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diretto da Romano Luperini

len 20160524 0006

Vendetta o pace, ovvero della violenza (sui docenti, ma non solo)

 Cari lettori e lettrici, la redazione di LN si prende una pausa estiva per tutto il mese di agosto. Durante questo mese, ripubblicheremo alcuni articoli già usciti nel corso dell’anno. Ci rivediamo a settembre.

Un film

C’è un bellissimo film, In un mondo migliore, uscito nel 2010, per la regia di Susanne Bier. Il titolo danese, però, suona molto diverso: Hævnen, “vendetta”. La nostra traduzione sceglie di valorizzare l’aspetto consolatorio di un lieto fine che effettivamente c’è, rispetto a un titolo originale che  stende un velo d’ombra sullo scioglimento. Il tema del film, in effetti, è una riflessione sulla vendetta e il perdono, la violenza e il pacifismo, e il dubbio intorno alla priorità ontologica fra bene e male.

Hævnen è ambientato in una Danimarca linda, solo apparentemente serena, e in un’Africa polverosa e ferina: su tutti e due i continenti, una natura bellissima e leopardianamente indifferente. La storia dell’amicizia tra Christian e Elias è intrecciata a quella del padre del secondo, Anton, medico internazionale impegnato in missioni umanitarie. Elias è un adolescente educato e indifeso, vittima delle angherie dei compagni; lo stillicidio di piccole violenze che subisce, mai eclatanti, sfugge alle maglie troppo larghe della rete educativa: gli insegnanti psicologizzano – Elias ha difficoltà di relazione, il capo dei bulli è in fondo solo un ragazzo, Anton e la moglie stanno per separarsi e il figlio ne risente –; la preside si fa bastare una buona educazione di facciata tra gli studenti; Anton, che è un padre amorevole e autorevole, perde però progressivamente il contatto con il figlio. 

A scuola arriva Christian, che nota subito il ruolo di vittima designata di Elias e proprio per questo stringe con lui un forte legame d’amicizia. Anche Christian subisce un’aggressione, ma reagisce in modo ben diverso da Elias. In lui il recente lutto per la perdita della madre si è convertito in una profonda rabbia esistenziale e in una filosofia cinica: «se colpisci duro la prima volta, nessuno oserà più toccarti». Così difenderà Elias e vendicherà se stesso minacciando con un coltello il capo dei bulli, che da quel momento lascerà in pace i due ragazzi.

 In Africa il padre di Elias si trova a fronteggiare l’orrore. Nel suo ospedale da campo vengono portate delle donne incinte a rischio di dissanguamento: nella zona infatti spadroneggia la banda di Big man, che scommette sul sesso dei nascituri e squarcia il ventre delle madri per ottenere l’atroce prova. Quando Big man si presenterà davanti ad Anton per essere curato di una ferita, il padre di Elias lo accoglierà, provocando l’incomprensione rabbiosa dei suoi collaboratori locali e della popolazione: ma è un medico e non spetta a lui giudicare la dignità morale di un corpo bisognoso di cure. 

Questo episodio africano ha un suo doppio morale in Danimarca. Un giorno Anton, alla presenza di Elias e di Christian, divide il proprio secondogenito da un altro bambino durante un banale litigio e cerca di farli ragionare. Il suo intervento è improntato agli stessi valori che l’hanno mosso in Africa: trascendere il conflitto sottraendosi al suo infinito rilancio, rifiutare la logica partigiana della vendetta. Ma il padre dell’altro bambino, un meccanico, lo schiaffeggia, rifiutando lo sforzo di Anton di districare il nodo della violenza. Il padre di Elias non reagisce. Il fatto creerà profondo turbamento in Elias, che, messo in crisi da Christian, si convincerà che il padre sia un debole. Quando il figlio ha il coraggio di dirgli ciò che pensa, Anton capisce che è necessario dimostrargli che la sua non è paura. Accompagnato da Elias e Christian, va alla ricerca del meccanico per ottenere delle scuse: un risarcimento simbolico, il ristabilimento di quell’equilibro o simmetria reciproca in cui consiste la giustizia. Ma l’altro uomo lo schiaffeggia di nuovo, ripetutamente. Anton non indietreggia: l’altro è «un bestione» e lui non scenderà al suo livello di azione e reazione, di colpo e contraccolpo. Il padre di Elias sembra uscire vincitore. Ma il figlio e il suo amico non capiscono la logica del suo conseguente pacifismo: «non credo che lui abbia capito», dice infatti Christian. Ai loro occhi l’ingiustizia e l’asimmetria restano intatti: solo con la vendetta si potrà ristabilire l’equilibrio infranto.

