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Il mestiere del tradurre/ 9: tradurre Alt/America di David Neiwert

 Quando l’anno scorso con una telefonata Luca Briasco mi ha proposto la traduzione della monumentale inchiesta giornalistica di David Neiwert, ho accettato immediatamente e con entusiasmo. Amo la cultura americana e sono come la gran parte di noi stupefatto dall’attuale amministrazione, e tradurre questo libro mi avrebbe permesso di capire qualcosa in più sulla situazione. In Alt-America (uscito a settembre per Minimum fax), infatti, Neiwert fa confluire anni e anni di inchieste giornalistiche sull’estrema destra americana e sui suoi altalenanti rapporti con il Partito Repubblicano e con l’establishment, dai primi anni Novanta del secolo scorso fino praticamente ai giorni nostri.

Entrare nel testo non è stato facile, per diversi motivi. Innanzitutto, un saggio politico che parla dell’attualità azzera necessariamente ogni spazio tra il presente appena vissuto e il suo tentativo di storicizzazione. È cronaca, per la gran parte, non è storia. È una traccia di un presente in divenire, che non abbiamo ancora avuto la fortuna di poter osservare da una distanza sufficiente e che in qualche modo è giunto di rimando fino a noi, perlomeno nelle manifestazioni che potevano essere di un qualche interesse per noi europei. Quindi si scrive, e si traduce, a caldo. Che conseguenze ha questo sulla lingua? Nessuna, forse. Se è vero che la lingua e lo stile sono giornalistici – con le abituali difficoltà che tradurre un testo giornalistico americano comporta: a partire dalle ripetizioni, innanzitutto – va detto che a essi si aggiungono i rimandi o le citazioni a una serie enorme di documenti: parliamo di filmati, estratti da programmi televisivi e talk show radiofonici, esternazioni sui social network e così via. Un esempio su tutti: le dichiarazioni di Trump nel corso della conferenza stampa con cui annunciava la sua candidatura, tratte dalla trascrizione pubblicata dal Washington Post, una trascrizione giustamente asciutta, non editata, in pratica una sbobinatura della prosa zoppicante, infarcita di frasi fatte e di espressioni di uso comune, dell’attuale presidente. Ovviamente non poteva funzionare come testo scritto, ma andando su YouTube per rivedere per l’ennesima volta i filmati di quel giorno, mi sono convinto che il testo andasse trattato proprio in quel modo, senza toccare le pause di sospensione, le ripetizioni, le espressioni ambigue e le offese violente e volgari tout-court, ovviamente.

Parlavamo delle citazioni: nel libro c’è di tutto, talkshow televisivi, dibattiti radiofonici, post, tweet e qualsiasi altra forma di comunicazione online, dichiarazioni, interviste, striscioni e cartelli esibiti alle manifestazioni, scritte sulle fiancate dei pick-up e sulle magliette, sulle tazze e sui cappellini. E anche se per la gran parte le figure istituzionali e i commentatori usano una lingua mediamente alta – a parte i sostenitori più accesi di Trump, che ovviamente ne assumono il lessico e l’eloquio semplificato e ipersloganistico –, le espressioni del cosiddetto uomo della strada mi hanno dato non pochi grattacapi. Immaginate lo slang di un suprematista bianco del Montana o di un neonazista dell’Alabama. Anche se il senso di ciò che questa gente voleva comunicare era sempre chiarissimo, non è stato facile trovare il modo per rendere i vari non detti e le diverse sottigliezze che naturalmente si celano in qualunque parlata bassa –oltre alle offese irripetibili, ça va sans dire –, il cui scopo è quello di esprimere il massimo usando il minor numero di parole.

Un altro aspetto non secondario nella traduzione di questo libro è stata la necessità di ricucire in parte alcune delle vicende trattate: quando erano diventate fatti di cronaca noti a livello nazionale, l’autore giustamente non si è soffermato a evidenziare tutti i particolari, e questo talvolta per un lettore non informato sui fatti poteva costituire un problema. Quindi ho dovuto calarmi in un’indagine sulle indagini, diciamo così, per ricavare i pezzetti delle notizie che l’autore aveva deciso di tralasciare, andando a spulciare i quotidiani americani e utilizzando davvero tantissimo YouTube (sparatorie, risse, interviste, conferenze stampa della polizia, dichiarazioni di giudici, monologhi di suprematisti e neonazisti: gli amanti del genere possono visionare la sparatoria in cui ha trovato la morte LaVoy Finicum, a conclusione dell’occupazione del Malhuer National Refuge da parte di un gruppo armato di estrema destra [https://www.youtube.com/watch?v=eEswP_HSFV4], oppure l’intervento di Kellyanne Conway sulla diatriba in merito all’affluenza all’inaugurazione della presidenza Trump, in cui dice che la Casa Bianca ha offerto “alternative facts” che dimostrano che è stata maggiore rispetto a quella di Obama [https://www.theguardian.com/us-news/video/2017/jan/22/kellyanne-conway-trump-press-secretary-alternative-facts-video]).

La forza e l’importanza di questo libro risiedono nella miriade di informazioni accuratamente messe insieme negli anni dall’autore. Un lavoro minuzioso di ricerca, di scavo al di sotto del primo strato superficiale della realtà per snidarne tutte le connessioni nascoste o solo in apparenza invisibili. Sparatorie, aggressioni, scontri a fuoco, pestaggi, intimidazioni, minacce verbali, ribellioni armate e non, nei quali l’autore si è immerso al punto da ritrovarsi coinvolto in una rissa, ben presto degenerata in un omicidio, nel campus dell’università di Seattle, in occasione di un discorso tenuto da uno degli esponenti dell’Alt-Right più seguiti, Milo Yannopoulos. Neiwert era tra la folla allo scoppio dei primi tafferugli, era là per fare il suo mestiere di giornalista, quando ha visto chiaramente l’uomo che ha estratto la pistola e ha mirato a uno dei contestatori, uccidendolo. Grazie anche alla testimonianza dello stesso Neiwert, chiamato a deporre nel corso del processo, lo sparatore è stato giudicato colpevole di omicidio.

Vorrei chiudere con due note divertenti. La prima, l’algoritmo letteralmente impazzito in seguito a tutte le ricerche che ho effettuato nei tre mesi di lavoro su questo libro, che ha iniziato a propinarmi inserzioni di armi (molte, molte armi), siti e pagine social di neonazisti e attaccabrighe di estrema destra (molti dei quali prontamente segnalati) e… ebbene sì, anche la pubblicità dei famigerati cappellini MAGA, Make America Great Again. La seconda invece riguarda l’internet slang che ho cercato di rendere in modo arguto e rispettoso del senso originario, come ad esempio, uno degli hashtag preferiti dai sostenitori dell’Alt-Right: #cuckservative, formato da cuckold (ahem, “cornuto”) + conservative (“conservatore”), usato per denigrare i repubblicani che si mostravano troppo timidi in materia di immigrazione e nel sostegno a Trump, che ho tradotto con “cornservatori”. E poi uno ancora più divertente, della cui traduzione non sono pienamente soddisfatto anche se mi sembra di esserci andato molto vicino: Hollyweird, cioè il nomignolo che l’Alt-Right ha affibbiato ai liberali e progressisti –secondo loro – strambi e fuori di testa di Hollywood, per il quale ho coniato “Strambowood”, che non mi convince appieno perché così si perde la parte iniziale – Holly – che rende subito riconoscibile il riferimento all’industria cinematografica. Ma si sa, la traduzione è un lavoro imperfetto.

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