Proletkult: il romanzo russo come non lo avreste mai immaginato
«È impossibile risalire alla sorgente di una storia. Come un fiume che nasce dall’incontro di molti ruscelli, e solo per convenzione si può stabilire qual è il corso principale. Chi racconta non è mai soltanto un narratore. Anche a lui capita di ascoltare. Chi adesso ascolta, più tardi narrerà. La storia passa di bocca in bocca, non si può distinguere il contributo di ciascuno. E anche quando si tratta di un libro, quanto della sua storia è già nelle pagine e quanto viene dal lettore? La materia allo stato puro non esiste. Ogni parola di un testo è in relazione con altre parole, contenute in altri libri e in altre menti. […] Impossibile stabilire chi sia l’autore di un simile intreccio.» (Wu Ming, Proletkult, Einaudi, Torino 2018, p. 123)
«Stiamo scrivendo un romanzo russo»: così annunciava il collettivo Wu Ming sul blog Giap il 1° agosto 2017. Il romanzo ha avuto la sua gestazione, condivisa secondo un nuovo paradigma (due scrivono e uno rivede quanto prodotto dagli altri), e l’attesa per i lettori si è conclusa nell’ottobre scorso con la pubblicazione di Proletkult per Einaudi, nella collana Stile libero big. Solo da pochi giorni sono on-line, sul sito dell’editore (https://www.einaudi.it/approfondimenti/wu-ming-proletkult/), anche i titoli di coda, uno strumento che, per gentile concessione (visto che la pratica dei titoli di coda era in uso solo per le opere soliste), gli autori hanno messo a disposizione per decodificare al meglio la mappa della loro storia obliqua. Già, perché – e mi sembra la prima cosa da dire – il marchio di fabbrica resta quello: raccontare da un punto di vista inedito una vicenda che si pensa di conoscere (in questo caso la Rivoluzione russa) con un’operazione di mitopoiesi che sfida spesso le leggi del buonsenso, nel caso specifico vince anche la forza di gravità e varca i confini planetari, ma che riesce a ottenere nel lettore la sospensione dell’incredulità, nonostante la «termodinamica» di questa narrazione misceli ingredienti apparentemente assurdi: fino a qualche mese fa il crossover fra storia e fantascienza sembrava poco convincente, ora invece… Procediamo con ordine.
Il romanzo è ambientato prevalentemente a Mosca nel 1927: a dieci anni dalla Rivoluzione è già tempo di bilanci. “Le celebrazioni per il decennale rischiano di essere il funerale della rivoluzione” (p. 153), definita con disincanto “un evento imperfetto, storto, perfino sbagliato, la cosa migliore uscita dalla più grande guerra di tutti i tempi. Non ci piace, ma è quello che abbiamo” (p. 166). Questo giudizio appartiene al protagonista del romanzo, Aleksandr Malinovskij, meglio conosciuto come Bogdanov: «eretico fra gli eretici, ha abbandonato il campo di battaglia della politica, poi quello della cultura, per occuparsi solo di scienza. Convinto che le bestemmie di un’epoca possono diventare la verità di quella successiva. Galileo e molti altri sono lì a dimostrarlo» (p. 149). Dopo aver aderito al bolscevismo con Lunačarskij e Bazarov e aver partecipato alla Rivoluzione del 1905, Bogdanov entrò in disaccordo con Lenin, ufficialmente per questioni filosofiche: nel monumentale trattato intitolato Empiriomonismo Bogdanov teorizzò che «la realtà è un flusso di esperienze organizzate dalla mente, non esiste indipendentemente da noi, è un’emanazione del pensiero», in un rigurgito di idealismo che non piacque a Lenin, come si evince dal pamphlet molto critico Materialismo ed empiriocriticismo (1909). Al di là delle questioni teoriche, tuttavia, Bogdanov divenne una figura scomoda, anche perché estremamente critica verso il «partito-padre», «che si rivolgeva alla classe operaia per dirigerla, come un padre premuroso, ma non per educarla. E le poche volte che ci provava, era un vecchio maestro che trasmette agli scolari un sapere in forma di fede e non di conoscenza collettiva» (p. 170). Espulso dal Partito Comunista, Bogdanov iniziò una nuova avventura, fra Capri (dove giocò una memorabile partita a scacchi con il suo rivale Lenin a villa Baesus, residenza dello scrittore Maksim Gor’kij) e Bologna: partecipò alla realizzazione di scuole in cui intellettuali socialisti e lavoratori russi in esilio studiavano fianco a fianco. Anche quando rientrò in Russia ripropose questo modello, fondando poche settimane prima della Rivoluzione d’Ottobre e poi disseminando capillarmente circoli per l’istruzione denominati Proletkult (da cui il titolo del romanzo) per «formare intellettuali operai che fossero scrittori, artisti, scienziati, ingegneri».