La parte danese del film si concluderà con un lieto fine che rassicura lo spettatore: la vendetta sfuggirà di mano ai due ragazzi, che comprenderanno per drammatica esperienza personale che la violenza non paga. Ma il vero punto cieco della morale del film non sta nella civile Europa: sta nell’altrove, in Africa, come in Cuore di tenebra di Conrad, che è il racconto della proiezione del nostro cuore nero sul cuore nero delle foreste africane in cui è sprofondato Kurtz. Tornato in Africa, infatti, Anton infrange il giuramento di Ippocrate: quando Big man, ancora convalescente, oltraggia intollerabilmente la memoria di una ragazzina appena morta, Anton lo trascina al di fuori dello spazio protetto dell’ospedale – lo spazio della civiltà – e lo abbandona nella polvere africana, dove l’uomo verrà linciato dalle sue stesse vittime. Benché la conclusione della parte africana della storia preceda nella narrazione il lieto fine danese, essa sta lì, insuperata, e rimette tutto in questione: le acque si chiudono, uguali e lisce, su quella vendetta che in Danimarca era stata infine trascesa. O rimossa?

Autorevolezza: il giusto mezzo?

Tutte noi persone di buon senso siamo d’accordo nel sostenere che c’è una risposta civile e non allarmistica ai casi di violenza sui docenti che nei giorni passati hanno tenuto banco. Questa risposta ci viene dal campo della psicologia: tra permissivismo e autoritarismo, la strada è il giusto mezzo dell’autorevolezza. Lo schema è potente e produttivo: lo ritroviamo, ad esempio, nell’affermazione che un sano equilibrio psicologico sta nell’assertività, che è la virtus in medio tra passività e aggressività. Ma proprio perché siamo persone di buon senso, ci accorgiamo anche che si tratta di uno schema assai astratto, perché non ci dice in che cosa consistano concretamente, di volta in volta, l’“autorevolezza” o l’“assertività”: come si comporta un adulto non autoritario e non permissivo, magari davanti a uno studente che lo minaccia con un casco? Il rischio che questo schema, applicato abusivamente, ci depisti, è alto. Ad esempio chi ha sostenuto che oggi gli insegnanti non possono contare più su un rispetto previo riconosciuto al ruolo e devono sapersi conquistare sul campo la propria autorevolezza (qualcuno ha aggiunto “svecchiando la propria didattica”) non ha fatto altro che applicare questo schema, che ci dice: non ci sono più rendite di posizione dovute all’autorità del ruolo e dell’istituzione. Ma l’incolumità fisica e una elementare forma di sicurezza psicologica sono diritti che non sono in alcun modo condizionati: nemmeno dall’autorevolezza umana e professionale guadagnate sul campo.

Dunque perché questo schema è così diffuso? Perché la nostra «società senza padri» (Hans Kelsen, ripreso da Marzano e Urbinati nel loro recente volume La società orizzontale. Liberi senza padri, Feltrinelli, 2017) è fondata su alcuni presupposti: nei rapporti fra gli individui i ruoli devono pesare sempre meno (un padre è amato perché amorevole, non perché padre; un insegnante è stimato perché capace, non perché insegnante…); i conflitti tra individui non sono insanabili, nascono da un’opacità, da un disturbo nella comunicazione, che sono razionalmente appianabili; la punizione implica sempre una esclusione del punito, una rottura della relazione, che un’istituzione educativa non può accettare (è la ragione per la quale nel campo del diritto si ritiene che lo scopo della pena detentiva sia sempre la rieducazione del detenuto e la sua riammissione entro la società). 

Il problema è che il manifestarsi della violenza ci mette sotto gli occhi tutta la controfattualità di questi principi: dovrei essere amato solo perché sono amabile, ma in verità il manto protettivo di un ruolo è ancora importante, e a voler gettare la maschera si corre il rischio di restare nudi e impotenti; dovrebbe essere sempre possibile trovare un’intesa ragionevole, ma come fare con chi infrange questo principio a forza di schiaffi come il meccanico di Hævnen? come uscire dall’insanabile paradosso che non è possibile costringere ad essere razionali, se per di più gli strumenti di sanzione sono diventati sospetti di essere a loro volta violenti?

Potere, violenza, autorità

Hannah Arendt ha scritto che «ogni contrazione del potere è un aperto invito alla violenza» (Sulla violenza). La sua affermazione vale in due sensi: chi detiene il potere usa la violenza quando vede che questo gli sfugge di mano; alla stessa violenza fa ricorso chi vuole scardinare il potere e non ha la forza o la pazienza di sostituirsi ad esso con altri strumenti. Nel nostro caso, violento è lo studente o il genitore che aggredisce l’insegnante, ma “violenta” è anche la sanzione/repressione comminata agli studenti, perché è la disperata autodifesa di un potere non riconosciuto. Quando si agisce con violenza, qualcosa si è già rotto, a monte: qualcosa che esiste fin tanto che non appare o non deve essere esercitato. E di che cosa si tratta? È l’autorità, il potere, l’autorevolezza che è il giusto mezzo tra permissivismo e autoritarismo?

