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Ragazzi cattivi. Riflessioni a margine di un fatto di cronaca locale

Certe giornate leggi il giornale e la mascella cade da sola, perché la notizia in prima pagina non può lasciarti indifferente, troppo vicina a una realtà che conosci: anche a mettere la testa sotto la sabbia, la terra rimbomba. Venerdì primo febbraio, insieme alla neve, Como si è svegliata con la notizia dell’arresto di una pericolosa banda, colpevole di aver minacciato e picchiato adolescenti e adulti, distrutto case e locali ed estorto denaro: 38 colpi messi a segno, 17 i colpevoli, tutti minorenni. E i leader indiscussi hanno 14 e 15 anni. Potrebbero essere miei alunni, potrebbero essere gli alunni di ciascuno di noi e forse lo sono anche. Qualcuno di loro va ancora a scuola, magari un giorno sì e tre no, altri hanno smesso da tempo, anche se non hanno assolto alcun obbligo, come si legge nell’articolo. Sono studenti difficili, molto: sono gli studenti che più mi hanno messo di fronte alla bellezza e all’umiltà necessarie per fare il nostro lavoro e che mi hanno spiegato, anzi meglio urlato in faccia, che loro da te non volevano alcun aiuto, che non ti sopportano proprio, te e il tuo Dante, che anzi meglio li lasciassi dormire in pace. La tentazione di lasciarli in pace c’era e anche il sospiro di sollievo quando non li vedevi arrivare in classe: perché se quel giorno avessero deciso che tu non avresti fatto lezione, tu non fai avresti fatto lezione, perché è tanto, troppo, quello che ti chiedono e tu sei sempre una, mentre in classe ne hai almeno 25. E non ce la fai. Senti che davvero tu non salvi nessuno, anche se, quando hai iniziato a insegnare, ci credevi davvero. Ma sono proprio questi piedi ben saldi per terra e questa consapevolezze ad aiutarti a non mollare e a metterti lì con i tuoi colleghi, giorno dopo giorno, con sempre meno fondi, per cercare di capire come fare a non perdere i ragazzi. Già perché da sola non salvi nessuno, insieme agli altri forse sì.

Davanti a questi bad boys ho davvero pensato che il bel libro di Claudio Burgio Non esistono ragazzi cattivi. Esperienze educative di un prete al Beccaria di Milano” fosse pura utopia. Questi sì sono ragazzi cattivi, nel senso etimologico di catturati, vinti da esperienze di vita troppo pesanti, che come macigni impediscono loro ogni forma di “riscatto”: come puoi pensare a studiare se dentro di te sei così pieno di miseria, povertà, violenza da non sentire altro? Per studiare bisogna avere il vacuum, il vuoto. Per far sì che cerchino nella scuola una strada diversa è necessario lavorare perché la scuola sia a loro misura e perché il lavoro educativo venga prima di qualunque altra cosa. Ma questo è difficilissimo per la scuola da sola, impossibile direi.

 

Sono ragazzi traditi e feriti, in primis da quelli che avrebbero dovuto dar loro la vita e li hanno messi per strada. E lì in strada prosperano, ciondolano fino a tardi anche se hanno dieci anni appena, poi iniziano a bere, a fumare, ad essere branco. E il branco ragiona per loro, diventa il loro cervello, il loro unico desiderio.

La scuola da sola non ce la fa, anche se le prova tutte. Nessuno da solo ce la fa. Men che meno loro.

