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diretto da Romano Luperini

 Esce oggi, per l’editore Quodlibet, La realtà rappresentata. Antologia della critica sulla forma romanzo 2000-2016, a cura di Raffaello Palumbo Mosca. Pubblichiamo un estratto del saggio introduttivo del curatore, che ringraziamo.

Leggere buona letteratura, ha scritto Mario Vargas Llosa, significa imparare “cosa e come siamo, nella nostra interezza”. Ma dire “buona letteratura” è ancora troppo vago, perché include tutta una serie di generi che, invece, Vargas Llosa non ha in mente. Così, immediatamente dopo, l’affondo: “questa conoscenza totalizzante e in presa diretta dell’essere umano, oggi, si trova soltanto nel romanzo” (Llosa 2001, p.5). Perché soltanto nel romanzo e non, ad esempio, nella poesia, o nel trattato filosofico o psicologico o, ancora, nella ricognizione storica? Innanzi tutto, continua Llosa, perché il romanzo non è un genere specialistico – non è scienza ed ha quindi potuto preservare una “visione integratrice”; solo il romanzo – o il romanzo meglio di altre forme d’arte – riesce ad “arricchire in maniera immaginaria la vita, quella di tutti, quella vita che non può essere smembrata, disarticolata, ridotta a schemi e formule, senza scomparire” (Ivi, pp.5-6).

Si può concordare con Llosa (e io, con alcuni distinguo, tendo a farlo), oppure si può vedere nel suo ottimismo il wishful thinking di un autore desideroso di riaffermare la centralità della sua arte. Ciò che più colpisce, però, e che è forse più difficile da accettare, è la specificazione temporale: il romanzo è oggi l’arte per eccellenza. Molto diverso sarebbe stato se Llosa avesse parlato – come molti, e con molte ragioni hanno fatto, da Ian Watt a Franco Moretti – del romanzo come genere della modernità; un genere che – benissimo lo ha spiegato Giovanna Rosa (2008) – presuppone strutturalmente “l’ordine negoziale della modernità” (ivi, p.13) poiché instaura un nuovo patto con il lettore secondo il quale “autore e lettore, ciascuno nel suo ruolo distinto, ma su base paritaria, si incontrano sulla pagina inchiostrata e s’accordano fiduciariamente sulle regole del gioco”, sovvertendo così nel suo stesso “impianto genetico, le norme relazionali che fino ad allora avevano governato il rapporto tra scrittori e lettori (Ivi, p. 12, 18, corsivo mio). Ma il romanzo – almeno nel significato che diamo oggi alla parola[i] – è il genere moderno per eccellenza perché nasce e si sviluppa in seno alla emergente classe borghese, di cui rispecchia fedelmente i valori, offrendo anche, nella prospettiva di Moretti (2014), una giustificazione simbolica della sua ascesa al potere. Non è un caso, allora, che il Robinson Crusoe (1719), ovvero il testo che Ian Watt (1957), e molti con lui, pongono come fondativo del genere, inizi con un elogio esplicito della vita ‘media’ come “la migliore condizione al mondo, la più adatta alla felicità umana”.[ii]

[…]

Ma è esattamente così? O non si tratta, piuttosto, di un paradigma che assolutizza un dato sì reale ma geograficamente circoscritto, di fatto ignorando o semplificando gli impulsi propulsivi di altre tradizioni, e di prima importanza?

[…]

Se l’opposizione binaria epopea versus romanzo (totalità versus frammentarietà), che Luckács sviluppava a partire da una pagina famosa dell’Estetica di Hegel è stata ultimamente, e con molto profitto, messa in discussione, e se, come ha elegantemente dimostrato Massimo Fusillo (2002), è necessario considerare epica e romanzo come “due fasci di costanti transculturali che di epoca in epoca e di opera in opera possono essere più o meno attive, e possono anche trasformarsi del tutto” (Ivi, pp.12-13), l’opposizione sviluppata da Luckács mi sembra ancora utilizzabile: non tanto perché ci dica qualcosa dell’epica, ma perché enfatizza questo desiderio di completezza, questa ineludibile e sempre sconfitta tensione alla totalità che costituiscono il cuore pulsante del romanzo (e dell’essere umano). E che rendono il genere ancora oggi interessante e vivo. Perché, nonostante tutti i ‘debolismi’ postmoderni, il percorso insieme gnoseologico ed emotivo del personaggio (ammesso che la distinzione, alla luce delle ricerche psicologiche e neuroscientifiche in proposito, conservi una qualche validità)[iii] costituisce ancora e dopotutto uno dei migliori utensili a nostra disposizione per la ricerca di un senso; vale a dire: affinché la realtà, riconosciuta come dato culturale, e quindi percepita (e ordinata) in insieme di valori, si costruisca in esperienza utilizzabile.