Sappiamo bene che le parole “autorità” e “potere” sono parole molto sospette oggi. È sempre la Arendt che, in polemica con una lunga tradizione politica che tendeva a sovrapporre questi concetti a quello di violenza, riducendoli così a un mero rapporto di dominio-subordinazione, ha invitato a pensarli come categorie distinte. Se la violenza si manifesta laddove il potere è debole, se essa è una pura azione strumentale utile a imporsi con grande dispiego di forze spezzando la continuità dei rapporti umani, il potere è qualcosa di più complesso, essendo la «capacità umana non solo di agire ma di agire di concerto. Il potere non è mai proprietà di un individuo; appartiene a un gruppo e continua a esistere soltanto finché il gruppo rimane unito». Da parte sua l’autorità «è il riconoscimento indiscusso da parte di coloro cui si chiede di obbedire; non ci vuole né coercizione né persuasione. […] Il peggior nemico dell’autorità, quindi, è il disprezzo» (Sulla violenza). 

Il richiamo all’“autorevolezza” da cui siamo partiti è perciò ambiguo, o quanto meno generico, specie se si è convinti che questa risieda quasi esclusivamente nella capacità di conquistarsela del singolo docente, o al massimo di un singolo istituto scolastico “che funziona”. Con ciò, infatti, siamo già entro una concezione del rapporto tra soggetti fondata su una transazione utilitaristica di scambio, in cui il riconoscimento reciproco è vincolato all’ottenimento di un vantaggio individuale. Riconoscere autorevolezza alla scuola e agli insegnanti, al contrario, è un gesto politico, collettivo, che rende possibile «agire di concerto». Dove la comunità si indebolisce, si indeboliscono anche il potere e l’autorità, che, però, come abbiamo detto, sono altra cosa dal dominio e dalla violenza, essendo piuttosto un presupposto non manifesto della vita in comune. 

La fragilità del bene

Ma che l’autorità e il potere siano tali solo fino a quando sono riconosciuti significa anche che essi devono possedere una forza di deterrenza. La stabilità del sistema – la sua autorevolezza e assertività – ha bisogno di sanzioni, proprio per poter fare a meno della violenza. Questa fase, quando è necessario farvi ricorso, deve essere chiara, netta e deve essere presa sul serio. Se essa viene percepita come una corvée dovuta, come un can che abbaia e non morde, anche la successiva fase del recupero dialogico della relazione rischia di perdere ogni forza e di sembrare solo permissivismo e passività. Sia chiaro che questa seconda fase, quella del dialogo con il “bullo”, è connaturata all’istituzione scolastica, che deve evitare di far collassare l’azione educativa sull’esercizio fine a se stesso dell’autorità. Ci muoviamo oscillando su un pendolo che va da un estremo all’altro. 

È un equilibrio delicatissimo, difficilissimo. Sappiamo definirlo in astratto: sapere cosa significhi ogni volta è molto difficile. Nei casi su cui abbiamo discusso in questi giorni, a me pare che la fuga in questioni collaterali dimostri proprio la difficoltà di fronteggiare questo enigma teorico. Stabilire se gli studenti di oggi siano peggio di quelli del buon tempo antico o se non ci sia mai nulla di nuovo sotto il sole, se i tempi precipitino in peggio o se quel che è stato sarà e quel che si è fatto si rifarà, come anche stabilire se Michele Serra sia o no classista, è un modo per girare intorno alla questione, non volerne guardare in faccia la dimensione perturbante di difficoltà insolubile.

È un problema delicatissimo, complicatissimo. Il film di Susanne Bier sta lì a dimostrarcelo. Gli sforzi di Anton per scegliere sempre il logos contro il polemos sono messi costantemente a repentaglio: dalla ben maggiore efficienza contro i bulli del principio di Christian del colpire duro per farsi rispettare (maggior efficienza che può essere testimoniata da chiunque conosca “la strada”: anche da chi scrive), ma soprattutto dallo scontro con il meccanico e con Big man, che ci mettono di fronte all’eterno dilemma se davanti al male, assoluto o relativo che sia, si debba scegliere la strada dell’appeasement o la dichiarazione di guerra. 

Fotografia: G. Biscardi, Palermo 2016, Palazzo di Giustizia.

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