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diretto da Romano Luperini

 Amabil rito

Se facessimo la storia degli esami conclusivi del secondo ciclo, sciorinando le date delle riforme che si sono susseguite dal 1923 al 2019, ci presenteremmo come noiosi professori che “fanno la lezione”. Tuttavia, siamo professori e ricordiamo le date e le improvvise accelerazioni che ha subito l’iter normativo focalizzato esclusivamente sugli Esami di Stato. Abituati come siamo a scrivere programmazioni, relazioni, documenti, profili, griglie, giudizi, voti, progetti, utili a scandagliare, negli ultimi 25 anni, la maturità della persona, le conoscenze, le abilità e, infine, le competenze dello studente “al termine del ciclo”, non dovremmo stupirci più di niente.

Dobbiamo dunque in prima battuta ringraziare chi ci ha sottratto alla noia di un giorno ripetitivo e ci è precettor d’amabil rito. Giacché risulta evidente che l’Esame è considerato una cerimonia la cui validità non è inficiata da mutamenti del rito: la cosa che conta è la formula liberatoria finale che riduce davvero tutto ad avere in mano un Diploma. Un documento indispensabile a fini burocratici, senza il quale non si può presentare Domanda.

Eppure, guardando gli occhi dei ragazzi con cui abbiamo avuto a che fare ogni anno per tanti anni, sempre diversi, abbiamo pensato che il nostro non fosse un lavoro di carta e che valesse la pena faticare, adattarsi, arrabbiarsi, aggiornarsi per dare ai giovani consapevolezze, cultura, conoscenze, competenze che fossero più solide della carta.

Invece, dovremo chiedere: “Quale busta vuoi? La uno, la due o la tre?”

Cahier de doléances  

La riforma non tiene conto di una serie di aspetti sostanziali: tempi, logistica e, last but not least, didattica, con tutto ciò che questo termine implica. La scuola con tutta evidenza non rappresenta un comparto essenziale per la vita e lo sviluppo del paese, al contrario, è assimilata  a una sorta di palestra dove l’aspirante atleta va allenato per migliorare i tempi delle sue prestazioni, non importa con quale metodo, con quali obiettivi e men che mai con quale consapevolezza.

Nella speranza che le nostre parole possano contribuire a suscitare un dibattito, una riflessione, una qualsivoglia reazione, e magari insinuare il dubbio che non si stia facendo il bene degli studenti, degli insegnanti, della società, proviamo ad entrare nel merito della questione:

1.Le regole del gioco: E’ inaudito che si modifichino le regole a partita iniziata: non ha alcuna giustificazione pedagogica, didattica, intellettuale (e sportiva) modificare – sostanzialmente e sotto diversi aspetti – l’esame di Stato per gli attuali studenti di quinto anno. Se le ragioni pedagogiche e didattiche appaiono pretestuose resistenze al nuovo di polverosi intellettuali renitenti all’estinzione, ci appelliamo al buon senso, patrimonio comune dell’umanità.

2. I tempi di percorrenza: Qualunque prova, e perciò a maggior ragione un esame finale, deve verificare un percorso di studi che si sia sedimentato nel tempo: la scuola prevede lo svolgimento di attività didattica (lezioni), a cui nessun insegnante può sottrarsi, e di studio individuale a cui sono chiamati gli alunni.  Tutto questo avviene, a norma di legge, all’interno di un anno scolastico. Adesso ci troviamo di fronte a prove di esame che devono essere preparate in meno di cinque mesi; e questo in aperta contraddizione sia con la procedura della verifica, sia con la normale ed efficace durata di un anno di attività scolastica.  E’ del tutto inaccettabile che con l’annuncio di quattro simulazioni (due per prova) che si terranno da febbraio ad aprile, il ministro pretenda di risolvere le questioni fondamentali relative agli strumenti. Un docente impiega cinque anni per dotare i propri studenti di strumenti di indagine e risoluzione dei problemi: davvero è possibile credere ragionevolmente che una simulazione di prova – ma anche un intero quadrimestre di simulazioni – possa sostituire il lavoro metodico e paziente condotto nelle lunghe percorrenze di un anno scolastico? E’ quello il tempo durante il quale docenti e alunni lavorano, studiano, elaborano e trasmettono/assimilano contenuti e metodi di lavoro che, evidentemente, non possono essere improvvisati.

