari come idolo da abbattere. Infatti, egli indica come “destra” la parte politica e l’orientamento ideologico teso alla conservazione dello status quo e al consolidamento degli interessi del capitalismo industriale; come “sinistra”, una visione innovativa del mondo della produzione e della socialità. Nel suo pensiero, inoltre, la distinzione fra interessi “pubblici” e “privati” è assolutamente netta.
La situazione odierna è molto più fluida ed imprecisa – va di moda dire “liquida” , come dimostrano gli scritti di intellettuali come Colin Crouch, che hanno definito questi processi di mutamento (e la confusione semantica che ne deriva) a partire dalla fine del secolo scorso. All’indebolimento di significato subito da termini come quelli precedentemente indicati, si accompagna una crisi profonda delle istituzioni rappresentative e pubbliche stesse, e fra queste della scuola.
Se anche i governi dedicano (o fingono di dedicare) attenzione alla scuola – Crouch parla addirittura di «ossessione della politica contemporanea per l’istruzione» (Postdemocrazia, 2003) – conosciamo tutti bene il discredito nel quale essa è stata gettata negli ultimi vent’anni.
Per molti insegnanti, quindi, la percezione di sé come eventuali complici di un progetto di indottrinamento ha sicuramente meno rilievo di quanta ne abbia la coscienza di costituire spesso un baluardo – quasi la memoria storica – di valori e istituzioni fuori moda, come la scuola pubblica o la democrazia.
L’idea stessa di “socialità”, sulla quale Illich torna di continuo quando oppone istituzioni “conviviali” e “manipolatrici”, è stata totalmente rivoluzionata negli ultimi decenni, modificando profondamente il senso di parole come solidarietà, partecipazione, amicizia. A questo processo si è accompagnata l’esaltazione, per mezzo di strumenti potenzialmente libertari come le tecnologie portatili e la rete, di forti componenti di individualismo e egocentrismo: è la condizione ossimorica che l’antropologa Sherry Turkle ha definito nel titolo del suo libro Insieme ma soli, (Codice Edizioni, 2012).
Su questa parabola, che parte dai rivoluzionari ingegneri californiani che inventarono la rete per sottrarre potere alle élite e ai militari, e porta alle fabbriche di fake news e alla crisi (la fine?) fine del concetto stesso di “verità”, noi ci stiamo muovendo.
La natura umana e la costruzione del sapere
Nel 1971, Illich considera particolarmente importante l’antitesi – e la scelta etica che ne consegue – fra “una vita d’azione” e “una vita di consumi: afferma che «dovremo inventare una maniera di vivere che ci consenta di essere spontanei, indipendenti e tuttavia in stretti rapporti con gli altri, e non continuare in questo tipo di esistenza che ci permette soltanto di fare e disfare, di produrre e consumare (…), un tipo di esistenza che è una semplice stazione intermedia nel cammino verso il depauperamento e l’inquinamento dell’ambiente».
Nella sua riflessione filosofica, risale fino ad Aristotele, e alla distinzione fra fabbricare ed agire: «né agire è un modo di fabbricare, né fabbricare è un modo di agire veramente. (…) La fabbricazione ha sempre un fine altro da sé, l’azione no: una buona azione infatti ha come fine se stessa. La perfezione nel fabbricare è un’arte, quella nell’agire una virtù».
La tecnologia, afferma l’autore, mette a disposizione dell’uomo un tempo che egli può a sua discrezione riempire fabbricando o agendo, in una misura impensabile nell’epoca preindustriale, e contempla due modi per riempire questo tempo.
Il primo consiste «nello stimolare una maggiore richiesta di consumo di merci e, insieme, di produzione di servizi» e «comporta un’economia che fornisca un campionario sempre crescente di prodotti sempre nuovi, da fabbricare, consumare, sprecare e rimettere in circolo». Quest’atteggiamento «porta a identificare la scuola con l’educazione, l’assistenza medica con la salute, la partecipazione ad uno spettacolo con lo svago, la velocità con una locomozione efficiente. Questa (..) scelta viene oggi chiamata sviluppo».
Il secondo modo di riempire il tempo divenuto libero «consiste nella disponibilità di una limitata gamma di beni più durevoli e nell’accesso ad istituzioni che permettano di aumentare la possibilità e la desiderabilità dell’interazione umana».
