Un fraterno diagnosta. Su La pura superficie di Guido Mazzoni
Guido Mazzoni ha vinto il Premio Nazionale Elio Pagliarani 2018, per la poesia edita, con la seguente motivazione: “La pura superficie è lo schermo opaco su cui scivola lo sguardo quando viene rivolto sull’altro da sé. Fino dal titolo del suo libro Guido Mazzoni costringe il lettore a confrontarsi con il paradosso di un tempo, il nostro, nel quale l’egocentrismo eretto a sistema coesiste con una individualità tanto incerta da doversi continuamente riparare – schermare, appunto. Esponendo lo sfaldamento, il disincanto, l’esibizionismo, l’insignificanza, infine il nostro essere, tutti, “soli e incomprensibili”, Mazzoni esercita un’assunzione di responsabilità che rappresenta l’unica istanza etica a noi oggi forse concessa. Se la nostra epoca può esprimere una poesia civile, La pura superficie ne è un esempio”. Ripubblichiamo la recensione che al libro ha fatto il nostro collaboratore Daniele Lo Vetere.
Lo scandaglio di un occhio clinico
C’è un topos nei film di evasione carceraria e in quelli di fantascienza: la luce proiettata di un faro o un laser puntato setacciano il terreno palmo a palmo, metodicamente. Nella realtà sarebbe probabilmente impossibile sfuggire a questo controllo panottico. Nella logica fantastica e arbitraria del film, al contrario, al protagonista è lecito infrangere questa impossibilità. Lo stile di Mazzoni e la sua visione del mondo (e di conseguenza del rapporto tra linguaggio e mondo) possono essere descritti, credo, con questa metafora.
Mazzoni sembra mirare a una visibilità ed esteriorizzazione totali. Tutto è scandagliato da un occhio clinico: l’interno e l’esterno – la psiche e i corpi – degli individui, i pensieri e le emozioni, il dettaglio di un gesto e la filosofia della storia, la vita domestica e i grandi eventi politici e sociali, il fatto autobiografico e la letteratura, il sogno e la veglia, la vita umana e quella animale. È uno stile privo di allusioni, reciso, anti-orfico. La ricognizione procede millimetricamente, un dettaglio alla volta, con sovrumana calma, sia quando si tratta delle più trita quotidianità, sia quando la materia è orribile:
Scende in metropolitana, gioca col telefono, si stanca / di uccidere gli alieni, allora lascia / che emerga un pensiero complesso, prova a dargli forma. / Chiude la custodia, guarda fuori senza vedere. / È un pensiero sulla vita sociale, sulle cerchie. (Cinque cerchie)
Sono docili, vengono sgozzati con lo stesso movimento con cui si affetta la carne nel piatto muovendo la lama avanti e indietro, infantilmente; e anche se il sangue esce a spruzzo l’inquadratura resta perfetta, l’ultimo prigioniero dissanguato fa in tempo ad alzare lo sguardo verso di noi prima di perdere coscienza. Poi c’è uno stacco, c’è un effetto di montaggio dopo il quale le teste dei siriani ricompaiono appoggiate sulle schiene e parte la sigla di chiusura. È un video orribile. È un video molto bello. (Sedici soldati siriani)
È uno stile che nasce dallo sguardo ancor prima che dal linguaggio e varrà la pena osservare che Mazzoni è anche fotografo dilettante e che l’occhio della cinepresa e il guardare le immagini in tv e in internet sono esplicitamente tematizzati in alcuni testi (oltre a Sedici soldati siriani, I destini generali, nei quali gli sgozzamenti a beneficio di video dell’Isis e l’11 settembre ripercosso sugli schermi di tutto il mondo sono all’origine di due prose di agghiacciante nitore).
La metodica indagine “panottica” nasce però anche da un’esigenza intellettuale di esaustività o – forse meglio – da un’ansia (hegeliana) «di reductio ad unum concettuale della realtà tutta» (Galaverni), in tempi nei quali tale volontà è ormai insostenibile (ma Mazzoni lo sa, e nei suoi interventi teorici lo dice). Due poesie come Cinque cerchie e Quattro superfici ambiscono a esaurire, partitamente, una porzione di realtà, scandendola/scansionandola attraverso un movimento centrifugo ordinato che è anche un procedere per successive astrazioni: le cerchie delle «persone che significano qualcosa», «la cerchia di coloro che significano molto per giorni, / per anni, e poi smettono di esistere», «la cerchia di coloro che gli servono», quella degli «esseri che vede e non conosce», infine «la cerchia di chi esiste / in teoria o in effigie»; i corpi altrui come prima superficie (ovvero separazione: ci torno) nel nostro rapporto con gli altri, la percezione e il linguaggio come seconda e terza, «l’immagine interna degli altri» come quarta.
