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diretto da Romano Luperini

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Il sogno dell’uomo di fuoco: Defoe, Manzoni, Tozzi

Presentiamo ai nostri lettori la seconda parte dell’adattamento didattico del saggio di Romano Luperini che tratta della ricorrenza dell’incubo dell’“uomo di fuoco” nella letteratura moderna e contemporanea, mettendo in evidenza le fondamentali differenze che sussistono fra il resoconto del sogno in età prefreudiana e quello in età prostfreudiana. Dopo aver spiegato il significato del sogno del protagonista adolescente del racconto La madre di Federigo Tozzi, Luperini analizza qui il resoconto di un sogno analogo che si trova nel Robinson Crusoe di Defoe. Tra il sogno narrato da Defoe e quello di Tozzi si colloca l’incubo di don Rodrigo nei Promessi sposi. La lezione che segue può essere proposta alla classe con l’ausilio della LIM o di un videoproiettore.

Da D’Annunzio alla simbologia religiosa, alla tradizione delle fiabe popolari: altre immagini dell’uomo di fuoco

D’Annunzio nel 1898 pubblica Il fuoco. In una scena centrale – la visita di Stelio e della Foscarina all’isola di Murano – la fiamma che arde nella fornace dell’artefice di vasi assume per la donna, il cui cuore è «ebro di distruzione», il valore simbolico dell’annientamento e per l’uomo quello dell’ispirazione creatrice, in cui l’elemento fallico maschile si esalta e nel contempo si purifica trasformandosi in arte e in poesia (cfr. G. D’Annunzio, Il fuoco, in Prose di romanzi, vol. II, a cura di N. Lorenzini, Mondadori, Milano 1989, pp. 432-435). La «natura insaziabile» del fuoco è per lei distruzione e per lui creazione. Da Stelio il fuoco, immagine di «volontà eroica» e di capacità di plasmare la materia in «poesia pura», viene infatti chiamato «padre» (e nel taccuino in cui aveva annotato per la prima volta l’episodio d’Annunzio parla esplicitamente di «padre fuoco»). Tanto la Foscarina quanto Stelio avvertono il fuoco come potenza maschile: se lei lo assimila all’amante, la cui passione virile per un’altra donna è avvertita come energia divorante, anche lui l’assimila a se stesso, e precisamente alla forza incoercibile della propria natura egoistica di maschio e della propria ispirazione d’artista che obbediscono entrambe solo alla prepotenza incontrollabile di una legge istintiva.

Tozzi, che aveva trascorso una fase giovanile di forte infatuazione dannunziana, certamente conosceva Il fuoco. Non si può inoltre escludere, nel resoconto del sogno narrato nella sua novella La madre, l’influenza di immagini del simbolismo teologico e biblico (dalla Bibbia alla Commedia di Dante, dove non mancano certo immagini di fuoco, sino alle Lettere di Santa Caterina), e si può supporre anche che non sia stato insensibile all’eco che quel simbolismo religioso propaga nell’immaginario popolare e nelle fiabe per ragazzi di cui, come Tozzi stesso ha testimoniato, era da ragazzo attento ascoltatore. In una favola fantastica toscana, raccolta alla fine dell’Ottocento da Emma Parodi, Il cero umano, un padre cattivo arriva a dare fuoco alla casa e a due figlioletti bruciandoli e uccidendoli, ma poi, trasformato per punizione in un uomo di fuoco, e cioè in un “cero umano”, come dice il titolo, giunge a riscattarsi del peccato commesso (cfr. E. Parodi, Fiabe fantastiche. Le novelle della nonna, con saggio introduttivo di A. Faeti, Einaudi, Torino 1993). Anche qui il fuoco è distruzione prima e purificazione poi; e riguarda una figura paterna inquietante e aggressiva.