Di fronte a quest’alternativa la scuola svolge, secondo Illich, il ruolo di una cassa di risonanza dei valori dominanti, venendo meno al principio fondamentale dell’educazione liberale: insegnare lo spirito critico. Egli esprime quest’idea con metafore molto chiare: «All’attuale ricerca di imbuti didattici si deve sostituire quella del loro contrario istituzionale: trame, tessuti didattici, che diano ad ognuno maggiori possibilità di trasformare ogni momento della propria vita in un momento di apprendimento, di partecipazione e di interessamento». Naturalmente, Illich non intende sostituire una nuova istituzione ad un’altra, ricadendo nella logica che governa i sistemi d’istruzione in vigore. Un buon sistema didattico, secondo Illich, dovrebbe porsi tre obiettivi: assicurare l’accesso alla risorse disponibili a chi desideri imparare, in qualsiasi momento dell’esistenza; permettere a chiunque voglia comunicare le proprie conoscenze di entrare in contatto con chi voglia imparare da loro; offrire a tutti quelli che vogliono sottoporre a pubblica discussione un argomento la possibilità di rendere nota la loro intenzione». Questo sistema comporterebbe la decadenza della specializzazione dell’insegnante, e delle garanzie connesse all’appartenenza alla categoria, ma consentirebbe un pieno esercizio della volontà e della libertà di chi vuole insegnare e di chi vuole apprendere. Nell’istruzione professionale, che gli sta molto a cuore, si potrebbe tradurre nella creazione di liberi centri di preparazione tecnica aperti a tutti. In modo ancora più radicale, si potrebbe pensare ad una sorta di banca per gli scambi di capacità, in cui ogni cittadino otterrebbe un’apertura di credito per l’acquisizione delle capacità fondamentali, risarcendo il suo debito attraverso l’insegnamento in altri ambiti.
Totalmente diversa la situazione in un contesto di obbligatorietà ed omologazione (degli individui in gruppi formati per età, delle materie in piani di studio più o meno rigidi), in cui l’educatore si rende comunque complice della logica della società dei consumi: trasformare il bisogno – molla fondamentale dell’agire umano – in aspettativa – funzionale al mito di un progresso illimitato attraverso consumi illimitati, che caratterizza la moderna società capitalistica. In sostanza, alienare i giovani dal mondo reale nel quale vivono. Di questa complicità, Illich fornisce definizioni assolutamente provocatorie.
La prima quando parla del ruolo delle istituzioni scolastiche nei paesi in via di sviluppo, grazie alle quali «i cittadini hanno imparato a pensare da ricchi e vivere da poveri». La seconda in quest’esempio: «Invece di imparare ad assistere la nonna, l’adolescente impara a picchettare l’ospedale che non vuole accoglierla».
Mitologie e rovesciamento
Nel corso del suo ragionamento, il filosofo analizza i miti che giustificano la pervasività e l’indiscutibilità dell’istituzione scolastica. Anzitutto, «la convinzione diffusa che il comportamento acquisito sotto gli occhi di un pedagogo abbia un valore speciale per l’allievo e costituisca uno speciale vantaggio per la società. Ciò si collega all’assunto che l’uomo sociale nasce soltanto nell’adolescenza, e nasce nella maniera giusta solo maturando nel ventre della scuola che alcuni vogliono addolcire con la permissività, altri riempire di sussidi audiovisivi e altri ancora riverniciare con una tradizione liberale».
Una volta di più, riemerge l’idea che la scuola obbligatoria concepita nella modernità industriale neghi libertà e scelta nella sua stessa essenza, nonostante qualsiasi variante e differenza superficiale nei metodi e negli approcci educativi: al di sotto di essi, infatti, esiste una comunanza profonda di intenti (occulti), che mettono i più diversi ideali e le ipotesi culturali più avanzate «al servizio della società migliore, concepita come una struttura corporativa altamente organizzata e funzionante senza scosse».
Da questo mito consegue «il tentativo di produrre specifiche modificazioni comportamentali che siano misurabili e attribuibili all’operatore» e «la pacificazione della nuova generazione in isole appositamente costruite, dove sia possibile conquistarla al mondo sognato dagli anziani».
