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diretto da Romano Luperini

docente sospesa palermo

L’insegnante di Palermo e noi insegnanti

 Il caso della sospensione dell’insegnante di Palermo ha mosso in modo significativo il dibattito politico nazionale. Dopo avere preso posizione nell’immediato attraverso le parole del nostro direttore (link), come redazione composta di molti insegnanti abbiamo provato a raccogliere i nostri punti di vista, di donne e uomini che vivono ogni giorno la classe, al fine di alimentare una discussione che a nostro parere ha a che fare con la ragion d’essere stessa dell’istituzione scolastica italiana.

Alberto Bertino

Quanto accaduto a Palermo è grave, ma è anche inquietante perché nella ricostruzione dei fatti mancano dei tasselli essenziali: e nell’indeterminatezza si annidano l’oscura minaccia e il capriccioso arbitrio che sono l’opposto della certezza della legge scritta. Scoperta questa che conta qualche millennio come conquista nella convivenza della civitas. Provo ad elencare i motivi di inquietudine. 1. Rosa Maria Dell’Aria è stata pesantemente sanzionata in nome di quale norma? Da quanto si legge dai resoconti giornalistici gli ispettori hanno stabilito una culpa in vigilando. Tuttavia, la vigilanza a cui è tenuto un insegnante riguarda l’incolumità fisica dei minori che gli sono affidati. Non c’è, a mia certo parziale conoscenza, una norma che preveda una sanzione per non aver valutato negativamente un lavoro didattico. 2. Il 28 gennaio un attivista di destra di Monza inoltra la foto della slide incriminata in un tweet al ministro Bussetti. Non è dato sapere chi, tra i presenti il 27 gennaio a Palermo, abbia inviato quella foto. Il fatto può sembrare irrilevante e non lo è. Se non si vuole scomodare il diritto alla difesa, dare un nome a chi ha messo in moto l’affaire sarà utile ad evitare che si diffondano sindromi paranoiche tra gli insegnanti di storia. 3. Il 29 gennaio la sottosegretaria leghista ai Beni culturali su Facebook comunica: “Già avvisato chi di dovere”. Anche in questo caso non è dato sapere chi sia stato informato. 4. Il ministro leghista Bussetti, dopo qualche incertezza, ha dichiarato di non avere richiesto ispezioni e sanzioni e di non essere “stato interessato né nell’avvio né nella conclusione dell’iter del caso specifico”. Quindi la decisione è stata presa dall’Ufficio scolastico provinciale di Palermo. 5. Il 18 maggio, a polemica incandescente, il provveditore di Palermo nel ricostruire la vicenda dichiara: “Abbiamo ricevuto una segnalazione dal ministero, ma eravamo già al corrente di quanto accaduto.” 6. Un’azione disciplinare nei confronti di un insegnante deve partire dal Dirigente scolastico oppure è sufficiente un tweet o un post su Facebook? 7. Il Miur nelle “Linee guida nazionali per una didattica della Shoah a scuola” suggerisce agli insegnanti lo studio di quella tragica realtà in quanto utile ad “imparare a cogliere con prontezza tutti i segnali di allarme e di pericolo che continuano a mettere a rischio lo sviluppo della vita civile e democratica e il rispetto dei fondamentali diritti umani. […] È un modo per imparare ad esercitare nella nostra società una cittadinanza attiva e consapevole. Sappiamo bene che la democrazia senza educazione non si regge. La si impara studiando e vivendo. Questo compito è affidato alla scuola attraverso la conoscenza”. Non pare che la collega si sia discostata da quanto il Miur consiglia di fare. 8. È vero, come da lui dichiarato a Giuseppe Cruciani (La Zanzara, Radio24), che il provveditore di Palermo debba rispondere solo alla sua “coscienza”? In altre parole, noi insegnanti possiamo dormire sonni tranquilli perché la sua coscienza “è a posto”? Non sarebbe possibile avere una qualche altra garanzia? In questa vicenda in cui è identificabile con certezza soltanto la vittima, c’è qualcosa di tipicamente italiano. Sciascia ci avrebbe scritto su.