[…]

Il tempo passa (storia)

Eppure. I generi, come ogni altra umana cosa, sono destinati a invecchiare e tramontare; o, più prosaicamente, a esaurirsi, diventare obsoleti ed essere abbandonati. Non è forse questa, al suo crudo nocciolo, la tesi propugnata, forse un po’ troppo euforicamente, da una certa neoavanguardia e dai più o meno informati ‘ritardatari’ di oggi come, ad esempio, il David Shields di Reality Hunger? Che si sia propugnatori della morte del romanzo o fieri sostenitori della sua centralità, ogni discorso deve oggi dare conto di alcune aporie, e di cambiamenti e contraddizioni evidenti. Da una parte, se accettiamo che il genere sia nato come legittimazione dei valori della classe borghese, con l’avvento dei regimi democratici occidentali a partire dalla fine della seconda guerra mondiale è l’idea stessa di ‘classe dominante’ – e quindi anche di borghesia – a perdere progressivamente di senso (o ad acquisire un significato più complesso). Il romanzo come, luckàcianamente, “risoluzione di una fondamentale dissonanza dell’esistenza” sembrerebbe dunque perdere il suo scopo. Diverso sarebbe il discorso se, invece, accettassimo la proposta di Fusillo e considerassimo paradigma epico e paradigma romanzesco non in opposizione binaria, ma come due codici in costante scambio. Questo porterebbe infatti ad una diversa genealogia – che inizia, à la Bachtin, con il romanzo greco – e limiterebbe di molto la portata della ‘funzione-borghesia’ nella nascita e sviluppo del genere così come lo conosciamo (in proposito si veda anche Pavel 2015)

Esaminando la forma romanzo oggi non possiamo tuttavia prescindere, come ha più volte sottolineato Simonetti, dal drastico cambiamento di posizione e uso della letteratura (e del romanzo in particolare) avvenuti a partire almeno dagli anni Sessanta del Novecento. È a partire da quel momento, infatti, e attraverso un crescente contatto o, per usare un’espressione cara a Walter Siti, “contagio” con la mediosfera, che la letteratura perde progressivamente il suo prestigio ermeneutico e inizia a costituirsi sempre più – e semplicemente – come divertimento ed evasione. È una posizione difficilmente contestabile: la marginalità della letteratura nella società contemporanea, così come il suo misurarsi con il processo di mediatizzazione della realtà – una mediatizzazione che, come ha ben visto Simonetti, “fa il gioco del potere” –  sono dati evidenti (cfr. Simonetti 2008, p.100). Questo cambiamento di mentalità, che fa capo allo scomparire o indebolirsi della distinzione, un tempo ben chiara, tra letteratura alta e letteratura di consumo (tra novel e romance nella cultura anglosassone), e che presuppone una “fase culturale in cui la complessità e la profondità dell’opera – che costituivano il proprium del romanzo da una prospettiva umanistica – vengono percepite come un limite”, è denso di conseguenze (Ivi).

[…]

Che fare dunque? Dovremo accontentarci di romanzi inoffensivi e consolatori, rassegnarci quindi ad un genere dimidiato che, secondo Berardinelli (come dargli torto), è ormai “più merceologico che letterario”? (2011, p.9). La risposta più credibile sembra sia venuta da quei testi che ibridano la forma romanzo con altri generi, soprattutto il giornalismo e il saggio; ne hanno parlato, in una singolare ma talvolta solo apparente convergenza, i critici più diversi: da, prevedibilmente, Onofri e Berardinelli, fino a Cortellessa (“ci sono infinitamente più cose nella prosa e nella narrazione ‘reali’, oggi in Italia, di quante ne prescriva l’odierna filosofia del romanzo”) (2011, p.17); ma anche Casadei, Donnarumma e Ficara (che, pur dubitante, ipotizza un “genere nuovo di zecca” eppure saldamente ancorato al passato, soprattutto italiano: una “prosa saggistica che contenga i frammenti d’una narrazione che non tutti i romanzieri, da soli, riescono a tener cuciti in un insieme plausibile”) (2016, p.32).