Il rapporto fra insegnante e studente è sempre espressione di autoritarismo, non solo nei casi in cui chi insegna abusi del proprio potere. L’autoritarismo, a giudizio dell’autore, è insito in una relazione da cui «sono escluse tutte le salvaguardie della libertà individuale», in modo particolarmente evidente nei primi anni di scuola.
L’insegnante, detentore del potere di giudice, ideologo, medico «contribuisce alla distorsione del bambino assai più delle leggi che ne sanciscono la minorità giuridica o economica o limitano i suoi diritti di riunione o di movimento». La frequenza scolastica obbligatoria «sottrae i bambini al mondo quotidiano della cultura occidentale e li immerge in un ambiente assai più primitivo, magico e mortalmente serio», al cui interno – volente o nolente – chi insegna esercita il suo potere arbitrario.
Quantificare è l’imperativo categorico della scuola, ed è intorno a questo concetto che si polarizza un ideale di rovesciamento profondamente rivoluzionario.
I valori istituzionalizzati che la scuola inculca sono valori quantificati. La scuola inizia i giovani a un mondo dove tutto è misurabile, compresa la loro immaginazione.
Ma lo sviluppo della personalità non è un’entità misurabile. Avviene in una dissidenza disciplinata, che non può essere misurata da nessun metro e da nessun corso di studi, né può essere paragonata ai risultati raggiunti da qualcun altro. In questo processo di apprendimento si possono emulare gli altri solo nello sforzo immaginativo, seguendone le orme anziché scimmiottandone i passi. L’apprendimento che io apprezzo è una ricreazione incommensurabile.
(…)
Chi ha imparato dalla scuola a misurare si lascia sfuggire di mano le esperienze non misurabili; ciò che non può essere misurato diventa per lui secondario o minaccioso. Per questo, non occorre privarlo della sua creatività: l’istruzione gli ha già fatto disimparare a fare ciò di cui sarebbe capace o a essere se stesso e lo ha portato a dare valore soltanto a quel che è stato, o potrebbe essere, fatto.
Nuovi miti, nuove rivoluzioni: “descolarizzare” oggi
Le riflessioni qui sintetizzate toccano aspetti cruciali della trasmissione del sapere e dei suoi modelli, del rapporto fra ciò che si insegna e chi si è, di quel groviglio di eredità, imitazione e rivoluzione in cui consiste la vita di ogni donna ed ogni uomo. Indico in conclusione due di questi aspetti, la cui importanza mi sembra superare la dimensione di un’esperienza soggettiva, e sui quali la lettura di Illich ci costringe a pensare con lucida onestà.
Il primo è il rapporto dialettico fra fabbricare ed agire. L’interrogativo sulla relazione che intercorre fra i due elementi di questa coppia dialettica, e su come essa si realizza nella vita delle comunità scolastiche, conserva tutta la sua attualità. La testimoniano le accese discussioni suscitate, nel nostro paese, dall’introduzione delle norme sull’alternanza scuola-lavoro, e nel contesto europeo l’inserimento fra le otto competenze chiave della “competenza imprenditoriale”.
Sembra talvolta affacciarsi la convinzione che il semplice sviluppo di abilità di pensiero logico-argomentativo, la semplice capacità di scegliere alla luce di un consapevole ragionamento critico, non possano costituire il fine dell’insegnamento; debbano invece essere accompagnate, quasi testimoniate, dalla realizzazione di un “prodotto” (attualmente, va di moda la realizzazione di video) che conferisca concretezza ed evidenza a qualità altrimenti silenziose e nascoste. Non l’azione di pensare ma l’arte di perseguire uno scopo altro, costituirebbe il fulcro dell’attività scolastica, e il suo contributo alla vita nel mondo di fuori.
Nella stessa direzione sembrerebbe portare il compimento di una trasformazione descritta e temuta da Illich: la scuola come promotrice dell’idea di consumare beni e servizi in qualche misura istituzionalizzati.
