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diretto da Romano Luperini

EzraPound

Il mestiere del traduttore / 7: Antonio Bibbò – Tradurre il joyciano Pound

 Le lettere che il poeta americano Ezra Pound scrisse a James Joyce sono, assieme ai numerosi saggi, una eccellente prova della testardaggine con cui Pound provò, e riuscì, a ripescare dal potenziale oblio nel quale era finita, l’opera dello scrittore irlandese. Non fu il solo, ma fu forse il più infaticabile e convincente tra gli scrittori già variamente affermati che si diedero da fare per aiutare Joyce all’inizio della sua carriera. Quando dal Saggiatore mi proposero di tradurre queste lettere e saggi cruciali, mi trovai, tuttavia, un po’ in difficoltà. Da una parte c’erano dei testi interessanti e difficili – una “bella sfida” si dice educatamente di quei testi che ti fanno pensare ogni due o tre righe: “ma chi me l’ha fatto fare?” – di un autore da me poco amato, dall’altra c’era il destinatario di quelle lettere e il “beneficiario” di quei consigli e saggi che contribuirono a fare di lui una figura centrale del modernismo: Joyce, autore amato che mi tiene per mano fin dai primi anni dell’università. Ma l’indecisione durò ben poco, perché mi ha sempre incuriosito il modo in cui Pound, dopo lo sforzo fatto per imporre l’irlandese all’attenzione internazionale, se ne allontanasse. E se non credo che tradurre sia il modo più profondo di leggere un testo, sono convinto che si tratta del modo più lento, e quello che permette di frequentarlo con la calma maggiore, soprattutto quando hai la fortuna di incontrare un editore paziente. E poi, come giustamente ricordava Daniele Petruccioli in un bellissimo pezzo apparso proprio su queste pagine virtuali, ci sono pure le bollette da pagare, e così accettai.

In queste pagine è Pound a prendere per mano un incredibile giovane autore, sfortunatissimo con editori, tipografi e impresari (nei pur pochi tentativi teatrali), e ad aprirgli, come si dice, le porte della repubblica delle lettere modernista. L’atteggiamento quasi paterno, o al massimo da fratello maggiore, che Pound ha per Joyce (costanti sono le raccomandazioni, i consigli) fa sì che si faccia un po’ fatica a immaginarli perfino coetanei. E invece Pound è del 1885, perciò di tre anni più giovane di Joyce. Eppure nelle lettere questo rapporto è praticamente capovolto, con il giovane Pound che guida Joyce tra le acque agitate delle “riviste giovani e squattrinate” e degli editori di inizio Novecento:

Spero le piaccia il mio Properzio = io ho gli stessi Problemi suoi a farmi pubblicare, anche se sono molto più leggero & molto meno indecente = au moins = je suis peut-etre un peu plus phallique, mais mi interessent moins les excremens et le feces humains et des bestiaux; et les puces paraissent peu etc – e ciononostante il pubblico degli editori sembra orripilato dalla più imprevedibile piega del linguaggio – da qualsiasi riferimento ad abitudini razziali – perfino alle abitudini più necessarie alla preservazione della specie