Claudia Boscolo

Come è stato già evidenziato, la sospensione della collega di Palermo costituisce un fatto di eccezionale gravità, a causa della natura politica di questo provvedimento e dell’iter non chiaro che lo ha preceduto. Al di là dell’ovvio ricorso che presenterà la docente (di cui si apprende ad esempio in questo servizio), la questione non può non allarmare in particolar modo gli insegnanti dell’area umanistica e di Diritto, cioè delle materie in cui più spesso vengono affrontate tematiche legate all’attualità. Il problema infatti non è l’insegnamento della Storia, disciplina che si basa sullo spoglio e sull’interpretazione delle fonti e sull’utilizzo di manuali adottati dopo accurato vaglio che coinvolge i dipartimenti disciplinari e il collegio docenti; ma è il raffronto che viene proposto fra gli eventi e i fenomeni storici e la contemporaneità, se non proprio – come in questo caso – l’attualità. In questo senso, la sospensione della docente palermitana per non avere vigilato sull’operato critico dei suoi studenti assume tratti molto sinistri. Innanzitutto, quale significato è da attribuire alla parola “vigilanza”? Tutti noi docenti abbiamo incarichi di vigilanza, che tuttavia si intendono riferiti alla incolumità fisica dei nostri alunni. In questo caso, la collega avrebbe dovuto vigilare sull’attività critica dei propri alunni, censurando un’interpretazione del presente basata su un raffronto fra due atti normativi emanati in due diversi momenti storici del Paese. In quale modo noi insegnanti siamo tenuti a vigilare sulle interpretazioni dei nostri alunni? In sostanza, ciò che viene detto oggi dagli organi della Pubblica Amministrazione, e che viene tradotto in provvedimento disciplinare, è che non è più concesso agli alunni della scuola pubblica italiana di esporre una personale lettura del presente, per quanto essa sia – come in questo caso – piuttosto autoevidente. Ad acuire questo sconcerto si aggiunge il silenzio delle istituzioni, dei rappresentanti politici, dei sindacati. Sembra che oggi in Italia sia necessario “vedere le carte” (cit. Bussetti, ma anche alcuni membri del nostro Parlamento), per decidere se questo provvedimento disciplinare sia valido. Se non fosse così drammatica per una persona colpita direttamente nel suo privato, questa vicenda avrebbe del grottesco, in quanto segnala lo stato di impasse in cui versa il nostro Paese e in misura ancora maggiore, il diffuso clima di paura creato con la massima collaborazione di un sistema mediatico sempre più inadatto e inefficace sul piano linguistico e delle narrazioni.

