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diretto da Romano Luperini

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Cuori strappati e teste mozzate: emozioni e oggetti parziali nella IV giornata del Decameron

 La quarta giornata del Decameron si apre con una lunga introduzione in cui Boccaccio si difende dalle critiche ricevute dopo il primo diffondersi delle novelle. Lo scrittore descrive i diversi attacchi, fra cui risaltano tre obiezioni principali: la materia sentimentale che caratterizza la maggioranza dei testi lascia trapelare una attenzione sconveniente rivolta alle donne – «hanno detto che voi mi piacete troppo e che onesta cosa non è che io tanto diletto prenda di piacervi e di consolarvi […] -; l’atteggiamento di Boccaccio appare particolarmente indecoroso per motivi anagrafici – «alla mia età non sta bene l’andare omai dietro a queste cose, cioè a ragionar di donne o a compiacere loro» -; le novelle non sono verosimili, perché altererebbero gli eventi storici su cui si fondano – «E certi altri in altra guisa essere state le cose da me raccontatevi che come io le porgo s’ingegnano in detrimento della mia fatica di dimostrare». L’autore del Filocolo e del Filostrato farebbe meglio a intrattenersi con le Muse, dimenticando le distrazioni della carne per rendere pienamente onore al suo talento. Prima di rispondere direttamente, Boccaccio racconta un breve apologo che rappresenta anche una chiave per leggere la giornata dedicata agli amori tragici. È la storia di Filippo Balducci, fiorentino benestante, «sommamente» (Boccaccio p. 331) innamorato di sua moglie. L’amore di Balducci, ricambiato, è descritto in termini assoluti, leggiamone un passaggio su cui ritornerò spesso:

[…] e a’ miei assalitori favelando dico

Che nella nostra città, già è buon tempo passato, fu un cittadino il quale fu nominato Filippo Balducci, uomo di condizione assai leggiere, ma ricco e bene inviato e esperto nelle cose quanto lo stato suo richiedea; e aveva una sua donna moglie, la quale egli sommamente amava, e ella lui, e insieme in riposata vita si stavano, a niuna altra cosa tanto studio ponendo quanto in piacere interamente l’uno all’altro. (pp. 330-31, parole evidenziate mie)

La formula attraverso cui Boccaccio esprime una tipologia di amore estremamente intenso è particolarmente significativa, per ora, però, seguiamo la storia di Filippo. Alla morte della moglie, l’uomo, in accordo con la sua passione soverchiante, sceglie una soluzione estrema: si trasferisce in luoghi selvaggi con il figlio di due anni e diventa un eremita il cui unico scopo è servire Dio. Dopo diversi anni il giovane, ormai adulto, chiede a Filippo di accompagnarlo in città per fare acquisti e lì si imbatte per la prima volta in un gruppo di donne. Meravigliato e attratto, chiede spiegazioni al padre, che per due volte gli risponde laconico «”Elle son mala cosa”». L’avvertimento non serve, il giovane insiste, vuole sapere almeno che nome abbiano quegli esseri così meravigliosi: «Elle si chiamano papere», risponde Filippo. La novella si chiude su uno schema comico piuttosto elementare: «Elle son più belle che gli agnoli dipinti che voi m’avete più volte mostrati! Deh! Se vi cal di me, fate che noi ce ne meniamo colà sù di queste papere, e io le darò beccare». Eppure questo apologo o micro-novella d’autore pone diversi problemi: se è in linea con la materia comico-erotica della terza giornata, si adatta piuttosto male alla giornata che dovrebbe introdurre; inoltre la sua funzione auto-apologetica non è chiara: perché la storia di Filippo e suo figlio dovrebbe scagionare Boccaccio dalle accuse ricevute? Il commento d’autore offre una motivazione vaga: se un giovane «nudrido, allevato, accresciuto sopra un monte salvatico e solitario» (p. 333) ha sentito così forte il potere del desiderio per le donne, come può un uomo esperto delle cose del mondo rifiutare la compagnia femminile? Una spiegazione piuttosto sghemba, che però non adombra l’importanza dell’apologo. Questo testo ci pone davanti all’antitesi su cui si concentreranno tutte le novelle della quarta giornata: natura contro ragione, una lotta tra emozioni e repressione sociale che produce esiti tragici. Inoltre dimostra quanto Boccaccio avesse preso le distanze da quel modello dantesco per cui l’amore soverchiante di Paolo e Francesca è eternamente condannato fra i lussuriosi.

