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diretto da Romano Luperini

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Due poesie da «Esseri umani» di Alessandro Fo

 

 Cari lettori e lettrici, la redazione di LN si prende una pausa estiva per tutto il mese di agosto. Durante questo mese, ripubblicheremo alcuni articoli già usciti nel corso dell’anno. Ci rivediamo a settembre. 

Per la Collana Φ de L’arcolaio è uscito la raccolta «Esseri umani» di Alessandro Fo. Pubblichiamo due poesie e la prefazione di Dario Ceccherini. Ringraziamo l’autore e l’editore per averci concesso di riprodurle.

Viene dall’ultima delle liriche il titolo di questa breve silloge – e orienta il lettore a pensare di trovare in quella le ragioni generative e le tonalità di tutte le nove articolazioni; a immaginare che essa ne sia suggello formale e conferma. E tuttavia Esseri umani è poesia altra. Altra nel suo registro antico di sermone civile, altra perché governata da una sintassi vibrata da giusta ira nel dire il male che esseri umani fanno ad esseri umani, altra nei rimbalzi anaforici, perentori e severi del «voi», che richiamano la voce salvata e sommersa di Primo Levi; altra perché nel suo essere un «27 gennaio» e ogni «27 gennaio» non chiude, ma quasi disordina e riapre con l’implacabilità di un indice che chiama e mostra la plurale tragedia di ogni nostro giorno; altra infine perché costringe a uno sguardo secondo, a una retrospezione delle cose lette e a un loro ripensamento. Gli estremi di questa rapida silloge in fondo si toccano, se l’apertura, Fuori Monaco, si aggira per la Dachau della crudeltà più grande. Una Dachau di silenzi, tra gli ordinati reperti di un male museificato e forse «sloggiato», a pena avvertito nel «ricordo annacquato/ disciplinato, sottomodulato», presto rimosso dalla confortante ansia di non riuscire a salire sul bus, dalla minuta ferocia delle logiche ordinarie di vita. Poi incontriamo vite sparenti, un’ispezione dell’essere umano, nelle sue prove minime e in quelle altissime. Ha questo la poesia di Alessandro Fo, entra nel mondo, anche nelle gallerie dell’anima, con gesto penetrante e garbato, discreto nel dire quello che i sensi, alle volte per intenzione altre volte indiscreti senza colpa, sentono e fanno discernere. Di qui le sospensioni, mimetiche talora delle esitazioni, dei rispettosi pudori e degli incespicamenti delle parole, le riprese e le iterazioni che segnano i versi, anche nelle loro metriche puntuali, con la sbilenca grammatica delle nostre relazioni con gli altri; ancora le parentesi, a ospitare drammaturgiche didascalie o commenti, che invitano a meglio vedere e sentire la situazione e il soggetto e l’oggetto che la compongono. Sull’assito di questo palcoscenico metrico le vite, visitate, incontrate per caso, ritrovate e di nuovo perdute, immaginate per induzione altrui.

Così nei tre movimenti «per Edda Laghi Corrieri», colta nel declinare ultimo dell’esistenza, intesa a mantenere a sé qualche vantaggioso officio di controllo a protezione di alberi straziati da ragazzi («“Non restano che minime mansioni”»), capace, pur nello sbiadire della memoria e di tutto, di motti irresistibili; così scrivendo all’istruttiva Sara, che suggerisce nuovi e agili passi di vita tra i libri ospitali della Shakespeare & Company di Parigi; così nei Minimi incontri, sotto l’emblema della Silvia leopardiana, quelli di «infinite persone / che un caso ha posto di fronte allo splendore, / ferendole per sempre», di fronte a una bellezza sofferente e rifiorita e infine smarrita nella chemio e nella morte – e il bisogno che ne nasce che di quel transito troppo rapido un segno resti. Come ne resti della vecchina, della lieve Felicina, già ombra a sé stessa nella sua vita devota, che neppure il prete memora: «(non ne ha parlato il parroco alla Messa, / come se niente … )». Come di Kay Kent, non «sosia» ma deliberatamente «gemella» di Marilyn Monroe, così si dice, «replicante» nell’aspetto, «replicante» nel congedo dalla vita. Come del dono di un organo da trapiantare portato dal Pègaso per disposizione testamentaria: «e anche se tacevi / sapevo che avvenire avevi in mente, / disposto a testamento». Quale dunque l’urgenza che avvertiamo in queste poesie? Senz’altro quella di fermare con le unghie gentili dei versi questa sottrazione continua e dolente che è la vita, trattenere di qua dall’ordinaria dimenticanza anche le più evanescenti e dimesse presenze nella nostra vita. Piegarsi, fin che sono, su di loro, averne cura; poi fare della poesia il Pègaso che le trapianta e le fa vivere ancora. Questo essere ostinatamente accanto (tessere ostinatamente canto), con e per gli altri, ci fa davvero essere umani. Ma nel congedo, come la manzoniana Storia della colonna infame, Alessandro Fo ci riporta nella più violenta e feroce disarmonia. Gli esseri umani sono anche – soprattutto? – quelli che ci balzano addosso ora. Rassegnarsi, dunque? Tutt’altro. Piuttosto ripetere sempre, sempre, di quest’ultima poesia i versi ultimi, quelli che, con la voce di Dante e Primo Levi, intrecciano in un unico, necessario movimento intelligenza e sentimento morale: «considerate la vostra semenza, / considerate se questo è un uomo». 