3. Le questioni metodologiche: Alla revisione della prima prova lavorava, già dal precedente governo, la commissione Serianni, che ha portato a termine l’incarico al principio di quest’anno scolastico. Il rispetto della riflessione metodologica avrebbe dovuto suggerire che l’anno scolastico in corso servisse per metabolizzarne le ragioni. Invece, non solo questo non è accaduto, giacché la nuova prova entrerà in vigore già dal giugno prossimo, ma vi si sono stratificati di sopra: a) esempi di tracce del tutto discutibili (come già evidenziato anche su questo blog), b) griglie di valutazione dai margini incerti, c) perfino la novità tardiva della riformata seconda prova. Come se tutto ciò non bastasse, si interviene anche sull’orale, le cui modalità di avvio prevedono le già famigerate buste. E’ segno evidente di una completa noncuranza, da parte del MIUR, dei percorsi didattici già intrapresi, nonché di una assoluta indifferenza rispetto alle questioni di metodo.

4. Il ruolo dei docenti: Ci si chiede quali siano gli ambiti di intervento destinati ai docenti. Quale spazio di riflessione e di collaborazione attiva è stato previsto per coloro che quotidianamente entrano nelle aule scolastiche e lavorano con e per gli studenti, oltre a quello di preparare un numero di buste per il quiz di fine anno?

Qualche considerazione a caldo

La questione essenziale riguarda l’attuazione di un pacchetto di modifiche relative tout court all’Esame di Stato, dalla prima prova, quella di italiano, alla seconda prova, specifica per ogni indirizzo di studi, fino al colloquio finale.

Quali i criteri che hanno ispirato questi cambiamenti? Quale il fine? Quale spazio è stato dedicato alla consultazione del mondo della scuola? Se si intendono realizzare mutamenti sostanziali, come prescindere dagli insegnanti, che non siano meri esecutori delle direttive? dagli studenti, che non siano passivi accumulatori di procedure?

Il criterio unificante sembra mirato ad appiattire le profonde diversità che caratterizzano la realtà scolastica, oltremodo variegata all’interno del territorio nazionale, allo scopo di ridurre a una formula preconfezionata l’evento-esame. Si ha l’impressione che si voglia annullare qualsivoglia esercizio di spirito critico e autonomia di giudizio, sia da parte dei docenti, sia da parte degli alunni.

Dalla revisione della prima prova, già oggetto di riflessione di interventi precedenti su questo stesso blog, alla sostanziale trasformazione della tipologia della seconda, si perde di vista un obiettivo fondamentale: l’effetto del tempo, della riflessione, della maturazione degli alunni e del consolidamento di un metodo di studio e di analisi dei fenomeni che non può essere improvvisato.

La seconda prova, ad esempio, viene sottoposta a un radicale cambiamento. E fin qui nulla di male, se non fosse che la vita scolastica necessita di altri tempi e modi, soprattutto quando si interviene su un momento specificamente caratterizzante il corso di studi scelto, durante il quale più che mai l’alunno chiama a raccolta le sue energie intellettuali e le competenze acquisite negli anni, per maneggiare materiali e testi sui quali, nello spazio del quinquennio, si è interrogato e ha lavorato.

Ora, la riflessione, che vogliamo condividere con gli operatori del mondo dell’istruzione, ma anche con le famiglie e gli studenti (che sono i destinatari reali di queste nostre considerazioni e del nostro lavoro quotidiano), vuole approdare a una lucida disamina del problema: quali risorse la politica, e segnatamente gli esperti del MIUR, mettono in campo quando si accingono a “riformare” le regole della vita scolastica?

Riformare significa dare nuova forma, nuovo assetto a un sistema, sulla base di mutate esigenze e di osservazioni e indagini sul funzionamento del sistema stesso.

Ciò presupporrebbe una capillare rete di verifiche che, condotte da parte del ministero, mirassero a individuare elementi di forza come anche di debolezza dell’intera vita scolastica. Sembra invece che gli unici indicatori di efficacia delle istituzioni scolastiche si misurino in termini di numeri, prestazioni, pubblicità e orientamento, in perfetto stile aziendale.

Altro aspetto essenziale è senza dubbio quello che attiene al riconoscimento del ruolo delle istituzioni scolastiche in Italia. Non si tratta di vaghe rivendicazioni né di generiche lamentele di insegnanti frustrati.

L’istruzione pubblica è uno dei capisaldi della Costituzione italiana, e il decreto del nuovo Esame di Stato stabilisce che lo studente, che deve essere dotato di competenze di cittadinanza, deve esporre esperienze di “Cittadinanza e Costituzione” a corollario del colloquio.

Dunque, ci sembra paradossale che, nel novero di tante buone intenzioni, il legislatore perda di vista il valore formativo della relazione umana, ovvero la straordinaria sinergia scaturita da cinque anni di vita scolastica, durante la quale docenti e discenti costruiscono il sapere, lo calano nel reale delle loro esistenze e si attrezzano per decodificare i molteplici aspetti della vita. A fronte di questo enorme lavoro, i cui frutti spesso si raccolgono dopo anni, ci vediamo costretti a improvvisare tempi e modalità di verifica di un esame che sarebbe il naturale compimento di un corso di studi e che andrebbe vissuto con serenità e adeguata preparazione.

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