Nel 1927, quando Lenin ha ormai definitivamente condannato il bogdanovismo e ha già da tempo sottratto al fondatore il controllo dei Proletkult che, in effetti, avevano raggiunto un numero di iscritti pari a quelli del Partito Comunista, Bogdanov,a questo punto fuori dai giochi di potere, assiste alla resa dei conti fra Stalin e gli oppositori da una posizione del tutto defilata. È infatti tornato alla medicina (che, dopo gli studi universitari, aveva praticato in gioventù nell’ospedale psichiatrico di Vologda e in seguito come ufficiale medico nella Prima Guerra Mondiale) e dirige a Mosca il primo Istituto per le trasfusioni. In questa sorta di gabbia dorata che il regime gli ha messo a disposizione sta sperimentando l’ultima frontiera dei suoi studi sulla tectologia, o scienza dell’organizzazione: il collettivismo fisiologico. Il «comunismo del sangue» è una pratica innovativa e improbabile che prevede trasfusioni a scopo terapeutico secondo il principio che «la condivisione fa la forza» e, nello specifico, «il sangue del giovane porta nel corpo dell’anziano una maggiore energia; il sangue dell’anziano trasmette al giovane i frutti di una più lunga esperienza» (p. 42), con beneficio per entrambi, dato che «la vitalità di un sistema, di un essere umano come di un motore, non dipende solo dalla sua energia, ma anche dal modo in cui è organizzata» (p. 43). All’istituto diretto da Bogdanov vengono ricoverati soprattutto funzionari di partito esauriti, perché «la rivoluzione mette a dura prova i nervi. Scatena crisi di identità. Agli operai si chiede di studiare. Alle donne di lavorare come gli uomini. Ai sottoposti di assumersi responsabilità. Ai ribelli di andare al governo» (p.40). Una terapia sperimentale certo non esente da critiche, già al tempo: «Tu vuoi mescolare il sangue di tutti e pensi che questo ci renderà più uniti e più uguali, ma sono le relazioni a tenere insieme la collettività, non il sangue. Sono i rapporti fra le persone» (p. 147) confida a Bogdanov un’altra marxista eterodossa, Aleksandra Kollontaj, per breve tempo ministro del governo bolscevico, contraria alla firma del trattato di Brest-Litovsk, invisa a Lenin e Trotsky, che nella sua vita si occupò di assistenza alla maternità e di istituzione di asili nido, di lotta all’analfabetismo, di estensione del diritto di voto alle donne e di erogazione di un pari salario senza distinzione di genere. In un libro ricchissimo di personaggi collaterali, come si conviene ad un romanzo storico ben congeniato in stile Wu Ming, mi piace, fra i tanti, ricordare la figura di questa donna tenace.
Proprio nello studio del direttore dell’Istituto si presenta uno strano paziente. Si chiama Denni ed è la protagonista femminile del romanzo. Duplice, infatti, è focalizzazione sghemba di questa narrazione: non c’è solo il punto di vista di Bogdanov, di per sé eccentrico per quanto sopra riferito, ma anche quello di doppiamente straniante di una ragazza che dice di venire da un altro pianeta: Nacun. In verità non è dato di sapere se il mondo da cui viene sia un altro, oppure se la giovane sia psichicamente labile, affetta da una forma di “pseudologia fantastica”. Ma questa seconda ipotesi non è priva di suggestione e introduce un elemento metaletterario in grado di vincere la resistenza anche del lettore più refrattario ad accendersi per il racconto delle lotte politiche che vedono opporsi bolscevichi e menscevichi: Denni è uscita dalle pagine di Stella rossa, romanzo di fantascienza pubblicato da Bogdanov nel 1908 e che, nell’edizione del 1924, reca in appendice un poemetto intitolato Un marziano bloccato sulla Terra, basato sull’archetipo l’orfano mezzosangue che cerca uno dei suoi genitori. Denni, infatti, crede di essere la figlia del protagonista di Stella rossa, Leonid Voloch, che ha viaggiato nello spazio, ha raggiunto il pianeta socialista Marte-Nacun, ribattezzato “Stella rossa”, su cui avrebbe lasciato una discendenza ibrida a seguito dell’incontro con la nacuniana Netti. Rientrato sul pianeta terra, Voloch ha raccontato la sua avventura a un dissidente russo esule a Capri, al compagno Bogdanov, il quale l’ha a sua volta trasformata in letteratura, perché si espandesse ancora grazie ai suoi lettori di ogni tempo.
