La critica secondo Fortini
Cari lettori e lettrici, la redazione di LN si prende una pausa estiva per tutto il mese di agosto. Durante questo mese, ripubblicheremo alcuni articoli già usciti nel corso dell’anno. Ci rivediamo a settembre.
Questa relazione è stata scritta in occasione del convegno che si è tenuto all’Università di Padova l’11 e il 12 dicembre 2017. Fortini ’17. Per Franco Fortini in occasione della nascita.
In questa introduzione non mi occuperò di Fortini critico ma della critica secondo Fortini. Su Fortini critico sono previsti in questa sezione già cinque interventi, e inoltre su questo argomento non saprei dire molto di diverso da quanto da me scritto negli anni Novanta[1]. Confesso tuttavia che non mi sarebbe dispiaciuto fare autocritica su una doppia lacuna di quel lavoro: l’aver taciuto allora sull’importanza fondamentale di un saggio fortiniano di sessanta anni fa ancor oggi attualissimo, Metrica e libertà, e sul ruolo che Fortini critico ha avuto nel delineare il canone del Novecento poetico italiano. Sulla prima questione mi limiterò a un’unica considerazione: affermare, come fa Fortini, che «L’istituzione metrica è l’inautenticità che sola può fondare l’autentico; è la forma della presenza collettiva»[SI, 334], mettendo così a frutto la lezione di Adorno (la forma è contenuto sedimentato) e di De Martino (la nenia funebre come ritualizzazione e socializzazione del sentimento), significa acquisire allo spazio della socialità e della storicità anche il territorio della metrica che per molti versi sembrava privilegio di un approccio tecnico-formalistico. Sulla seconda questione mi limito a ricordare qui una annotazione del 1954 compresa in Un giorno o l’altro in cui Fortini dichiara, in polemica con la proposta di canone avanzata dall’antologia di Anceschi e Antonelli, che sarebbe giunto il momento di «far occupare da Saba il luogo di Campana, da Montale quello di Ungaretti, da Luzi quello di Quasimodo» [UGA, 115], anticipando di un ventennio la operazione con cui il suo I poeti del Novecento e Poeti italiani del Novecento di Mengaldo stabilizzeranno per un considerevole periodo di tempo (e forse sino a oggi) il canone poetico del secolo.
Ma veniamo al mio argomento di oggi, la critica secondo Fortini. Nella dedica lasciatami nel gennaio 1969 su una copia di Ventiquattro voci per un dizionario di lettere, Fortini mi suggeriva di concentrare l’attenzione soprattutto su due luoghi: le pagine 27-29 della introduzione (dedicate alla figura dell’intellettuale e ai caratteri della scrittura di tipo comunicativo, suasorio o saggistico) e la voce “Critica”. Fra i due passi c’è in effetti una stretta correlazione, come dimostra, fra l’altro, l’arco della elaborazione fortiniana su questo doppio tema fra Verifica dei poteri e la premessa, oltre venti anni dopo, ai Nuovi saggi italiani.
Nella introduzione a Ventiquattro voci la difesa della funzione dell’intellettuale, contro i teorici della sua trasformazione in mero militante della rivoluzione, coincide con la difesa della mediazione e della forma-saggio, che dell’intellettuale era stata la modalità storica di espressione. Il saggio è un «discorso non rigoroso» che non obbedisce a un codice scientifico, ma «opera su un codice di allusioni» [VV, 27-29], corrispondendo a una eco sociale ineliminabile dalla sua genesi e dalla sua natura. Il lavoro sui testi letterari, precisa Fortini nella “voce” del Dizionario, può essere “studio della letteratura” oppure “critica”, e bisogna «distinguere bene» fra l’uno e l’altra [VV, 163]. La critica insomma si esprime nella forma-saggio, lo “studio della letteratura” no. Essa presuppone certamente un certo grado di conoscenza specialistica, ma «non si propone né la conoscenza scientifica della letteratura né “l’avventura di un’anima fra i capolavori”»: il suo scopo consiste «nella implicazione di vari ordini di conoscenze» (anche sapienziali, per esempio, o di ordine politico, morale e ideologico) «in occasione e a proposito della conoscenza di un oggetto letterario» [VV,163]. Il problema è dato dal fatto che oggi l’intellettuale si trova di fatto integrato in una organizzazione della cultura che rende «derisori e limitatissimi i suoi poteri», isolandolo e votandolo « ad una attività che sempre più coincide col dubbio sulla propria funzione» [VV, 162].
Siamo nel 1968 e già i sintomi della crisi della forma saggio e della funzione intellettuale a essa correlata sono evidenti a Fortini, che infatti tre anni dopo, in un intervento fondamentale, Intellettuali, ruolo e funzione, pur continuando a difendere – contro l’ipotesi della “morte dell’intellettuale” fatta propria da Che Guevara e dai gruppi rivoluzionari – la funzione storico-antropologica distinguendola dal ruolo imposto dal meccanismo capitalistico e a esso subordinato, già prende atto, per la prima volta in Italia, dello schiacciamento in atto della funzione sul ruolo e del conseguente tramonto della figura dell’intellettuale destinata a essere sostituita da quella dell’”esperto”. E ciò comporta, va da sé, anche la crisi irreversibile della forma-saggio e della critica. D’altronde già nella Premessa (1965) a Verifica dei poteri Fortini aveva sostenuto la tesi del «critico come il diverso dallo specialista, come colui che discorre sui rapporti reali fra gli uomini, la società e la storia loro, a proposito e in occasione della metafora di quei rapporti, che le opere letterarie sono» [VP, 11]. Ne derivano due conseguenze. Da un lato la critica saggistica è una forma di mediazione fra i saperi e fra gli uomini ed è sempre allusiva e ironica (anzi, è una «forma ironica della prassi») perché, parole di Fortini nel saggio su Lukács giovane, il critico, autorizzato dalla metaforicità della esperienza estetica, «dice una cosa per farne intendere un’altra» [VP,224] (il discorso critico, insomma, è sempre allegorico), Dall’altro il critico-saggista «presuppone una società, un minimo di accordo con un ambiente» e quindi stenta a sopravvivere negli anni del neocapitalismo a causa della nuova organizzazione industriale della cultura, della «disgregazione di ogni particolarità» e del venir meno di una “società civile”.