Linda Cavadini

Verrà un giorno in cui si spegneranno i riflettori su questa vicenda, ci saranno altre priorità e altre notizie alla ribalta. Ed è allora che non dovremo smettere di rifletterci, di interrogarci, perché ciò che viene messo in discussione è la natura dell’essere insegnante, il suo mandato istituzionale: cosa deve fare un docente? Come deve insegnare? Cosa deve richiedere? E non ci sto a passare per la categoria che la fa sempre tragica, che vede drammi in piccole cose. In questa vicenda mi colpiscono alcune cose, provo a semplificare: alcuni studenti presentano una ricerca nata all’interno dell’attività didattica per la giornata della memoria, qualcuno fotografa e denuncia con un tweet al ministro, la denuncia viene raccolta dalle rete, il sottosegretario alla cultura Lucia Borgonzoni invoca il “licenziamento della docente”, parte un’ispezione ministeriale, arriva la DIGOS a scuola, alla professoressa viene commutata una sospensione di 15 giorni dall’attività didattica, ovvero un procedimento disciplinare di quarto livello, direttamente senza passare dal via. Per chi ha avuto a che fare con un certo immobilismo dei piani alti nel prendere provvedimenti contro docenti e dirigenti discutibili, la cosa non può che destare stupore. Chi ha fotografato e messo in rete non ha seguito la via democratica dello scontro dialettico, si è nascosto nella rete e ha denunciato lì, luogo senza contesto e contraddittorio. Poi qualcuno ha scelto di sanzionare la docente, di non lasciare la questione in rete o alla discussione libera. Ha sanzionato la docente, per omessa vigilanza. OMESSA VIGILANZA SULLE IDEE, che è cosa ben diversa dal vigilare che non si facciano male all’intervallo. Non è qui la sede per capire le ragioni del MIUR, attendo che lo stesso MIUR le fornisca: per ora il ministro Bussetti ha detto che il ministero non c’entra e vuole incontrare la docente con Salvini, il provveditore ha dichiarato di aver agito in coscienza. A ciascuno di noi può succedere ed è successo che le idee dei ragazzi siano troppo semplici, magari scorrette e il nostro lavoro è proprio ragionare con loro, entrare in relazione con loro, non fornire risposte, ma aiutarli a trovarle. Pensare che un docente sia responsabile delle idee dei ragazzi significa conoscere poco i ragazzi, significa non sapere che ogni giorno in classe ci confrontiamo con idee diverse estreme, pacate, razionali, emotive. Insegnare è questo: costruire insieme ai ragazzi, entrare in relazione con loro attraverso il sapere, discutere, ascoltare, correggere, valutare. È una scelta politica, sempre. Non si può insegnare senza fare politica, mettiamoci l’anima in pace: educare è un’azione politica. È un’azione politica aver messo i miei studenti davanti a una biblioteca di classe, garantendo loro libertà di scelta. È un’azione politica leggere ad alta voce, ascoltare le loro opinioni, costruire con loro una comunità di lettori e scrittori. È un’azione politica fidarmi di loro, del loro potenziale, lasciarli lavorare e stare accanto a loro, senza sostituirmi a loro perché “aiutami a fare da solo” non è uno slogan vuoto, ma una precisa scelta di cittadinanza.

Roberto Contu

La questione non è quanto ingenuamente o meno scritto dagli studenti, quanto il mettere sotto tutela la ragione stessa del processo educativo. A scuola quotidianamente gli studenti producono grossolanità che poi l’insegnante e la classe rielaborano e sgrossano insieme. Materia prima della vita di classe è l’approssimazione che l’insegnante educa a governare. Se tutto questo viene messo sotto tutela esterna crolla il presupposto stesso della funzione educativa. A scuola, quando ho dato parola agli studenti, ho visto passare sulla LIM di tutto: dai protocolli dei Savi di Sion ai rapporti del nazismo con gli ufo. Ciò che mi è sempre premuto e sempre ho difeso e difenderò è il prima e il dopo. Il prima, nel quale gli studenti mettono in moto, sgraziatamente, la propria facoltà di pensare e cercare. Il dopo, nel quale si riflette insieme proprio a partire da quella materia grezza e sgraziata da loro prodotta che io, per mandato, devo aiutare loro a definire. Questo qualsiasi insegnante lo capisce, perché lo vive ogni giorno. Ecco perché quanto è successo è grave. 