Il «terrible dream» di Robinson Crusoe

Le immagini del simbolismo teologico sono particolarmente evidenti nel Robinson Crusoe di Defoe. Qui il protagonista, che ha fatto naufragio sull’isola sconosciuta già da qualche settimana, dopo essere stato terrorizzato da un terremoto, viene colpito da una serie di violenti attacchi di febbre terzana. Nell’intervallo fra uno e l’altro si trova, quasi senza accorgersene, a invocare la protezione e la misericordia divina. Poi, durante la notte, liberatosi dalla febbre ma ancora debolissimo, fa un «terrible dream»: vede un uomo circondato da fiamme ardenti, avvolto in «a bright Flame of Fire» (D. Defoe. Robinson Crusoe, a cura di M. Shinagel, W.W: Norton & Companiy, New York London 1994, p. 64), scendere da una grande nuvola nera. L’uomo gli si presenta come un fuoco così risplendente che egli riesce a stento a sostenerne la vista. Poi, sceso a terra, avanza minacciosamente verso di lui, con in mano qualcosa che somiglia a una lancia, si ferma su un rilievo del terreno e, levando la lancia per colpirlo, pronuncia con voce orribile queste parole: «Visto che niente è riuscito a indurti al pentimento ora devi morire» (D. Defoe, Robinson Crusoe, trad. di S. Nievo, Giunti, Firenze 1996, pp. 96-99). L’angoscia dell’incubo è tale che, appena sveglio, Robinson interpreta il sogno come il giusto castigo per la propria ribellione al padre, il quale gli aveva invano comandato di restare nei limiti della normalità, cercando di impedirgli di partire e minacciandolo, in caso di disubbedienza, della maledizione di Dio. «Adesso» – commenta Robinson – «si sono avverate le parole del mio caro padre: la giustizia di Dio mi ha colpito, e non ho vicino nessuno che mi possa aiutare o ascoltare». Da questo momento penetra in lui, insieme alla coscienza del senso di colpa, il sentimento della religione: Robinson comincia a pregare e a dedicarsi puntualmente alle pratiche cristiane che sino allora aveva del tutto ignorato.

Il sogno di Defoe e quello di Tozzi

E’ difficile dire se Tozzi conoscesse il romanzo di Defoe, anche se esso è lettura quasi obbligata degli adolescenti di ogni generazione. L’immagine dell’uomo di fuoco è, comunque, la stessa. Il sogno avviene in entrambi i casi in una situazione di debolezza dovuta alla prostrazione di una malattia (il tifo nel racconto di Tozzi, la terzana in quello di Defoe). In tutt’e due, inoltre, è prodotto da un senso di colpa nei confronti della figura paterna, sebbene complicato, in Tozzi, da un’ambivalenza che riguarda anche la madre. D’altronde nel romanzo di Defoe l’immagine punitrice del padre è accompagnata da un simbolo sadico-fallico, la lancia, che sembra diretto pendant della frusta che si associa alla figura paterna sia nella novella tozziana La madre («Il padre prese la frusta del cavallo e gliene dette quante volle»), sia in molti altri racconti e romanzi dell’autore toscano. Semmai in Defoe la purificazione del fuoco si inserisce in una prospettiva apertamente religiosa assai meno evidente nel racconto tozziano.

Sul registro delle differenze ne vanno segnalate due decisive, riguardanti l’una il contenuto e l’altra la forma del resoconto, ma entrambe strettamente collegate fra loro. Mentre Tozzi richiede la collaborazione del lettore alla costruzione di un senso complesso e sfuggente, nel romanzo di Defoe il narratore non solo fornisce al lettore tutti gli elementi per una corretta interpretazione del sogno, ma lui stesso lo commenta e lo spiega, esibendone la chiave necessaria alla comprensione. Il sogno segna il momento di una svolta: il ribelle capisce di avere sbagliato a non obbedire all’autorità paterna e nello stesso tempo si converte a quella religiosa. Per questo il fuoco del sogno può non solo portare violenza, morte e distruzione ma anche cancellare il peccato e identificarsi con un’immagine divina (si ricordi che il fuoco è anche la fiamma dello Spirito Santo e dunque immagine di Dio). Coerentemente a ciò, per quanto riguarda la forma del resoconto onirico, Tozzi accosta paratatticamente e quasi casualmente sensazioni diverse, senza subordinarle a una gerarchia che suggerisca un senso logico e coerente; Defoe vuole invece enucleare un preciso contenuto morale e assegna al sogno un valore religioso e, si direbbe, didattico. In Tozzi i singoli periodi sono collegati dalla coordinativa paratattica «e», che ritorna tre volte («E sognò», «e allora», «E non vedeva»), cui si aggiunge, una volta, il «Ma» già considerato. In Defoe compaiono invece consecutive («so that») e varie temporali («when» due volte, «no sooner…but», «while»), che articolano il discorso su piani e prospettive diversi. Tozzi racconta espressionisticamente, “in soggettiva” e in presa diretta, rendendo immediatamente la logica simmetrica dell’evento onirico e anzi riproducendola sulla pagina; Defoe espone il sogno dopo averlo già elaborato e inserito in una prospettiva razionale e in un disegno di tipo morale. Tozzi valorizza il sogno in sé, come evento onirico che ha in sé stesso la propria ragione (anche quella di essere narrato); Defoe gli conferisce valore solo in quanto produttore di altro (e cioè di scelte etico-religiose). La differenza fra il resoconto del sogno in età postfreudiana e quello in età prefreudiana non potrebbe risultare più evidente.