[…]

Eppure, se è certamente vero che le forme ibride di narrazione – con sconfinamenti nei territori diversi del diario (Maggio selvaggio di Albinati), della riflessione memoriale ed etica (Campo del sangue di Affinati, Le variazioni Reinach di Filippo Tuena), del  saggismo,  più o  meno  “accademico”  (Riviera  di  Ficara,  Passaggio  in  Sardegna e Passaggio  in Sicilia di Onofri, Il bottone di Puskin di Serena Vitale   sino a L’uomo del futuro di Affinati e Muro di casse di Santoni), del reportage (Uomini e caporali e La frontiera di Alessandro Leogrande, La prima verità di Simona Vinci), o della biografia fittizia un po’ alla Spoon River (Cartoline dai morti di Franco Arminio) e l’autobiografia di fatti più o meno accaduti (da Walter Siti e Works di Trevisan fino a Letizia Muratori) –; se, dunque, è vero che le forme ibride di narrazione rappresentano la novità forse più interessante degli ultimi anni, è anche lecito chiedersi se non abbia ragione Ficara quando nota che “il romanzo si nasconde nel saggio pour l’instant, e pour cause” e se dopotutto questo “ottimo nascondiglio” non sia “insufficiente, nei tempi lunghi, a preservare l’immensa forza dirompente e la popolarità del romanzo stesso” (Ficara 2016, p.32). Dopo la sbornia di romanzi di frontiera e spesso un po’ forzatamente engagé successivi al successo planetario di Gomorra (si pensi, ad esempio, a tutto il filone, troppo spesso a grado zero di autorialità, della letteratura sulla “generazione mille euro”) pare che oggi il mercato editoriale sia tornato a bilanciare l’offerta riproponendo con forza romanzi più tradizionalmente intesi, talvolta anche con risultati notevoli (ne cito solo due, Il giardino delle mosche di Andrea Tarabbia e Le cose semplici di Luca Doninelli, ma altri nomi andrebbero fatti, tra loro molto diversi, da Giorgio Vasta – soprattutto Il tempo materiale – a Giorgio Falco, fino al più ‘classico’ dei nostri romanzieri, Alessandro Piperno).

[…]

Perché un’antologia sulla forma romanzo? La struttura, criteri e scelte

Giunti a questo punto, la risposta al perché di una antologia della critica dovrebbe essere trovata senza (troppa) fatica. Come si è cercato di dimostrare nel saggio introduttivo, e come i testi di seguito antologizzati attestano ampiamente, infatti, ragionare sulla forma-romanzo significa immediatamente ragionare anche di altro: di politica e di etica, di come una società rappresenta sé stessa e nello stesso tempo cambia sotto l’influsso delle rappresentazioni che produce. Significa, in definitiva, ragionare sulle modalità stesse del nostro esistere nel mondo. Anche per questo credo che la critica letteraria – quando è vera, quando non si chiude in un accademismo di maniera o in un linguaggio esoterico fatto per stupire i non iniziati –  non interessa solo un manipolo di specialisti, ma è affare che riguarda chiunque voglia avere uno strumento in più per comprendere sé stesso e il mondo in cui vive. Non è, forse, lo strumento più diretto, ma non è detto che non si riveli, alla lunga, uno dei più efficaci e ricchi.

L’intento che mi muoveva quando ho iniziato a progettare il volume era quello di fornire un panorama il più esaustivo possibile degli studi critici in italiano sulla forma-romanzo a partire dagli Anni Zero. Queste due limitazioni, una linguistica e una temporale, rispondono a diverse ragioni. Innanzi tutto c’era la necessità di restringere un campo molto vasto: a conferma della centralità della narrazione romanzesca anche nella contemporaneità, gli studi ad essa dedicati sono numerosissimi e spesso di grande qualità. Una scelta andava quindi fatta e, almeno in prima battuta, su criteri il più possibile oggettivi. A partire da questa prima scrematura ho poi dovuto abbandonare ogni pretesa di oggettività in favore di un criterio personale e aleatorio come quello della significatività. E tuttavia, cosa vuol dire che uno studio è “significativo”? Uno studio significativo non è, in questo contesto, necessariamente uno studio completamente riuscito, ma è uno studio che affronta da una prospettiva originale e in grado di creare dibattito un aspetto non solo particolare della forma-romanzo. È per questo che molti dei testi qui antologizzati sono implicitamente o esplicitamente in dialogo tra loro, andando a formare una microstruttura all’interno della macrostruttura, richiamandosi anche tra capitoli diversi.