Su Nacun la rivoluzione l’hanno fatta col sapere, non esiste proprietà privata, i bambini hanno tanti padri e tante madri, le trasfusioni di sangue allungano la vita, non esistono tante scienze, ma una super-scienza che le comprende tutte, la legge universale dell’organizzazione. Stella rossa è «l’empiriomonismo tradotto in parabola», è «un racconto filosofico», «un romanzo di scienza e di fantasia», una storia che si mescola con la realtà fino al punto di prendere vita: Denni ora è in missione perché la terra potrebbe correre un grave pericolo e «gli umani potrebbero esser i conigli dei nacuniani » (p. 164). A Nacun, infatti, c’è penuria di risorse e «alcuni pensano che sarebbe più pratico sterminare voi terrestri con un veleno selettivo. Questo ci metterebbe a disposizione l’intero pianeta. La vita non avrebbe che da guadagnarci, perché la vostra scomparsa consentirebbe di preservare la nostra civiltà che è più avanzata e più numerosa della vostra. Io sono venuta sulla terra per evitarlo» (p. 160).
I debiti letterari dell’operazione sono evidenti, e non solo nella costruzione del personaggio di Denni, una versione femminile ed extraterrestre di Don Chisciotte, che non si rassegna all’ingiustizia e alla prevaricazione e con slancio utopistico vuol plasmare la sua vita e la realtà secondo i principi nacuniani continuando la storia del romanzo da cui pensa di venire. Se Ariosto ci insegna che «Altri fiumi, altri laghi, altre campagne/ sono la sù, che non son qui tra noi» l’esplorazione lunare di Astolfo in rapporto dialettico con il mondo terrestre, allora anche «parlare della Stella rossa è sempre un modo per parlare della Terra e capirla meglio» (p. 123), secondo un procedimento in verità antichissimo: non a caso in epigrafe a Proletkult si trova quel passo della Storia vera di Luciano di Samosata (II secolo d.C.) in cui, in fondo al pozzo di un mondo immaginario, si specchiava il nostro mondo. Il collettivo Wu Ming, insomma, in fatto di letteratura entra in rotta di collisione con il pragmatismo di Lenin che, a proposito del romanzo Stella rossa di Bogdanov, ebbe modo di scrivere sarcasticamente alla madre che “la menzogna che ci eleva ci è più cara di un mucchio di volgari verità” (cfr. https://www.marxists.org/archive/lenin/works/1908/jul/00mau.htm ).
A volte per comprendere meglio la realtà che ci è vicina bisogna guardarla da lontano, spostare lo sguardo, usare gli strumenti dell’immaginazione, rovesciare il punto di vista. Per fare questo da qualche tempo Wu Ming ha superato il canone del romanzo neostorico che ha dato vita al fenomeno New italian epic e ha intrapreso un nuovo percorso, pur rimanendo fedele alla volontà di costruire contronarrazioni, «che spezzano e deviano l’andamento in apparenza ineluttabile delle narrazioni dominanti» (così Wu Ming 1, nella Prefazione al saggio Mitocrazia di Yves Citton). Il romanzo russo del collettivo bolognese dimostra che per «conoscere il mondo e cambiarlo», ma anche per «cambiare noi stessi» (p. 304), per immaginare altre vite, per riscrivere il mondo che non ci piace non c’è bisogno di andare nello spazio, si può cominciare leggendo un libro, soprattutto se si crede che «la scrittura non funziona come un recinto: se metto una storia sulla pagina, non la faccio mia. Al contrario ne moltiplico gli autori. […] Le storie sono di tutti» (Wu Ming 2 e Antar Mohamed nei Titoli di coda di Timira, Einaudi, Torino 2012, p. 503).
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