Da Defoe a Manzoni: l’incubo di don Rodrigo

Manzoni conosceva bene il Robinson Crusoe. In Fermo e Lucia lo cita esplicitamente nel cap. IV del tomo II. Quando Geltrude in convento si guarda allo specchio e si scopre bella, l’autore avverte che si trattava di ben misera consolazione, simile a quella provata da Robinson «nella sua isola a contemplare le monete ch’egli aveva trovate nei frantumi del vascello sul quale era naufragato». E aggiunge: «Anzi, non pari, perché quel solitario le gettò in disparte con disprezzo, dopo aver fatto ad esse un’apostrofe su la loro inutilità, e non vi pensò più» ( A. Manzoni, I Promessi Sposi, vol. I: Fermo e Lucia, a cura di L. Caretti, Einaudi, Torino 1971, p. 185). Si ricorda poi di Robinson quando Fermo, nella sua fuga verso l’Adda, si arrampica su una pianta per trascorrervi la notte così come aveva fatto Robinson in attesa della sua prima alba sull’isola deserta.

Appare difficile che Manzoni sia rimasto insensibile alla svolta religiosa del romanzo di Defoe, rappresentata dal sogno dell’uomo di fuoco. E forse una qualche eco è rintracciabile nel sogno di don Rodrigo e nel valore decisivo che esso assume per il destino del personaggio. Come Robinson, anche don Rodrigo vive il suo incubo notturno sotto l’effetto di una malattia che lo debilita; anche don Rodrigo vede nella figura di fra Cristoforo un’autorità paterna (fra l’altro, lui chiama il frate «padre») che lo minaccia e a cui nell’intimo riconosce il potere di punirlo. Inoltre anche fra Cristoforo è collocato su un posto elevato (il pulpito della chiesa), presenta un volto che emana un chiarore «luccicante», fulmina intorno uno sguardo terribile e alza la mano terrorizzante verso don Rodrigo. Infine è a partire da questo sogno che si apre per don Rodrigo quello spiraglio di salvezza eterna a cui alluderà fra Cristoforo alla fine del romanzo: «Può esser gastigo, può esser misericordia». L’incubo mostra quanto il rimorso e il senso di colpa abbiano scavato nell’inconscio del personaggio, in genere troppo frettolosamente liquidato dalla critica manzoniana come superficiale e mediocre tirannello, mentre indubbiamente don Rodrigo sembra possedere una propria, inquietante, vita interiore.

Nell’incubo di don Rodrigo non manca una logica onirica: ne sono documenti le figure grottesche degli appestati, l’apparizazione allucinatoria della figura del frate, il modo con cui convergono su di lui gli sguardi di tutti, la sottolineatura dell’indefinito, dell’annebbiato, del «non so che» (ripetuto due volte), il valore simbolico che assume l’improvvisa scomparsa della spada che annulla il potere e la potenza del personaggio. Ma gli ingredienti del sogno (la paura della peste, la chiesa, la minaccia di fra Cristoforo, il dolore al petto) rimandano tutti al mondo diurno e alla referenzialità oggettiva della vicenda (con particolare riferimento sia al cap. VI del romanzo, quando don Rodrigo e padre Cristoforo si erano apertamente confrontati e sfidati, sia al cap. VII, quando viene descritto il comportamento di don Rodrigo dopo lo scontro con il frate, sia infine alla situazione presente della peste). Inoltre l’interpretazione del sogno è trasparente, e non meno lo è il suo messaggio morale e religioso. Abbiamo modo di apprezzare così, da un’altra prospettiva, la differenza fra il sogno dell’età prefreudiana e quello successivo alla svolta fra Otto e Novecento.