Filippo Grendene

Il caso della prof.ssa di Palermo ha raggiunto gli onori della cronaca: del resto siamo in campagna elettorale, l’attenzione è più alta. Ciò non deve far dimenticare che questo è solo l’ultimo episodio all’interno di una serie che sta assumendo dimensioni preoccupanti. È successo a Torino, poi a Padova, ora a Palermo – ma quanti altri non sono arrivati alla stampa nazionale? Alla concezione di scuola come luogo di confronto e di discussione, anche serrata, si risponde con la repressione; il dissenso, in qualsiasi forma sia espresso, non deve essere tollerato. Tutti i casi accaduti negli ultimi mesi non riguardano prese di posizione del docente in questione all’interno della classe: si tratta o di manifestazioni di dissenso al di fuori della vita scolastica, o – come per la prof.ssa Dall’Aria – di mancata censura sulle opinioni degli studenti. Nessuno ritiene che il professore abbia il diritto di propugnare le proprie idee politiche in classe: data la differenza di potere fra chi insegna e chi impara, ciò non darebbe luogo a un dibattito alla pari. L’autoritarismo è la marca di qualsiasi regime dittatoriale, in cui esiste una verità, la quale è imposta dall’alto e si pone come indiscutibile: ogni organo dello stato funziona come ripetitore disciplinato della stessa e il suo obiettivo è favorirne la riproduzione a tutti i livelli della società. Non indottrinare significa, al contrario, rispettare e incentivare la funzione del dialogo. Nella logica pentaleghista invece il professore non deve proprio avere opinioni, oppure deve tenersele per sé: sempre, senza manifestarle pubblicamente e senza (sia mai) fare attività politica in prima persona. Allo stesso modo, gli studenti non devono dire quello che pensano, soprattutto se si azzardano a prendere posizione: compito del docente è scoraggiarli, se non lo farà sarà punito. La proposta del governo gialloverde immagina un’Italia dove lo spazio del dissenso sia azzerato. È chiaro a tutti che in un contesto simile ad aver ragione saranno le opinioni del più forte: di chi ha denaro, spazio mediatico, account manager più agguerriti. Per fare questo inizia, non a caso, dalla scuola. Ora noi insegnanti ci stringiamo attorno al caso di Rosa Maria Dall’Aria e giustamente esprimiamo la nostra paura e indignazione di fronte a un attacco del genere. Al contempo, abbiamo la possibilità di incanalare la rabbia andando oltre il momento e la specifica circostanza, cercando un modo per ricomporre una classe docente atomizzata da decenni di politiche neoliberiste che hanno equiparato la nostra funzione a quella di un mediatore neutro, se non neutralizzato da un eccesso di incombenze burocratiche. Possiamo far ripartire un discorso sulla scuola che non sia quello imposto dall’alto, ma che sia elaborato all’interno dei nostri istituti, durante i collegi docenti e i dipartimenti, o in dialogo con gli stessi studenti, riabilitando la funzione delle assemblee di istituto. Per continuare poi a praticarlo, questo discorso, fuori dalle aule, nella nostra attività politica e civile, nelle piazze o nelle singole azioni attraverso cui l’antifascismo e la libertà di opinione si traducono in prassi. Perché l’idea di scuola nasca da un’idea di società differente, in cui insieme alla retorica aggressiva di Salvini, si rifiuti anche la coercizione più subdola del mercato, che celebra la neutralità come se essa fosse possibile e non fosse solo l’espressione di una aderenza al pensiero dominante. 