«Tutto potrebbe essere diverso, e non c’è quasi nulla che io possa cambiare»
Perché Mazzoni sceglie questo punto di vista sovrumano, astrale, algido? E non è paradossale che lo scelga chi, in veste di critico, ha spiegato persuasivamente come la poesia moderna sia l’espressione di un compiuto soggettivismo (Sulla poesia moderna, 2005)? La mia impressione è che egli sia fra i pochissimi a prendere profondamente sul serio l’incubo – non so se post-umano, certamente post-umanistico – in cui potrebbe consistere la nostra realtà: le moderne società capitaliste sono talmente complesse da essere ormai completamente al di là della nostra possibilità di intervento, dei singoli come dei gruppi organizzati. In qualche modo la visione del mondo di Mazzoni ricorda quella che emerge dalla sociologia di Niklas Luhmann, radicalmente anti-umanistica e anti-storicista: la società è un insieme di sistemi complessi autoreferenziali, strutture-funzioni che interagiscono fra loro senza bisogno di alcun intervento umano; ciò che rende arnesi inservibili l’etica e la politica, in una parola il libero arbitrio. Quella che per Luhmann è una descrizione obiettiva cui sarebbe stupido opporsi – è la luna non il dito che bisogna guardare –, per Mazzoni è, io credo, una condizione distopica: non esiste uomo capace di tollerare l’idea che l’evasione del protagonista del film sia solo un’invenzione consolatoria e romanzesca. Mazzoni, in altre parole, intravede il possibile rovesciamento – dialettico? – del sogno di libertà della modernità illuminista in una ultramodernità fondata su una inscalfibile immanenza – le cose sono solo quel che sono –, soggetta alla legge spietata dell’ananke come qualche società primitiva o arcaica: «è probabile che le cose non abbiano un Senso […]. È una condizione orribile da vivere per tante ragioni, ma forse anche perché consente di raggiungere una forma di lucidità assoluta. Il genere umano non può sopportare troppo la realtà» (intervista a Gianluigi Simonetti). Il senso di impotenza diffuso, la chiusura nella propria ristretta sfera di soddisfazioni personali, quel benessere che ci viene comunque ancora garantito da quella che nel saggio I destini generali Mazzoni chiama la «Western way of life», sono fondati su una forma di vita che pretende di essere una necessità cosmica, l’ultima forma pensabile di società. Come ha scritto Luhmann: «Tutto potrebbe essere diverso, e non c’è quasi nulla che io possa cambiare».
(Ma Mazzoni ha un’impressionante consapevolezza teorica. Possiede una compiuta filosofia della storia, anzi una metafilosofia, giacché dialettizza anche quest’idea della “fine della storia”: da sempre si alternano fasi rivoluzionarie, nelle quali gli eventi trasformano tumultuosamente le forme di vita, e altre nelle quali gli eventi non sono che semplici increspature di superficie su una forma di vita che appare immutabile, che diventa Natura, ma solo perché il nostro sguardo è limitato. Si veda il capitolo Alla fine della storia ne I destini generali, Laterza, 2015).
La pura superficie
La pura superficie (Donzelli, 2017) è quest’inscalfibile immanenza, è una struttura esistenziale prima che una categoria morale (la “superficialità”), e produce esistenze che si perpetuano tra aneddoti, «small talk», heideggeriana chiacchiera, «cazzate», «pura distrazione»: «una pellicola dentro la quale regredire – / le parole e i gesti come segni asemici, / superfici o utensili» (Essere con gli altri [III]). Questa condizione “di superficie” getta una distanza incolmabile fra gli esseri umani, che non possono accedere mai a una comunicazione/comunione fraterna, a causa di una insuperabile struttura di mediazioni (le «quattro superfici»: corpo, percezioni, linguaggio, immagini interne):
perché alla fine non comprendiamo mai: troppo grande la differenza, troppo profondo ciò che gli altri suscitano in noi. Però la loro agitazione allude a un’angoscia, compone una grammatica che misteriosamente ci appartiene (Grammatica);
l’opacità degli altri mentre vi vengono incontro / per porre limiti, per definirvi, letteralmente. Siamo a disagio con loro, / usiamo le frasi per nascondere o mediare, le parole, / tutte le parole, sono un appello o un’aggressione, anche queste» (Essere con gli altri [I])
Mazzoni si colloca ancora su quella linea della modernità che da Leopardi arriva a Montale: ciò che ci addita è sempre e di nuovo l’arido vero, la «campana di vetro» (ancora una superficie e una distanza) sotto la quale Montale diceva di aver sempre sentito di vivere, la malinconia e la noia come figure dell’insostenibile lucidità di sguardo su un mondo disabitato dal senso (in cui gli uomini riescono però comunque a sopravvivere decorosamente conducendo vite “localmente” felici). Mazzoni però sospetta che questa condizione ontologica dell’essere umano sia diventata oggi più pervasiva, persi come siamo nelle immagini della «società dello spettacolo», che ci fanno conoscere tutto e ci impediscono di fare esperienza di alcunché, inserendo altre superfici, altre distanze, tra di noi: la sua è quindi anche una diagnosi storica e sociologica, che precisa quella sull’universale male di vivere, che dal funestus veternus oraziano, attraverso la bile nera rinascimentale, arriva fino alla modernità di Leopardi e Montale.