La modernità di Tozzi: l’immediatezza perturbante del sogno

Ma torniamo al racconto di Tozzi. Verso la fine della narrazione, scoppia un terribile temporale estivo:

Ad un tratto egli scorse una vasta fiamma sopra e poi intorno a una querce; lo schianto era stato orribile. […]

Egli cominciò a piangere senza tregua, tanto che ebbero paura che non gli venisse male. Allora chiamarono la mamma, che lo strinse alle sue braccia e lo baciò.

Ma le folgori continuarono. Ella dovette serrare tutte le finestre, e poi s’inginocchiò con lui ad una poltrona per dire le litanie. Ma dalle fessura delle imposte egli scorgeva le fiamme dei baleni e non sapeva dove rifugiarsi.

Di fronte alla minaccia delle fiamme il rifugio offerto dalla madre (che non corre di propria iniziativa, ma ancora una volta viene chiamata da altri) risulta nuovamente insufficiente. La stessa situazione è narrata una seconda volta in Bestie: ancora un «temporale orribile», ancora lampi, pianto e terrore; e di nuovo la posizione è quella che Finzi chiama dell’incesto:

La mamma s’era seduta nella sua poltrona, io m’ero messo in ginocchio con la testa sopra a lei. Le sue mani mi tappavano gli orecchi. Ma non avevo il coraggio di chiudere gli occhi, e, piangendo, senza muovermi da quella posizione, mi segnavo, cominciavo l’avemaria senza mai finirla (F. Tozzi, Bestie, in Opere, a cura di M. Marchi, Mondadori, Milano 1987, p. 604).

La situazione, che ritorna due volte in opere diverse, sembra ripetersi sulla scena dell’immaginario tozziano con la forza di suggestione e di turbamento – lacrime e terrore – derivante da un suo segreto significato simbolico. Nei miti greci e nel mondo biblico Dio colpisce con le fiamme e con l’acqua, con le folgori e con il diluvio (cfr. N. Frye, Il grande codice. Bibbia e letteratura, Einaudi, Torino 1986, p. 195). Come nell’incubo dell’uomo di fuoco, contro le fiamme delle folgori che evocano l’ira e la punizione di un Dio-padre, il giovane di Tozzi cerca invano rifugio in una figura materna protettiva, trascorrendo dalla preghiera rivolta alla madre naturale alla preghiera indirizzata alla madre divina (l’avemaria). E in questa ricorrenza sta forse la ragione del modo tutto particolare – primitivo e biblico insieme – con cui Tozzi vive l’esperienza religiosa. L’angoscia di fronte all’onnipotenza del padre biografico diventa quella per un Dio-padre assoluto e incomprensibile, crudele e vendicativo. La religione cristiana per Tozzi non è un complesso dottrinario e ideologico, ma la proiezione di suggestioni arcaiche, di simboli, di miti e di paure ancestrali che vengono da un lontano fondo antropologico e da una immaginazione psicologicamente alterata. Ma anche l’uomo di fuoco armato di lancia che compare nell’incubo di Robinson non è che una ennesima proiezione di un’immagine archetipica di tipo apocalittico che dal Zeus greco giunge sino al Dio biblico e alla religione professata dal protagonista del romanzo. Però – e così il cerchio si chiude – Defoe traspone quei miti in una favola didattica a forte caratura ideologica, mentre nella sua modernità Tozzi, che ignora l’arte della mediazione ed è affascinato dal culto del primitivo, li lascia vivere nella loro immediatezza perturbante.

NOTA

Questo testo riproduce in parte il saggio di R. Luperini, Il sogno dell’uomo di fuoco, in L’autocoscienza del moderno, Liguori, Napoli 2006, pp. 89-94.

L’immagine è Red Plastic 1964 di Alberto Burri.

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