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Che Boccaccio fosse dalla parte di passione, desiderio e sensualità è ormai un luogo comune, lo nota anche Asor Rosa quando rileva che la prima costante nel Decameron è un impulso originario di eros di fronte a cui ogni legge o regola cede il passo. Eppure, al di là della superficie, è più difficile definire in maniera appropriata quale sia la posizione dello scrittore rispetto a questi amori fuori misura descritti nella quarta giornata. L’obiettivo che i giovani narratori si pongono all’inizio dell’opera – interrompere temporaneamente l’orrore apocalittico della peste – viene decisamente meno: nelle novelle tragiche si intrecciano desiderio e pulsione di morte, un contrasto che consente il ritorno di quell’immaginario mortifero da cui i narratori avevano cercato di allontanarsi. La problematicità della materia scelta dal re Filostrato è chiara a tutti i narratori: «Fiera materia di ragionare, n’ha oggi il nostro re data, pensando che, dove per rallegrarci venuti siamo, ci convenga raccontar l’altrui lagrime, le quali dir non si possono che chi le dice e chi l’ode non abbia compassione (p. 337)». È Fiammetta a parlare, introducendo subito quella complessa dinamica di identificazioni emotive multidimensionali («compassione») che costituisce uno degli aspetti più interessanti di questo gruppo di novelle: ai dolori dei personaggi delle storie raccontate – che soffrono, piangono, si disperano – corrispondono sia i turbamenti dei narratori intradiegetici che quelli dei lettori, destinatari ultimi a cui tutte le novelle richiedono una forte compartecipazione. Eppure Fiammetta non risolve le perplessità che derivano dalla scelta di tale «fiera materia»: forse il re Filostrato mirava a «temperare alquanto la letizia avuta li giorni passati», ma le ipotesi della narratrice si arrestano subito e il problema rimane irrisolto.

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La prima novella della quarta giornata presenta la storia di Tancredi, principe di Salerno, che uccide il giovane Guiscardo, amante di sua figlia Ghismunda, che non regge il dolore di questa perdita e, nel finale, si suicida. Un triangolo amoroso che contiene in nuce temi e motivi che ritorneranno nelle novelle successive e che si svolge attorno a un oggetto: il cuore di Guiscardo, che Tancredi fa strappare dal petto del giovane per presentarlo a Ghismunda in una coppa d’oro. Federico Poletti ha notato come questo cuore, «topico simbolo d’amore offerto e ricevuto», intesse tutte le relazioni emotivo-comportamentali della novella: «una giovane donna che dona il suo cuore, in senso metaforico, a un giovane cavaliere il cui cuore corporeo ella poi riceve come dono, spettrale e orrido pegno dell’amore paterno» (Poletti p. 240). Anche Michelangelo Picone ha insistito sulla struttura triangolare, rilevando come la novella è percorsa da due «tipologie» di amore: «da una parte abbiamo […] l’amore paterno e filiale che lega Tancredi e Ghismonda, e dall’altra troviamo l’eros, l’amore sensuale che unisce Guiscardo e Ghismonda» (p. 188). Questi due filoni si intrecciano attorno al tema del cuore strappato, che denuncia l’intessitura tragica della novella, dai lais di Marie de France al Tristano e Isotta. La vicenda di Tancredi, Ghismunda e Guiscardo è inoltre quasi speculare alla materia della nona novella, che narra l’amore di Gugliemo Guascardo e della moglie di Guglielmo Rossiglione: in questo caso è il marito tradito a far uccidere l’amante, a estrargli il cuore e a farlo mangiare alla donna inconsapevole. Il motivo classico del pasto cannibalico di Tieste si riunisce a quello del cuore mangiato, che ha una tradizione sconfinata, ma guarda in particolare all’antecedente della Vita nuova di Dante. Il cuore è il punto in cui si concentra l’anima secondo la fisiologia medioevale, ma anche metafora dell’amore che trasforma l’oggetto in sineddoche in cui rivive tutto l’amato. Ma prima di seguire questa strada retorica e emotiva, voglio mettere in evidenza la seconda costante, meno ovvia, che riunisce le due novelle del cuore strappato. Dell’amore di Ghismunda e Guiscardo, Fiammetta ci dice che è fortissimo, addirittura smisurato. Si inizia con Ghismunda che, notato l’umile valletto del padre, «fieramente s’accese» e si passa a Guiscardo: «E il giovane, il quale ancora non era poco avveduto, essendosi di lei accorto, l’avea per sì fatta maniera nel cuor ricevuta, che da ogni altra cosa quasi che da amar lei aveva la mente rimossa» (p. 338). La passione estrema è condivisa: «In cotal guisa adunque amando l’un l’altro segretamente, niuna altra cosa tanto disiderando la giovane quanto di ritrovarsi con lui, né vogliendosi di questo amore in alcuna persona fidare, a dovergli significare il modo seco pensò una nuova malizia» (p. 338). Non c’è cosa che gli amanti desiderino di più: il sintagma con cui era descritta la passione che legava Filippo Balducci a sua moglie ritorna per due volte: «a niuna altra cosa tanto studio ponendo quanto in piacere interamente l’uno all’altro». Anche Guglielmo Guardastagno ama eccessivamente la moglie dell’amico Rossiglione:

E come che ciascun dimorasse in un suo castello e fosse l’uno dall’altro lontano ben diece miglia, pure avvenne che, avendo messer Guglielmo Rossiglione una bellissima e vaga donna per moglie, messer Guglielmo Guardastagno fuor di misura, non obstante l’amistà e la compagnia che era tra loro, s’innamoro di lei, e tanto or con uno atto or con un altro fece, che la donna se n’accorse; e conoscendolo per valorosissimo cavaliere le piacque e cominciò a porre amore a lui, in tanto che niuna cosa più che lui disiderava o amava, né altro attendeva che da lui esser richiesta […]» (p. 400)

«Niuna cosa», «niuna altra cosa», come «niuna altra cosa» anche per Filippo Balducci. C’è una sola altra novella in cui l’amore tragico si fonda su un iperbolico rifiuto di tutte le cose del mondo: è la quinta novella, anche questa notissima, di Ellisabetta da Messina che ama l’umile garzone Lorenzo, ucciso dai tre fratelli della donna. La vicenda è nota: Lorenzo è attirato con l’inganno in un’imboscata e ucciso, Lisabetta, inconsolabile, piange l’amante assente finché una notte Lorenzo le compare in sogno e le racconta la verità. Recatasi nel luogo mostratole dal giovane in sogno, Lisabetta taglia la testa del cadavere per conservarla come una macabra reliquia, la nasconde in un’urna rappresentata da un vaso di basilico, e non se ne separa mai. I fratelli,  notato lo strano comportamento della donna, glielo portano via e scoprono la testa non del tutto corrotta di Lorenzo. Nel finale i tre mercanti abbandonano Messina, mentre Lisabetta muore di dolore. Anche nelle emozioni rappresentate di questa giovane protagonista c’è qualcosa di eccessivo: all’inizio della novella, quando viene scoperta da uno dei fratelli, leggiamo che «avendo insieme assai di buon tempo e di piacere, non seppero sì segretamente fare […]» (p. 375). Ma è soprattutto il contegno della fanciulla dopo la scoperta della morte di Lorenzo che desta di nuovo l’attenzione dei fratelli: «e servando la giovane questa maniera del continuo, più volte da’ suoi vicini fu veduta. Li quali, meravigliandosi i fratelli della sua guasta bellezza e di ciò che gli occhi le parevano della testa fuggiti, il disser loro: “Noi ci siamo accorti che ella ogni dì tiene cotal maniera”» (p. 377). La seconda costante che riunisce queste tre novelle di amori eccessivi è allora rappresentata dall’amore smodato, che si rivolge con la stessa intensità sia all’amante intero che a ogni sua parte, escludendo il mondo. Non è un motivo secondario che Lisabetta – a differenza di Ghismunda e della moglie di Guglielmo Rossiglione- effettui autonomamente l’identificazione parte-tutto: se l’intento iniziale della giovane è quello di dare degna sepoltura a Lorenzo, diventa subito chiaro che la testa è il sostituto di Lorenzo, un oggetto parziale che assume in sé tutte le caratteristiche dell’amante perduto. Sono invece padre e marito traditi, nella prima e nella nona novella, a effettuare la sostituzione sineddotica: il cuore strappato sta al posto della persona, ne racchiude l’essenza e tutte le qualità, ed è un macabro pegno d’amore disperato che provocherà il suicidio delle destinatarie. Questa dinamica che lega corpo, oggetti e emozioni è stata molto studiata in psicoanalisi ed è già presente in Freud, che ha riflettuto sulla funzione degli oggetti parziali nelle situazioni di lutto: «Noi reputiamo di possedere una certa quantità di capacità d’amare – che chiamiamo libido – la quale agli inizi dello sviluppo è rivolta al nostro stesso Io. In seguito, ma in realtà molto presto, la libido si distoglie dall’Io per dirigersi sugli oggetti, che noi in tal modo accogliamo per così dire nel nostro Io. Se gli oggetti sono distrutti o vanno perduti per noi, la nostra capacità di amare (la libido) torna ad essere libera» (Freud p. 175). Sulle relazioni oggettuali, però, Melanie Klein ha corretto e superato Freud, scrivendo pagine importanti a proposito delle prime fasi dello sviluppo infantile. In La psicoanalisi dei bambini, Klein interpreta l’angoscia e l’aggressività manifestate dal neonato come l’impossibilità di soddisfare appieno le pulsioni distruttive. Partendo dal lavoro di Freud sulla prossimità del principio di piacere alla pulsione di morte, Klein spiega che la frustrazione del bambino è data dall’incapacità di realizzare completamente le proprie spinte libidiche che imporrebbero il possesso completo, assoluto e totale dell’oggetto che desidera. In questa spinta sadico-distruttiva, il bambino non distingue ancora il soggetto dalle sue componenti, così che l’individuo e le sue singole parti sono intercambiabili: il seno materno è l’oggetto parziale con cui il bambino stabilisce una relazione e sta al posto della madre che appare come una infinita “senità”. Il desiderio di sottrarre dal corpo della madre tutto quanto esso contiene per inglobarlo e distruggerlo, unito al movimento sineddotico per cui il seno diventa tutta la madre, sono aspetti normali nello sviluppo psichico del neonato.