Passaggi come questo restituiscono tutto l’entusiasmo di Pound per la parola. Un entusiasmo che non si può risolvere semplicisticamente con lo slogan modernista “Make it New!”. Il nuovo di Ezra Pound attraversa le epoche e i continenti, va dalla filosofia cinese alla poesia dei trovatori provenzali, da Cavalcanti (tradotto con passione) a Dante, fino ai romanzi “futuristi” di Windham Lewis. Il tutto in un continuo intreccio linguistico quasi mai fluido, spesso ruvido, di cui il passaggio di poche righe fa è solo un esempio, e neanche tra i più complessi. Le lingue che Pound usa nelle lettere, spesso senza dare l’impressione di curarsi della capacità del destinatario di comprenderle, sono un aspetto centrale della sua scrittura in questo volume. Del linguista Roman Jakobson si diceva che conoscesse innumerevoli lingue, ma tutte in russo. Di Ezra Pound si potrebbe dire la stessa cosa: tutto prende, nelle sue lettere e nelle poesie, una riconoscibile patina poundiana. Come affrontare perciò questa traduzione? Come trovare una voce tanto polifonica eppure così riconoscibile? Il passo citato sopra può essere ancora utile: nella sua furia plurilingue, Pound è ben poco attento all’ortografia e alla grammatica (in inglese come nelle altre lingue) e una certa approssimazione pervade tutte le lettere (“mi interessent”). La sua prosa è diretta, talvolta scabra fino a essere imprecisa, sgangherata perfino, quando la fretta è tanta (“yours in some hurry” = “affrettatamente suo” chiosa diversi messaggi), ma efficace, esondante ed eccessiva. Anche in inglese,  il “ventriloquente Agitatore” Pound bada poco alla forma e non si fa scrupolo di saltare di qua e di là dell’oceano alla ricerca della forma più adatta all’espressione del momento, sia questa una parodia del modo di parlare del sud degli Stati Uniti, dei poeti di Dublino, o della Oxford più posh. Trattandosi di lettere, perciò, il genere aiuta, come non succederebbe se il testo da tradurre fosse stato più controllato. Una volta stabilito che l’elemento più caratterizzante nella mia interpretazione del testo è quella ardita commistione di entusiasmo, fretta, erudizione e sicumera, diventa più agevole deragliare assieme a Pound nel tradurlo. Mi fu subito chiaro, perciò, che se non potevo agevolmente rendere le varie peculiarità regionali e nazionali degli inglesi da lui impiegati, potevo però ricostruire il tono e il timbro con strumenti affini. In questo senso, bisogna fare attenzione ad elementi non solo linguistici (ortografie idiosincratiche, frasi monche, ambiguità ecc.), ma anche agli aspetti “materiali” del testo: le maiuscole spesso casuali, l’uso di simboli e sottolineature di varia foggia e così via. Spesso, ovviamente, non è possibile usare lo stesso simbolo in italiano che Pound usa in inglese e in quei casi si può (e secondo me, si deve) compensare in altro modo. Quando invita Joyce a stare in un albergo economico nella catulliana Sirmione, ad esempio, Pound scrive, nel testo inglese “pensione @14 lire”. La chiocciola non avrebbe senso nel testo italiano e perciò ho deciso di dare un’idea della scrittura stenografica di Pound, simile alla scrittura da cellulare alle volte, lasciando simboli commerciali come la “&” che in italiano hanno meno senso perché rispetto all’“and” inglese non risultano più veloci di una semplice congiunzione “e”. Ma in quel caso era l’aspetto, la qualità visiva del testo, a interessarmi, assieme alla tendenza di Pound a impiegare elementi incongrui nella sua scrittura (non solo) privata.

L’inventiva effimera di Pound si manifesta poi spesso in giochi di parole non sempre felici, che permettono però delle ricreazioni in italiano spesso altrettanto deludenti. Se alla fine di una lettera manda i suoi migliori saluti al “pere de famille” (rigorosamente senza l’accento sulla prima “e”) e ai suoi “offspring, (or possibly “springs”, in the plural,)”, il gioco che mi è parso opportuno fare è stato trasformare la “progenie” in “pro-geni”. Oppure la “Po-lice”, – con “lice” che vuole dire “pidocchi” – diventerà “i piedipiattole”, ma anche “pulciziotti” o “pulcizìa” sarebbero andati bene, e soprattutto quest’ultimo, perché l’insolito accento sulla “i” avrebbe forse ricordato meglio la strana grafia del “Po-lice” di Pound. Secondo lo stesso principio, il gioco di parole, stavolta joyciano, “I opened the window and in flew Enza!” [= influenza] diventa “«Ho aperto la finestra e ho preso un colpo di Alfredo!”. In altri casi, l’italiano aiuta a compensare la necessaria perdita di alcuni calembour, perché se per Pound l’Ulisse non veniva pubblicato in Inghilterra a causa della “unwillingness of the print-packers (a word derived from pork-packers)”, in italiano si è potuto giocare su ciò che suggeriva la parola “tipografo” e dare la colpa alla “riluttanza dei trippografi”. La sfida, in molti di questi casi, è stata forse riuscire a evitare una eccessiva scorrevolezza e precisione nel rendere le ambiguità del flusso di coscienza epistolare inarrestabile di Ezra Pound. L’americano, come detto, rasentava la grafomania e scriveva una enorme quantità di lettere al giorno (e spesso infatti se ne lamenta con Joyce); mi è sembrato perciò opportuno non correggere i frequenti errori: questi non sono un caso, ma una caratteristica centrale di questo tipo di testo. In particolare, ho deciso di non correggere il francese di Pound e perfino di provare a renderne la macchinosità nella traduzione di servizio italiana per il saggio su ‘James Joyce et Pécuchet’. Tradurre “male”, anche quando necessario come in questi casi, è spesso difficile, sia per la paura di essere fraintesi dal pubblico giustamente attento, sia perché si rischia alle volte di farsi prendere la mano; ed è qui che l’editore e il redattore attenti al testo risultano fondamentali.