Daniele Lo Vetere

Non ricordo quanti anni avessi, se facessi il liceo o già l’università, ma mi è tornato in mente ieri sera di aver già assistito a un episodio molto simile a quello della collega Dell’Aria. Mio padre, ora in pensione, insegnava alle medie. Come la collega, aveva fatto un lavoro di cittadinanza e Costituzione: credo sui diritti delle donne, perché si parlò di aborto. Come la collega, aveva fatto leggere alcuni testi agli allievi, per informarli e permettere loro di articolare una opinione personale; dopodiché i ragazzi avevano preparato un loro lavoro, mi pare in quel caso semplicemente un testo o un cartellone (non si usava ancora PowerPoint). Nel testo i ragazzi associarono la parola “aborto” alla parola “diritti della donne”. Sul giornale parrocchiale (parliamo quindi di una vicenda arrivata alle orecchie di un quartiere: oggi chissà…) apparve un articolo di cui ricordo ancora la virulenza: questi professori sessantottini frustrati che indottrinano gli studenti. Mio padre replicò molto pacatamente, come è nel suo stile: illustrò il tipo di lavoro che avevano fatto in classe, spiegò che si era cercato di informare e sensibilizzare i ragazzi sul tema e che li si era lasciati liberi di esprimersi. Ammise, anche – bontà sua – che l’associazione tra la parola “aborto” e “diritto” potesse suonare male alle orecchie di chi aveva una sensibilità religiosa, disse che il lavoro era semplicistico, quindi brutto. Non ricordo se si appellò al buon senso e alla comprensione altrui, sottolineando che si trattava del lavoro di ragazzi di 12 13 anni e che la produzione finale del testo o del cartellone serviva a coronare soprattutto un lavoro il cui cuore didattico era nella parte precedente, nella lettura e riflessione, nell’apertura dell’attenzione e della sensibilità dei ragazzi verso temi importanti. Presumo di sì, ma se non lo fece e se fosse capitato a me, io l’avrei fatto. La domenica successiva ci fu la controreplica, ugualmente viscerale, ideologica, cieca, sbavante. L’argomento fu “ah bene, si ammette quindi che il lavoro era malfatto: e l’insegnante non dovrebbe vigilare sulla qualità del lavoro degli studenti?” Io, che ero giovane, diventai feroce, alzai la voce e dissi che doveva replicare ancora e non capii perché mio padre invece con grande sobrietà mi dicesse che avrebbe lasciato cadere la cosa. Forse dissi addirittura “allora gli scrivo io”. Come se fosse una questione di onore familiare, e di fatto per me a quel punto si trattava anche di quello, oltre che di un senso di impotenza politica. Ora so bene che mio padre fece bene, che è inutile battagliare all’infinito con le argomentazioni. Ma soprattutto, mi colpisce come questa storia assomigli come una goccia d’acqua a quella di oggi. Per fortuna l’indignazione di massa questa volta ha protetto la collega. Ma quando il faticoso e parziale e incerto e approssimativo lavoro che tutti facciamo in classe finisce tra le spire del potere bestiale dell’opinione pubblica e le scarpe chiodate del potere politico, l’esito non è mai scontato.

Morena Marsilio

A molti nella scuola – dagli Uffici Provinciali e Regionali ai Dirigenti Scolastici – i ragazzi “piacciono” nelle loro performance singole: sono ottimi violinisti, eccellenti pianisti, sorprendenti cantanti, batteristi mozzafiato, strepitosi velocisti, imbattibili nuotatori, straordinari ballerini. Piacciono anche quando si fanno notare in performance collettive, spesso di tipo sportivo, e diventano i campioni provinciali, regionali, nazionali di tiro con l’arco, di badminton, di basket, di pallavolo o mettono in piedi band o spettacoli teatrali da esibire a fine anno (dei cui copioni sono per lo più meri riproduttori). Nella scuola i ragazzi piacciono di meno quando escono dall’esibizione di sé come dal mutismo prono e dalla passività ricettiva per dire la loro sul Passato e sul Presente e, ancor più, per mettere in atto l’obiettivo per antonomasia dell’insegnamento della Storia che è – o dovrebbe essere – “partire dalla lezione del passato per capire il presente”. Per questo il prodotto dell’attività della collega Rosa Maria Dell’Aria – e di chi come lei crede nelle menti vive dei suoi studenti – suscita in me un moto incondizionato di solidarietà: le ore strappate al diktat del Programma e dedicate, viceversa, a leggere Lia Levi, Liliana Segre – ultime, preziose testimoni – e, ancor più, a dibattere con i suoi studenti su questioni che mettono in combustione passato e presente sono momenti preziosi di confronto e di allenamento al dibattito libero di menti in formazione che troppo spesso la scuola vuole silenziose, succubi del nozionismo e incapaci di spirito critico. La scuola di oggi – con un’evidente recrudescenza in questi ultimi mesi – vive di gravi paradossi: dovrebbe essere palestra di intelligenza e di libertà, di dialettica e di confronto ma attribuisce preferibilmente il massimo dei voti in condotta a studenti abituati all’immobilismo e alla passività, all’accondiscendenza e all’ipocrisia. Al silenzio. Al contempo organi deputati alla gestione (o al controllo?) dell’istruzione (e solo a scrivere questa espressione inorridisco) rivolgono un’attenzione censoria e intimidatoria verso gli insegnanti disposti ad alzare la testa come intellettuali (non necessariamente come politici), a esprimere un’opinione, a non essere proni strumenti di trasmissione di contenuti, a non piegarsi alla logica del “piccolo burocrate”. Credo che a tutto questo si debba opporre la più alta vigilanza e la più strenua resistenza.