La scuola baluardo di accoglienza

La scuola è un luogo che ha il dovere di accogliere tutti, in cui fare esperienza della diversità e dell’incontro, che è arricchente ma difficile e spesso ha la natura di uno scontro. Noi docenti, dirigenti e personale della scuola siamo in prima linea tra questo mare di sentimenti, di desideri, di passioni e pulsioni che convergono. Sappiamo bene che non esistono ricette ma solo tentativi, che non bastano amore e passione, ma ci vogliono azioni e operazioni in sinergia con le realtà che operano sul territorio. E che per lavorare con ragazzi difficili bisogna essere formati, conoscerli, sapere come relazionarsi con loro, lo slancio non basta. Ho insegnato cinque anni in un progetto di recupero dei drop out presso la scuola Oliver Twist di Como, il liceo del lavoro: lì ho imparato ad essere esigente, a esigere il rispetto della regola, a parlare un linguaggio che potessero condividere e comprendere, fermo, distaccato, autorevole ma sempre presente. Esserci, coi ragazzi conta esserci, ma non basta: in quella realtà, la scuola era costruita intorno alle esigenze dei ragazzi con difficoltà scolastiche e il recupero della persona era l’obiettivo primario. In una scuola dell’obbligo la questione è diversa perché i ragazzi stanno tutti insieme, il curriculum non può essere eccessivamente diversificato, la burocrazia impone paletti ben precisi: è necessario, quindi, agire prima che le differenze siano tali da costituire un gap incolmabile. Un docente ha il preciso compito istituzionale di essere insegnante, di far sì che i suoi studenti imparino a leggere, a scrivere, a fare di conto, a suonare, disegnare, muoversi in modo armonico. Un docente non può essere contemporaneamente psicologo, educatore, facilitatore, assistente sociale, perché la classe è un setting educativo e non terapeutico e non è formata da 10-12 studenti, ma da 25-27-30. E qui nasce il primo cortocircuito: il nostro mandato istituzionale ci chiede una cosa, i bisogni di alcuni ragazzi ci chiedono altro. Oggi, sempre più, c’è necessità della scuola anche come luogo di cura per i ragazzi difficili, quelli che poi mollano e smettono di frequentare anche dopo la prima media. Ragazzi che hanno bisogno di tempi distesi per l’apprendimento, di un programma ad hoc, di momenti di decompressione insieme ad un adulto, un educatore, momenti di confronto con psicologi e pedagogisti, momenti di recupero con i docenti. Abbiamo bisogno di prevenzione alla dispersione, che non può risolversi in un facciamoli arrivare tutti all’assolvimento dell’obbligo scolastico, poi chi vivrà vedrà. E’ come arrivano che fa la differenza.

La prevenzione non è cosa che riguardi solo la scuola ma deve interessare tutti: la Stato, i Comuni, la società civile. Essa non si attua con “individuiamo il referente per questo questo e quest’altro”, gettando su di lui il compito di inventarsi un bel progetto. La prevenzione non è un progetto, una tantum, ma uno stile di vita, una costante, solida e rinegoziata anno per anno: si tratta di sostenere le famiglie che non ce la fanno, seguire i ragazzi fuori e dentro la scuola, inserire figure diverse nelle classi, creare luoghi di aggregazione giovanile, luoghi di cultura, sport e bellezza. La scuola deve essere considerata come parte di un sistema educativo più vasto, non come monade a sè. A scuola abbiamo bisogno degli sportelli d’ascolto, di pedagogisti che lavorino con i ragazzi e con i docenti, di educatori che non si occupino di far fare i compiti, ma organizzino laboratori e aiutino i ragazzi a trovare il senso in quello che fanno, che stiano in classe insieme ai docenti, ma con compiti diversi. Abbiamo bisogno di poterci confrontare in modo serio e capillare coi servizi sociali, spesso oberati e assenti, con le altre scuole sul territorio, con le altre realtà educative (parrocchie, centri di aggregazione giovanile, società sportive). E, di fronte ai casi più gravi, anche di poterci dire che si deve progettare altro, si deve pensare ad altro, che la scuola non può essere la soluzione. Abbiamo bisogno di unire queste forze e di tornare a lavorare per costruire una comunità viva, di reciproco riconoscimento.

Abbiamo bisogno di tempo per osservare, pensare, studiare, agire, perché siamo da tempo troppo impegnati a correre, competere, inseguire chimere. Ma coi ragazzi ci vogliono tempo, pazienza e, soprattutto, presenza.

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