Joker, la violenza irredenta di una civiltà impotente (contiene spoiler)
Uno due tre. Quanti joker hai lasciato cadere? Quattro cinque sei. A quanti hai negato lo sguardo? Sette otto nove. Quanti ancora ne ignorerai domani…? Se c’è una potenza nel Joker di Todd Phillips sta forse nel fatto che attraverso la reinterpretazione di questo personaggio il regista ha colto l’opportunità di rappresentare, in termini del tutto visionari, la forza distruttiva di ciascun essere umano e dei conflitti di cui è portatore come essere sociale. Quella distruttività che rischia di essere sollecitata da ogni processo di rimozione, da ogni irresponsabile dimenticanza, tutte le volte che ostinatamente non si vuole guardare ciò che ha bisogno di essere guardato. Visto. Riconosciuto. Dunque, un film sulla nostra epoca, una critica alla società contemporanea occidentale come è stato detto e scritto, a patto però di riconoscere in noi stessi, nella tendenza delle nostre attitudini quotidiane, i primi destinatari di questa critica. A ben guardare infatti ogni lettura che muova dalla ricerca di simmetrie troppo stringenti tra la società Gotham City e l’Occidente appare forzata e in fondo insufficiente a chiarire non solo i presupposti di quella che è tra l’altro anche una gigantesca e riuscitissima operazione commerciale (che si fonda sulla riedizione di un fumetto, circostanza che ha il suo peso), ma anche a mettere a fuoco le implicazioni potenzialmente più produttive del film. È vero, Todd Phillips ci presenta una realtà metropolitana degenerata, nella quale si ammassano moltitudini di diseredati, poveri apertamente colpevolizzati dai ricchi detentori del potere per il fatto di essere poveri. Certo, si tratta di tendenze che albergano nel nostro mondo, sono dati di fatto. La retorica dei meritevoli che spesso imperversa ne è solo un esempio ben riconoscibile, il passo immediatamente precedente alla messa in croce del povero. Le infelici battute sugli analfabeti funzionali e sull’opportunità di limitare il diritto di voto ne sono un’altra deprecabile manifestazione. Del resto ormai si vive in un mondo sostanzialmente percepito attraverso le forme semplificate delle narrazioni pubbliche — sempre manchevoli di parti fondamentali — dalle quali germinano prese di posizione più o meno calcolate a seconda dei casi, le più disparate, talvolta becere, talvolta esasperate fino al limite del ricatto nel proporsi come politically correct, ma pur sempre anch’esse parziali e semplificate. Il dibattito pubblico colpevolmente occulta la complessità del mondo, fornisce chiavi di lettura che non rappresentano alcuna autentica mediazione con la realtà. Smesso di mediare, i media si sono o asserviti o inconsapevolmente piegati a un’operazione di ri-costruzione al ribasso del mondo, finché questo mondo depauperato di significati non finisce anch’esso per diventare reale e calarsi dentro una complessità che però non ha cessato di esistere per il solo fatto di non essere esplicitata. La Gotham City di Phillips parrebbe riflettere questo mondo. Parrebbe, dal momento che dietro questa constatazione sembra difficile scorgere un intento consapevole. Non si intravede infatti nel film alcun punto di frattura dal quale si intuiscano la consistenza e la dimensione dei problemi sociali di Gotham City, a fare da contrappunto alle forme di una realtà cupa che in definitiva il regista rende attraverso la bidimensionalità del fumetto. O meglio, il punto di frattura c’è, ma si colloca su un altro piano, sta nella preminenza che Phillips accorda con un rilievo indiscutibile al personaggio Arthur/ Joker, anche attraverso la giustamente celebrata interpretazione che ne ha reso Joaquin Phoenix. A fronte di questo Gotham City è alquanto sfumata sullo sfondo, la scelta del regista è radicale. Qualunque linea interpretativa si segua, quindi, non si può non tenere conto di questa macroscopica constatazione. E cioè della vicinanza che Phillips vuole creare con Joker e del fatto che questo punto di osservazione interno, intimo, relazionale implica lo spettatore in modo diretto. Di qui discendono anche le eventuali conseguenze che se ne possono trarre sul piano sociale.