Luisa Mirone

Io, in una delle famigerate buste per il colloquio orale dell’esame di stato, metterei il link all’intervista Rai a Rosa Maria Dell’Aria: lo studente avveduto saprebbe trarne più di uno spunto per interessanti riflessioni interdisciplinari e di “cittadinanza e costituzione”. C’è – nei toni pacati e stupefatti, amareggiati e privi di enfasi della docente palermitana – una lezione importante che non riguarda né le leggi razziali, né i migranti, né il governo attuale, né quelli che l’hanno preceduto; e che prescinde dal “prodotto” didattico, lo sventurato e incriminato PowerPoint. È una lezione di metodo. La professoressa Dell’Aria non ha indotto i suoi studenti a confezionare un lavoretto da esibire ad hoc nella Giornata delle Memoria: ha iniziato da lontano, parlando alla sua classe di diritti umani e suggerendo ai suoi studenti alcune letture estive (altrove ci dice pure quali, cioè Questa sera è già domani di Lea Levi, Il mare nero dell’indifferenza di Liliana Segre a cura di Giuseppe Civati), integrandole successivamente con letture da quotidiani e riviste, discutendole in aula attraverso “un lungo dibattito”, rilanciandole in occasione della Giornata del Migrante (3 ottobre) e infine ripensandole alla luce delle sollecitazioni della Giornata della Memoria. Ha compiuto – cioè – insieme ai suoi allievi uno di quei “percorsi”, così caldamente raccomandati anche dal Ministero, che mettono in dialogo attualità e storia, presente e passato, letteratura e informazione, scrittura autobiografica e scrittura argomentativa, competenze linguistiche, competenze analitiche, competenze di cittadinanza… Chapeau! Cosa c’è che non va? Non andava l’accostamento del decreto sicurezza del governo con le leggi razziali fasciste? Può darsi che gli studenti debbano affinare la conoscenza delle categorie storiografiche, anche se mi pare che, nell’ambito di una riflessione sui diritti umani, non abbiano commesso esattamente uno sproposito. Ma quand’anche lo fosse, potrebbe essere reindirizzato; ma cassato solo se “offensivo e denigratorio” – ci dice Dell’Aria – altrimenti è repressione del “libero pensiero”. Ed è di questo che sono preoccupata. Mia madre, che insegnava storia e filosofia nella provincia di Siracusa, quarant’anni fa, mentre studiava insieme ai suoi allievi la costituzione americana e i grandi filosofi della politica, gli faceva seguire la campagna elettorale per la presidenza di Ronald Reagan e Jimmy Carter: a turno, gli studenti portavano in aula quotidiani di varia estrazione e li commentavano, si confrontavano, e tranciavano giudizi, e prendevano cantonate, si contraddicevano, s’azzuffavano, s’atteggiavano, ma intanto imparavano gli strumenti per leggere e interpretare i fatti, e mia madre badava che avessero gli strumenti e che sapessero farli funzionare correttamente; consapevole del fatto che – poi – ognuno li avrebbe usati da sé, nella polis. Oggi forse sarebbe esposta agli stessi rischi di Rosa Maria Dell’Aria, e anch’io, che sono sua figlia e ho imparato anche da lei che la “politica” (questa politica) in classe si fa, eccome. Insegnare gli strumenti sembra essere diventato pericoloso: meglio riempire campi predefiniti e scegliere una risposta fra tre risposte date, sbarrando la casella con una x.

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