 

Fuori Monaco 

Visitando il Lager di Dachau 

una mattina di pioggia 

(come ci appare giusto), 

qualcosa ha congelato 

come in un museo le enormità 

che segnarono il luogo. 

 

Tutto è silenzio e incredibile pace, 

dove aguzzini e cani macinarono 

persone come noi.

 

Ma noi, sotto l’ombrello, 

nel freddo, noi con fotocamere e audioguide, 

siamo turisti, 

se pur disorientati. 

Venuti qui forse a rendere omaggio, 

a fare meno vaga la memoria, 

trarre incentivo a insistere 

nel denunciare un male 

che ora da qui sembra avere sloggiato, 

subdolamente lasciando di sé 

un ricordo annacquato, 

disciplinato, sottomodulato, 

fra i grandi alberi, i viali ordinati, 

il verde, le garitte, i memoriali 

del grande inferno ingoiato dalla Storia. 

 

Poi ci accalchiamo alla fermata, preoccupati 

che il bus di linea non ci carichi tutti, 

pronti a saltarci sopra ad ogni costo, 

anche passando davanti a qualcuno.

 

Esseri umani 

Voi, che in alto mare o a cento metri da riva 

gettate in acqua i profughi a affogare, 

voi che li rapinate del poco rimasto, 

lì, ancora a bordo, o con decreto di Stato 

(perché rimborsino così l’assistenza), 

voi che li chiudete sui treni, che al confine 

li bloccate per mesi, che innalzate muri 

e reticolati, e voi che ne acciuffate centomila, 

giunti – fra guerre, viaggi, fame e centomila 

pericoli – e li rimpatriate sui charter, 

voi, che vi fate esplodere nei mercati, 

o preferite invece imbottire di tritolo 

ragazzini innocenti, 

voi che bombardate a tappeto, 

(e qualche volta – ma chiediamo scusa – 

perfino, per errore, gli ospedali) 

voi che demolite le case dei vostri oppositori, 

voi che radete al suolo città vive 

e città monumento (impiccandone i custodi), 

o, perché no, la foresta amazzonica, 

voi che sparate nei locali sugli inermi, 

e voi inventori dei desaparecidos, 

dei voli della morte, 

voi che rapite, odiate, mozzate 

mani, piedi, nasi, orecchie, sessi, 

strappate occhi, unghie, lingue e denti, 

tagliate teste, filmate, proclamate, 

– meglio in nome di Dio, per dare un senso –,

voi che, in nome della giustizia 

eseguite condanne a morte, 

che trucidate suore e missionari, 

cooperanti e volontari, 

voi che incendiate prigionieri in gabbia, 

che vi schiantate con gli aerei sul palazzi, 

che riducete in schiavitù i bambini, 

che ne abusate o ne vendete il corpo, 

o li gettate dall’ultimo piano, 

voi che sparate all’impazzata 

in una scuola o in un campus, 

che seppellite vivi, che profanate tombe, 

voi che create campi segreti 

di lavoro e sterminio, 

e date corso a aborti programmati, 

voi trafficanti di droga, di armi, di organi, 

di rifiuti tossici, di cibi avariati, 

voi che operate la tratta delle donne, 

voi che sfruttate, estorcete, raggirate, 

voi bulli, voi ricattatori, 

voi che strozzate popoli e nazioni 

col debito, voi 

che conculcate libertà e istruzione, 

e voi che sopra sfoggiate parate, 

e sottoterra testate l’atomica, 

vivisettori, e voi che costringete 

gli orsi sdraiati in gabbie su misura 

o che inchiodate i piedi delle oche 

per lucrarne fegati più grassi, 

che sterminate foche, balene, visoni, 

voi che inquinate,

che date fuoco ai gatti, perché correndo impazziti

appicchino ai boschi gli incendi dolosi,

voi che date fuoco ai barboni,

voi stalkers, baby-gangs, ultràs, e hooligans

che circondate una mendicante a terra e le orinate addosso, 

voi satanisti, voi squadristi e neonazisti,

voi revisionisti e negazionisti,

voi che perseguitate razze e orientamenti

diversi di pensiero o di sesso,

voi che picchiate la moglie e i figli,

che trucidate madre, padre, moglie, figli,

chiunque, per gelosia, un insulto, quattro soldi,

un sorpasso, un posteggio, una squadra di calcio,

che maltrattate gli anziani e i disabili,

percuotete i dementi, trascurate i malati,

li sopprimete a tradimento in ospedale,

o vi fate, a scherno, un selfie col cadavere.

voi che per denaro operate chi è sano,

voi che abbandonate bambini e animali,

voi che torturate gli inermi,

che rinchiudete nel buco di una cella

ingiustamente (o giustamente, con giustizia

dai modi ingiusti), voi ‘giusti’

che impunemente picchiate i prigionieri,

che con viltà infierite su chi è debole 

o privo di risorse, e che ridete

sulla sventura altrui e sul dolore,

 

considerate la vostra semenza,

considerate se questo è un uomo. 

 

27 gennaio 

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