«Uscirà, sarà un passante»
In queste condizioni che resta del soggetto poetico e del suo privilegio del pensare e del dire? Ovviamente Mazzoni lo nega, con un certa ferocia («Tolgo ogni privilegio alla poesia, che per me è solo un genere letterario. Tutti i sovrasensi che la parola poesia si porta dietro per stratificazioni millenarie non hanno più significato oggi. La poesia è solo una parte della letteratura»: intervista a Gabriella Brugnara). Ma la negazione di questo privilegio non ha nulla della baldanza militaresca delle avanguardie. Mazzoni ha attraversato e assorbito quella che lui stesso chiama, più che “poesia di ricerca”, «anti-poesia» (in opposizione alla «poesia lirica», che ancora crederebbe alla possibilità per il poeta di dire “io”): lo dimostra bene l’attacco di una poesia come Le cose fabbricate. L’ha attraversata e assorbita, ma è andato oltre l’antagonismo contestatario dei suoi “no”. La radicale messa in discussione avanguardistica era possibile in un’epoca nella quale letteratura e politica erano compagne e in cui esistevano due idee di mondo in lotta fra loro (è il tema di Angola): non è più, come abbiamo visto, la nostra condizione.
Oggi l’avanguardia è inevitabilmente querula: è vittima dello stesso errore percettivo di chi crede nello statuto dell’io lirico, poiché pretende di possedere ancora il privilegio di una forza di enunciazione che conti più di quella di qualunque altro essere umano: poeta, intellettuale, casalinga di Voghera, insegnante, operaio, hater seriale … (è forse per questo che oggi urliamo tanto sui social: è una reazione disperata alla nostra irrilevanza).
Mi pare che sia questa la ragione della scelta di Mazzoni di cedere la parola a soggetti diversi dall’io: poesie in terza persona, rifacimenti da Wallace Stevens, linguaggio onirico (il sogno e l’inconscio sono anch’essi un linguaggio “alieno”). Questo cedere la parola ad altri ha precedenti nel Sereni e nel Luzi del secondo dopoguerra (Gli strumenti umani e Nel magma), ma in Mazzoni non è più dettato dalla volontà di garantire una maggiore aderenza al mondo attraverso una pluralità di punti di vista che superino il solipsismo del soggetto poetico: è semmai una dismissione e una nichilistica ammissione di irrilevanza di tutte le voci, di tutti i sensi. Parli il poeta, o qualcun altro: non ha molta importanza.
La democrazia compiuta e l’accesso delle masse alla storia, un processo straordinario di emancipazione che Mazzoni non nega, ha però prodotto un effetto che turba i nostri sogni illuministi: gli esseri umani sono tutti uguali, quindi, in qualche modo, tutti intercambiabili. L’aumentata e riconosciuta importanza di ciascuno, produce, ipso facto, la perdita di importanza di ciascuno. La letteratura l’ha percepito precocemente, con l’uomo della folla di Poe e le prose e poesie parigine di Baudelaire, ben prima della paura novecentesca per l’uomo qualunque e per le masse irrazionali. Anzi, in un mondo totalmente immanente come il nostro, veniamo rigettati addirittura alla condizione di cosa: «È osceno essere esposto, essere una cosa». Siamo perché siamo visti, oggetti offerti allo sguardo altrui. Tuttavia gli altri sono un «luogo inabitato», solo l’io è «l’unico / che esista veramente». Ciò che è proprio, Eigentlich, «sempre mio», e che fa di me un soggetto, non è comunicabile; eppure «è addosso a quelli che mi siedono davanti, dentro vestiti fatti come i miei, nei gesti di questo secolo, nel mio linguaggio». C’è perfetta, orizzontale, democratica reversibilità: siamo un soggetto e una cosa, l’altro per gli altri e l’io per noi, ma non siamo mai insieme (si vedano i due testi intitolati Essere con gli altri).