Per quanto riguarda, invece, la macrostruttura, ho deciso di raggruppare i diversi brani in quattro capitoli: “Saggi militanti”, “Saggi sulla contemporaneità”, “Studi” e una “Coda” sulla forma-saggio. Come tutte le sistematizzazioni, anche questa non sfugge ad un certo grado di semplificazione, e numerosi sono o potrebbero essere gli sconfinamenti. Ad esempio, molti dei testi sulla contemporaneità potrebbero comparire nella sezione dei saggi militanti, e viceversa. Lo stesso si può dire, nell’ultima sezione sulla saggistica, per quanto riguarda Berardinelli, senza dubbio il principe dei nostri critici militanti. Ho però preferito privilegiare quello che mi sembrava l’aspetto saliente del volume in questione, implicitamente suggerendo anche una chiave di lettura, o una particolare angolazione dalla quale guardare l’opera. L’etichetta “Studi” è probabilmente quella meno immediatamente connotante. In questa sezione ho voluto raggruppare quei saggi, spesso di impianto più accademico, che trattavano la forma romanzo in maniera più ampia e non necessariamente con un riferimento diretto alla contemporaneità. Infine la “Coda” su romanzo e saggio: ho qui riunito saggi che problematizzano il rapporto tra saggistica e narrativa, talvolta rovesciando il tradizionale rapporto di significatività tra le due forme, e assegnando quindi la palma alla prima. Un altro approccio, più laterale ma altrettanto efficace, sarebbe stato quello di mostrare esempi di come un certo tipo di saggistica abbia saputo farsi anche romanzo o racconto. Non sarebbero mancati gli esempi, anche eccellenti, da, ne cito solo alcuni ma la lista sarebbe più lunga, Emanuele Trevi con Senza Verso e Qualcosa di scritto, fino ad Affinati con Un teologo contro Hitler. Sulle tracce di Dietrich Bonhoeffer (2002) e Hotel a Zero Stelle di Tommaso Pincio (2011).

Come tutte le antologie, anche questa ha comportato delle esclusioni, alcune per me particolarmente difficili. Ne cito solo tre: il recente Discorso sul romanzo moderno di Alfonso Berardinelli e Il vero e il convenzionale di Carlo Tirinanzi dei Medici, saggio fondamentale, quest’ultimo, per studiare il realismo nella contemporaneità; infine: l’Introduzione di Pierluigi Pellini ai romanzi di Zola, che mette mirabilmente in luce i rapporti tra la poetica zoliana e gli sviluppi, anche i più arditi, della forma romanzo nel Novecento (da Musil al Nouveau Roman a Beckett). Di Berardinelli, tuttavia, mi interessava di più il discorso sulla forma-saggio, mentre il problema del realismo nella contemporaneità, senza contare l’enciclopedico studio di Bertoni, è affrontato da moltissimi degli autori qui antologizzati, da Casadei a Donnarumma, a Mazzoni, e mi sembrava dunque già adeguatamente rappresentato. Il saggio di Pellini, invece, sarebbe stato l’unico dedicato ad un autore in particolare ed è stato sacrificato in nome di un criterio di omogeneità.

Desidero ringraziare tutti gli autori dei cappelli introduttivi, non solo per l’entusiasmo con il quale hanno accettato la mia proposta, ma anche per le osservazioni e i preziosi confronti sulla scelta dei testi e la struttura del testo. A loro va principalmente il merito di questa antologia. Le inevitabili mancanze sono invece da attribuire a me. 

[i] Come ha sottolineato Mazzoni (2011), il termine ‘romanzo’ assume lo stesso significato che noi gli diamo oggi – vale a dire “uno spazio polimorfo dove trovano posto i racconti di una certa lunghezza che non rientrano nei confini dei generi narrativi più rigidamente codificati (l’epos, le opere storiografiche, la chanson de geste)”, solo intorno al 1800 (ivi, p.79 e seguenti).

[ii] Per una diversa genealogia si veda almeno l’ormai classico Doody 1996, ma anche Pavel 2015.

[iii] Cfr. ad esempio, deSousa 1987 e LeDoux 1996.

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