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La psicoanalisi ci consente di riconsiderare le tre novelle della quarta giornata che ho preso in considerazione: come visto, tutte le novelle presentano un’emozione sovrabbondante che supera ogni limite e in cui i personaggi trattano gli oggetti parziali come sostituti completi dell’amante assente. L’atto di mangiare il cuore, oppure quello di baciare e venerare una testa mozzata, non sono dunque macabri indizi di necrofilia, ma diventano la rappresentazione letterale di un istinto psichico profondo: quello di amare fino a distruggere la persona amata e ogni sua parte. Anche Matte Blanco è giunto a conclusioni simili nei suoi studi sulle emozioni umane. A proposito delle relazioni amorose, Matte Blanco ha rilevato alcune caratteristiche specifiche: quando il legame emotivo è particolarmente forte, un individuo può essere considerato come il depositario di qualità infinite; inoltre ogni parte della persona oggetto dell’emozione viene a coincidere con l’intero: «Un giovane è innamorato di una bella ragazza, che può avere occhi di sogno. Questi occhi non sono per lui semplicemente una cosa concreta ma evocano anche un senso di bellezza illimitata, di bontà inesauribile, sono l’incarnazione di numerosi desideri più o meno oscuri e lo stesso vale per ogni sua caratteristica. […] È l’emozione che ci permette di portare all’estremo ed al massimo delle potenzialità le caratteristiche di una data situazione o persona» (Matte Blanco pp. 263-67). Matte Blanco, come la Klein, riconosce che un’aggressività sadica e distruttiva è alla base di emozioni amorose infinitizzanti e irradianti, riconoscendo che il consueto sviluppo della coscienza consente all’Io di trovare un equilibrio tra «la vita onnipotente e senza limiti dell’inconscio» e quella «limitata e limitante del mondo esterno» (Matte Blanco p. 199). È in questo spazio psichico che le novelle del Decameron si dimostrano di estremo interesse: nella prima e nella nona novella, padre e marito traditi offrono alle donne un oggetto parziale che è il sostituto del loro amante, mentre nella quinta è Lisabetta a effettuare autonomamente questa sostituzione. È un cortocircuito per cui personaggi superegotici (padre, fratelli, marito traditi) consentono a Ghismunda, Lisabetta e alla moglie di Guglielmo Rossiglione di possedere totalmente l’amante attraverso una sua parte, innescando così un processo di auto-distruzione. L’atto di offrire il cuore, dunque, non è solo la resa letterale una catacresi, ma si trasforma in una estrema soddisfazione delle pulsioni libidico-distruttive che rende impossibile il passaggio