«Uscirà, sarà un passante», scrive Mazzoni in terza persona. Viene immediatamente in mente Sbarbaro: Talor, mentre cammino per le strade / della città tumultuosa solo, / mi dimentico il mio destino d’essere / uomo tra gli altri, e, come smemorato, / anzi tratto fuor di me stesso, guardo / la gente con aperti estranei occhi. La distanza tra Sbarbaro, primo-novecentesco, e Mazzoni, post-novecentesco, è tutta in quel mi dimentico il mio destino d’essere / uomo tra gli altri. Mazzoni prova, per quanto possibile, a non dimenticarselo. Così rinuncia persino al privilegio (leopardiano) che in quella poesia Sbarbaro ancora aveva, quello di essere colui che constata l’inganno pel qual vivono, / il dolore che mise quella piega / sul loro labbro, le speranze sempre / deluse, / e l’inutilità della loro vita / amara e il lor destino ultimo, il buio.
Le presenze contano
Forse basterebbe questa straordinaria lucidità nel superare il Novecento, pur ricapitolandolo e restando ancora dentro i suoi umori, a difendere la poesia di Mazzoni dalla “colpa” di essere atrocemente nichilista. Ma, per concludere, vorrei avanzare un’obiezione a questo ineguagliabile (e fraterno) diagnosta della condizione di noi tutti.
In una delle sue molte auto-obiezioni – in questo caso di marca roussoviana, Leopardi osservò che per quanto la ragione possa distruggere un’illusione dopo l’altra, la natura è più grande della ragione. Trovo un’eco di quest’idea in questo verso: «Allora lo sai che non è la ragione / a farci felici o infelici» (Stevens [II]). (Non è un di più osservare che questi versi si leggono in uno dei sette rifacimenti mazzoniani di Stevens: qui il poeta parla per interposta persona, prende le distanze).
Eppure quello che Leopardi chiamava “natura” è semplicemente ciò che sfugge alla nostra ragione, ciò che la nostra ragione, non è: e non è una negazione, al contrario. È l’inesauribile possibilità del senso, la rinascita sempre iterata del desiderio (e, anche, della lotta). L’assoluto solipsismo di molti io dispersi tra tanti altri potrebbe pur sempre essere sorpreso da un senso, magari relativo, ma smagliante, che non siamo capaci di prevedere. Potrebbe capitare fra molti decenni, ma anche domani.
E siamo pur sempre capaci di dialogare con presenze, voci, segni, sensi dispersi: la poesia di Stevens, per esempio, che ancora parla a Mazzoni; quella di Mazzoni, che parla a noi e non vuole blandirci, nasconderci nulla della nostra condizione. La continuità umana, umanistica, della poesia ha una persistenza sorda che non è così facile cancellare. Finirà, come osservava Montale nel discorso per il premio Nobel, con l’uomo stesso. Anche i nostri significati personali, rasoterra – «regionali», come li chiama Mazzoni – hanno una loro forza di testimonianza e resistenza.
Ed è quanto ci suggerisce Mazzoni stesso, che chiude la propria raccolta con una poesia dal tono singolarmente diverso rispetto a tutte quelle che la precedono:
E mentre guardi le riviste,
le vite dei calciatori in mezzo alle altre larve
nella sala della chemioterapia,
sappiamo entrambi che non vivrai,
sappiamo che non servono parole, perciò
guardiamo la stanza o parliamo di Antognoni
o di questo muro fuori filo, che è fatto male e ti disturba,
hai lavorato nei cantieri, è stata questa la tua vita.
Ma oggi non importa, siamo felici di esserci ancora,
di stare insieme qui, i maschi non piangono, le parole non contano
(Terzo ciclo)
Certamente è vero, come ha osservato Gianluca D’Andrea, che gli ultimi due versi sono una «sorta d’iscrizione sepolcrale, da porta infernale». Questo perché Mazzoni, come ha detto Fortini di Pavese, ci parla «dalla parte dei morti», da quel luogo di cessazione del Senso dal quale parlavano le mummie di Federico Ruysch. Ma la fissità della morte, e della nostra epoca raggelata in un’immanenza labirintica che sembra senza uscita, è pur sempre un punto di vista dal quale parlare alla vita. Scriveva Fortini che «ognuno di noi, se conosce e quando misura l’irrimediabilità della sorte singola e anche di quella visibile del gruppo e dell’età umana cui si è toccati in sorte, si volge dalla parte dei morti, del non più o del non ancora» («Quaderni piacentini» IV, 31, luglio 1967). Non so quanto sia residuale oggi la speranza nel futuro che sta in quel «non ancora», ma sospetto che Mazzoni voglia difenderlo, pur negandolo: si può essere «felici di esserci ancora», perché in quest’ultimo testo dire «le parole non contano» non equivale a ribadire il “no” che ci ha accompagnato fin lì nella lettura; semmai, anzi, a ricordare che fra chi si vuole bene esiste un linguaggio muto, chiaro, inequivoco, che si tiene al di qua dei conflitti, delle separazioni, delle superfici del linguaggio e della storia, e che è pur sempre qualcosa.
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