Le poesie burlesche che ogni tanto spuntano tra le lettere sono state in questo senso cruciali. Queste devono essere divertenti, ma al tempo stesso non troppo limate e dare l’idea dell’occasionalità della quale sono figlie. I due corrispondenti si scambiano soprattutto limerick. Nel 1916, Pound si prende gioco di Joyce con questo limerick, della cui imperfezione era ben consapevole:

“There was once a young writer named Joyce

Whose diction was ribidly choice,

And all his friends’ woes were deduced from his prose

Which never filled anyone’s purse

Queste righe possono essere considerate un limerick solo in alcune parti di New York, nei corridoi dell’Università della città di N.Y. ecc. ecc. dove, glielo posso garantire, la rima «-urse» e «oice» risuona alle loro orecchie con esattezza perfetta.”

La traduzione, che prova anche a riprendere lo stile un po’ desueto tipico della traduzione dei limerick in italiano, sarà allora altrettanto zoppa:

«C’era Joyce, giovin romanziere

con lo stile ribaldo e guerriero

della sua prosa gli amici subivan le bizze

ma coi libri non riempiva il forziere.»

Nel corso degli anni, le lettere di Pound si fanno più rare e il suo stile più sregolato. Aumenta anche un certo rancore nei confronti di Joyce, dal quale ormai, dalla fine degli anni Venti in poi, lo separano tanto le idee politiche tanto quelle estetiche. “J.J. ubriaco non è più interessante di qualunque altro ubriaco, dannazione . . . o meglio, questa è un’esagerazione. E però secondo me un personaggio qualsiasi in un giallo di Simenon s(arebbe) forse un fardello migliore da portare su in camera.” scrive in una lettera del 2 febbraio (il compleanno di Joyce!) del 1934 a Robert McAlmon. Un Pound sempre più vicino al fascismo (negli anni della guerra si dedicherà persino alla propaganda radiofonica su Radio Roma) continuerà a esaltarne il genio, ma anche talvolta a parodiarlo. In alcune missive sembra perfino – sorprendentemente – provarsi nello stile notturno di Finnegans Wake, tradendo forse una volontà di emulazione più che la chiusura totale a quello stile “da ubriaco”. E così, in una lettera a Richard Aldington, del 1928, in risposta a una parodia joyciana dei suoi Cantos, Pound si “vendica” rifacendo, e criticando, lo stile di Finnegans Wake:

My DeaHH Richard,

NO

I do NOT take an idea which I expressed lucidly

13 years ago, and doll it up in the rags and bobs

 of Mssrs W. Lewis and J. Jheezus Joyce.

Transition has this a.m. arrived, and I «got» your

insult re/Mr Gillespie.

The young follow poppa. In this case the young is

trying to follow three poppas at once. Me for the

root idea (as I nacherly and will probably be

more obviously prevalent in more and MORE young with

the ow of time), Jim and Wyndham for the

kombobo-whyliating of the arsebeforebehindside of word-y-

wobble hitchhatch tho’ why a kobbobibbleofanglomurkn

syllables shd. Be forthe of meaning to before ness

less utile than the same with applyto greekand by none

more or by moremoreorless comprehended hellenicsyllables

is not

In fact this new syllabation is defensible by logic,

but not practiced with moderation.

E in “italiano”:

Mio caaaro Richard,

NO

io NON prendo un’idea che ho espresso lucidamente

13 anni fa e la metto in ghingheri con gli stracci e la zazzera

dei signori W. Lewis e J. Gesù Joyce.

Transition è arrivato stamane e io ho “capito” il tuo

insulto a proposito di Gillespie.

I giovani seguono il paparino. In questo caso il giovane sta

provando a seguire tre paparini assieme. Me per l’idea

alla base (giacché io, è ccchiaro, sarò probabilmente

sempre più prevalente in un numero sempre più AMPIO di giovani col

passare del tempo), Jim e Wyndham per la

kombobo-perchesalante del culoprimadeldidietro dell’intoppostoppa

parolaio-sobbalzante anche se perché un kobbobibbiangloscurare

le sillabe dovrebbero prima del significato nella prece denza

meno utile dello stesso con il greco non adoperato da nessuno

più o da piùpiùomeno comprendevano ellenosillabiche

non è.

Di fatto, questa nuova sillabazione è difendibile a rigor di logica,

ma non praticata con moderazione.»             

Ma rispetto al Work in progress joyciano, che dà vita a una ultralingua fatta di incontri e polisemie, forse qui Pound mostra tutta la sua, comprensibile, incapacità di immedesimarsi nel serissimo gioco di Joyce e lo riduce a una “sillabazione”, a una mossa tutta esterna e superficiale, a un mettere le parole assieme non per crearne di nuove grazie ad incontri inaspettati, ma per dare vita a una cacofonia. Le parole mostruose di Pound mostrano forse che della nuova musica del libro notturno di Joyce, le sue orecchie erano sensibili solo alle note più stridenti. Le loro strade, a questo punto, non potevano che dividersi.

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