da oggetto a mondo esterno, fondamentale per un adattamento graduale nei confronti della realtà. Le relazioni oggettuali, infatti, sono il primo modo attraverso cui l’essere umano entra in contatto con l’Altro e inizia a adattarsi alla realtà, limitando le pulsioni sadiche e le spinte di introiezione e distruzione degli oggetti. Non è un caso che gli assassini siano in relazioni sentimentali con le donne che tradiscono: ufficialmente, come nel caso di Guglielmo Rossiglione e sua moglie, oppure clandestinamente, come nel caso, più esplicito, dell’amore incestuoso di Tancredi per Ghismunda, ma anche per Lisabetta la chiave di lettura che si fonda su una gelosia amorosa dei fratelli è stata più volte impiegata. È qui, dunque, che una lettura psicoanalitica si collega al senso tragico delle novelle considerate: le storie di Ghismunda, Lisabetta e della moglie di Guglielmo Rossiglione ci pongono davanti a relazioni passionali estreme che comportano un senso di alienazione totale dal mondo: niuna altra cosa, niuna cosa, niuna altra cosa. Questa solitudine degli amanti è in netta antitesi con la regola cortese della socialità dell’amore, ma anche con l’ideale di autocontrollo interiore perseguito dall’ ”onesta brigata”. La materia del ragionare è «fiera» e imbarazzante, dice Fiammetta in apertura, perché le storie d’amore soverchiante e tragico provocano un’identificazione emotiva con una tipologia di amore distruttivo. Eppure è anche un amore in grado di elevare gli amanti a partire dalle condizioni estreme in cui si sviluppa: «O molto amato cuore, ogni mio uficio verso te è fornito, né più altro mi resta a fare se non di venire con la mia anima a fare alla tua compagnia».

La passione erotica senza confini, ha scritto Vittore Branca, ottiene la sua consacrazione nel discorso finale di Ghismunda a Tancredi, tutto in settenari e endecasillabi. L’aspetto distruttivo, destabilizzante e antisociale delle relazioni oggettuali permette così di cogliere appieno le caratteristiche dell’amore passionale, mortifero, solenne e infinito del Decameron, unico perché diverso sia dal modello cortese che da quello dantesco.

Riferimenti

Boccaccio, Giovanni, Decameron, a cura di Vittore Branca, Einaudi, Torino, 2004.

Freud, Sigmund, Caducità, in Id., Introduzione alla psicoanalisi e altri scritti, Boringhieri, Torino, 2002.

Matte Blanco, Ignacio, L’inconscio come insiemi infiniti. Saggio sulla bi-logica, Einaudi, Torino, 2000.

Poletti, Federico, Fortuna letteraria e figurativa della Ghismonda fra Umanesimo e Rinascimento, «Studi sul Boccaccio», anno 2004, n. XXXII. 

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