In effetti, se si pensa agli open day che precedono la scelta di un indirizzo o di un istituto, sempre meno l’attenzione si concentra sulla sostanza del percorso di studi proposto, sulle sue semplici finalità culturali legate alle discipline che li caratterizzano (inevitabilmente scontate e sovrapponibili a quelle di altri analoghi indirizzi ed istituti); sempre più importanza, invece, acquisiscono servizi e beni accessori, molti dei quali estranei alla storicità dell’istituzione scolastica ed in buona misura imposti dal contesto socio-economico che la circonda. Nella recente esperienza di mia figlia, dalla scuola dell’infanzia alla secondaria di primo grado, ad esempio, la centralità dell’hip hop e del “pensiero computazionale” (qualsiasi cosa sia) è decisamente più significativa, ad esempio, di quella della pratica dell’educazione fisica o del disegno, o dello studio della matematica.
Si tratta, per seguire la logica di Illich, di una scuola che sceglie di rispondere non tanto ai bisogni, quanto alle aspettative di chi la frequenta. Il processo (evolutivo?) è risultato particolarmente evidente in certi momenti – ricordiamo tutti la scuola delle tre “i” (Inglese, Internet, Impresa), dell’utilizzo disinvolto di espressioni come “scuola-azienda” o di “cliente” invece di “studente” -, ma in generale caratterizza la contemporaneità.
Sulle motivazioni profonde di atteggiamenti di questo genere, nel contesto della visione attualmente vincente del progresso come crescita illimitata, ha scritto pagine significative il filosofo inglese Terry Eagleton, nel suo libro Speranza (senza ottimismo). Una guida filosofica.
Il secondo aspetto è il contrasto fra obbedienza e disobbedienza, in un tempo in cui il rifiuto dell’autorità e la critica sistematica all’istituzione non sono l’eccezione – né un atto di coraggio intellettuale – bensì piuttosto la regola, in forme spesso eclatanti ed estreme (nel caso della scuola, dal pubblico disprezzo ad opera di politici e persone comuni, fino al pestaggio dei docenti).
In questo contesto si collocano ricorrenti proposte di ritorno al passato, accompagnate talvolta dall’esaltazione di pratiche apertamente antidemocratiche come il nozionismo. Più in generale, su questo sfondo si stagliano le critiche al concetto di competenza e alla didattica per competenze che ne consegue, tacciate – l’uno e l’altra – di essere intellettualmente vuote, di svalutare la base stessa della cultura del singolo e della società, quando non di essere parte di un progetto tecnocratico (nel nostro caso europeo) di asservimento delle coscienze. Idee, tutte, degne di approfondimento e discussione.
Tuttavia, mi sembra che negli ultimi anni il mito vero con il quale fare i conti sia quello della meritocrazia, che si esprime nella scuola attraverso forme diverse ma insistenti di competizione (i fondi strutturali degli istituti trasformati in premi per gare fra gli istituti stessi, i bonus di varia natura elargiti agli insegnanti, il ricorso crescente a forme di valutazione legate a quello che il pedagogista Mario Castoldi definisce il “mito dell’oggettività”).
La scuola contemporanea è spesso un addestramento alla competizione fra diseguali, a partire dall’orrore del voto numerico in prima elementare, che istituzionalizza diversità e distanze che hanno ovviamente radici economiche, culturali e sociali ben precise, sulle quali (nonostante l’utopia dei padri costituenti ) né la Repubblica né la scuola incideranno a fondo.
Un libro recente di Federico Fubini (La maestra e il camorrista) descrive in modo argomentato la sostanziale inutilità degli infiniti cambiamenti apportati all’istituzione, e la sua costante incapacità di produrre un autentico progresso delle persone e incidere sul cosiddetto ascensore sociale, nel nostro paese.
La libertà, oggi, in gran parte dei paesi occidentali, non è tanto l’acquisizione di un diritto di parola e di critica di fronte ad un potere dispotico, ma la capacità di rinunciare a falsi modelli di realizzazione di sé, che passano attraverso il consumo, la competizione, la mercificazione di quel bene e bisogno primario che è imparare. Di questa libertà ha bisogno, per dirne uno, Enrico Bottini, lo “studente mediocre” di cui scrive Roberto Contu (Insegnanti, Aguaplano, 2019), descrivendo il più e il meglio del nostro lavoro.
Su questo scenario si proietta il tema della disobbedienza. Come ho affermato in precedenza, obbedire – alla propria coscienza, a valori etici, ad una legge o a un’istituzione – risulta spesso, oggi, un atto critico e rivoluzionario.
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