Dunque, chi è Arthur? È il figlio adottivo di una donna affetta da psicosi, maltrattato come lei dal compagno, trovato dagli assistenti sociali legato a un termosifone. A questo figlio la madre ha nascosto l’adozione. Arthur si arrabatta come può facendo il clown, mentre si prende cura della madre ormai anziana e tiene a bada anche la sua psicosi, con ben sette farmaci diversi e sedute da una psicoterapeuta. La centralità del personaggio, della sua emotività alterata e dei suoi processi psicologici è restituita anche dalla prossimità della macchina da presa. Il viso è spesso in primissimo piano. Anche il corpo è mostrato con insistenza. E lo spettatore gli è vicino, è con lui sempre. Dunque chi è Arthur? Com’è fatto? È una sagoma stravolta da una postura contratta fino all’inverosimile, una voce distorta in una risata perenne, e cioè un disturbo neurovegetativo che gli causa continui problemi nell’incontro con gli altri: la risata s’innesca come una sorta di autodifesa in momenti emotivamente per lui difficili da gestire, e lui è costretto a mostrare un bigliettino in cui si spiega ai suoi occasionali interlocutori che si tratta appunto di un disturbo. Finché s’inseriscono gli eventi che portano al punto di rottura e successivamente le scoperte, inesorabili, una dietro l’altra. Il licenziamento, la follia della madre, nel cui delirio Arthur era diventato il figlio di Wayne, il magnate presso il quale da giovane la donna aveva prestato servizio e che poi sarà assassinato nei successivi tumulti. E ancora: la scoperta dell’adozione, la soppressione del servizio di assistenza psicologica per mancanza di fondi, che isola ulteriormente Arthur e che lo porta a sospendere i farmaci. E quindi la deviazione totale del personaggio. Quello che fino a quel momento era stato un antieroe che avrebbe potuto in qualche modo risolversi o soccombere (questa era per certi aspetti anche l’attesa narrativa), vira drasticamente verso la maschera. Arthur esplode e diventa Joker. Folle, squilibrato omicida. Ed è proprio qui, in questo sviluppo all’apparenza incoerente del personaggio, che il film ha il suo riuscito punto di svolta. Da quando Joker si fissa nella maschera del suo agghiacciante fisso sorriso, che si ridisegna con il suo stesso sangue nel mezzo dei tumulti di Gotham in fiamme, finisce anche lui nella dimensione di inappellabile bidimensionalità del fumetto. Non c’è più redenzione, solo eterna condanna. Non solo per sé stessi, ma anche per la società. Solo eterna violenza. Ed è qui, in questo punto di svolta, che lo spettatore riceve la sollecitazione più potente e inizia a interrogarsi.
Dunque, chi è Joker, se non l’eccentrico mascheramento del dolore più atroce, dell’impossibilità di condividerlo, della spietata incapacità dei tuoi simili di vederlo? Allora forse Joker è il punto di rottura oltre il quale l’essere umano è incapace di accettare, come parte ineliminabile dell’ordine delle cose, l’assenza di empatia, il mancato riconoscimento della propria esistenza, della propria identità, specie laddove essa si esprime in forme che non tollerano di essere normalizzate. È il punto in cui l’uomo, qualsiasi uomo, decide di smettere di subire ma lo fa con l’attitudine psicologica peggiore e da vittima diventa carnefice, con tutto ciò che ne può derivare. Nel caso specifico ne deriva, insieme ai morti disseminati da Joker, un tumulto sociale di cui lui è l’involontario ispiratore, un tumulto caotico, informe, che vale sostanzialmente a rilevare a quali conseguenze estreme possa condurre quella distruttività sollecitata. E quindi, alla fine, cos’è Joker, se non la violenza che torna indietro e l’affermazione di quanto sia pericolosa, oltre che ferocemente ingiusta, ogni forma di superficialità che attraversa il nostro mondo e che conduce alla rimozione di altri mondi, altre identità, che premono ai nostri confini, o che esistono nel nostro mondo, ma che ostinatamente non consideriamo? Rispetto a tutto questo il film ci interpella come parte in causa, ciascuno di noi, ogni giorno, non quindi come semplici spettatori-lettori-interpreti di un fumetto che disegna guardandole da lontano le ingiustizie del mondo, ma come parte attiva nella costruzione di una realtà che si può smettere di subire e legittimare attraverso un’attitudine diametralmente opposta a quella di Joker. Ed è proprio attraverso l’intimità relazionale costruita con il personaggio che il film conduce a questa drastica (ri)considerazione di noi stessi. Joker non ha ragione, eppure aveva le sue ragioni ignorate, che possono essere di volta in volta quelle che negli altri — tutti gli altri fatti inermi — noi ignoriamo, o le nostre stesse ragioni non viste. Non è dunque un’operazione semplicistica, per quanto semplicisticamente forse anche questo Joker rischi di precipitare nella nostra realtà con una carica simbolica tutta da decifrare. Colpisce che in queste settimane la maschera di Joker abbia attraversato alcune delle principali proteste politico-sociali del pianeta, comparendo nelle piazze di Beirut come di Hong Kong, fino al Cile. Con quale consapevolezza sarebbe molto bello indagare, con quale condensato di rivendicazioni sottostanti anche. Ma intanto il suggerimento che in definitiva è fecondo trarre dal film è l’invito a ricordare, sotto la forma del monito, che è data sempre, perfino nelle condizioni in cui si esprime nel modo più radicale tutto l’abominio dell’umano, la possibilità di una scelta, fosse anche solo interiore. Negare il nostro consenso a che le cose vadano come vanno. Ricostruire, anche attraverso i più consunti atti del nostro quotidiano, un’etica condivisa radicalmente diversa da quella semplicistica e bidimensionale di un mondo ridotto a fumetto, rappresentato come tale. Aprire lo sguardo. Disinnescare l’equivoco.
Uno due tre. Quanti joker hai lasciato cadere…? Quattro cinque sei. A quanti hai negato lo sguardo? Sette otto nove. Quanti ne guarderai domani…?
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