Si tratta di una impostazione indubbiamente nuova e originale non solo in Italia (dove la critica oscillava allora fra linea crociogramsciana, residui zdanovisti e corsa all’aggiornamento in senso strutturalista e semiologico) ma anche in Europa, e rispetto a Lukács e alla tradizione del marxismo internazionale o anche a Benjamin. Di quest’ultimo Fortini può assumere talora il linguaggio religioso ma mai il fondamento mistico-teologico. Per Lukács poi, che comunque resta decisivo nella formazione di Fortini critico e teorico della letteratura, la mediazione (fra particolare e universale e fra intellettuale e società) è garantita dal Partito, per Fortini invece è inerente alla funzione storico-antropologica che spetta alla figura dell’intellettuale moderno, cosicché l’attività critica risulta sganciata dalla rigidità precettistica implicita in ogni teoria dell’”organicità”. Per Fortini il mandato, insomma, non viene dal Partito ma da una implicazione sociale.
Questa impostazione è già pienamente articolata da Fortini nel corso degli anni Sessanta. Di qui, nel decennio successivo, una tenace lotta di resistenza, un impegno costante su due fronti: contro lo strutturalismo e la sua proposta di una “scienza della letteratura”, che ai suoi occhi riducevano il critico a un esperto o a uno specialista, e contro la nascente neormeneutica (heideggeriana e nietzscheana) che riprendeva l’approccio formalistico e la tendenza alla intertestualità dello strutturalismo e soprattutto della semiologia francese ma volgendola in senso antiscientifico, ontologico e/o nichilistico, In entrambi i casi infatti Fortini vedeva negata la funzione e la socialità stessa del lavoro intellettuale.
Gli anni Ottanta sono invece, come recita il sottotitolo di un libro postumo di Fortini Disobbedienze, «gli anni della sconfitta». Sta qui la ragione della capitale differenza fra Saggi italiani del 1974 e Nuovi saggi italiani del 1987, militante, polemico, appassionatamente dialogante il primo, più astrattamente teorico e rivolto a un pubblico più specialistico il secondo, in cui le procedure analitiche di tipo tecnico-professionale sono più frequenti (quasi per una sfida agli studi accademici condotta sul loro stesso terreno) e il ricorso alla interruzione, la sprezzatura, le allusioni, le pause e le riprese sembrano altrettante figure della interlocuzione delusa, del vuoto sociale e dell’attesa: che è anche attesa di un destinatario nel frattempo venuto a mancare. «Non avrei mai creduto» – si legge nella Introduzione del 1987 – «che il senso delle pagine di critica e di principi letterari che venivo scrivendo avrebbero dovuto rinunciare a destinatari e consensi prossimi e attenderne di differiti» [NSI, 9]. E poiché, come si legge in Due saggisti della inautenticità, il saggista deve presupporre di poter toccare «i gangli morali dei suoi lettori» e «ha bisogno di una società che non si neghi come tale, che non si ritenga fatta di atomi incomunicabili» [SI, 295] e insomma necessita di un qualche mandato, e tutte queste condizioni sono venute a mancare, Fortini sembra suo malgrado costretto dal cambiamento di orizzonte storico ad abbandonare, per dirlo con le sue categorie, il campo della critica per quello dello “studio della letteratura”. «Oggi» – scrive nella Introduzione del 1987 – «suppongo di essere davvero mutato. Non perché abbia deposte alcune persuasioni, ostinazioni o certezze, ma perché mutato è il sistema entro cui ai giorni nostri qualunque discorso di critica letteraria esplicita il proprio ruolo sociale» [NSI, 6]. L’analisi della nuova situazione è al solito lucidissima. Una parte della critica, osserva Fortini, ha virato verso l’intrattenimento giornalistico, «si è espansa e diluita sui media, confondendosi alla pubblicità e alla chiacchiera», mentre un’altra si è chiusa nell’accademia, nello specialismo delle «forme definite universitarie, con le loro terrorizzanti posture da combattimento poco dissimili da quelle delle mantidi», e «questo libro» – conclude l’autore – «non fa eccezione. Partecipa dei mutamenti intervenuti nell’ambito cui si destina» [NSI,8], cioè quello delle istituzioni educative. Fa parte di questi cambiamenti anche la trasformazione della letteratura che sembra perdere la propria identità, assumendo il volto, scrive Fortini alla fine della Introduzione citando Saba, della «menzogna inutile, che annoia» [NSI, 10]. Alla scomparsa della critica corrisponde quella della letteratura divenuta futile e socialmente inerte.
E tuttavia, in questa stessa introduzione, Fortini non rinuncia alla speranza. «Qualcosa di enorme», scrive, «si va svolgendo sotto i nostri occhi, e diviene leggibile, che ha cominciato a recuperare, sebbene nessuno dia segno di sospettarlo, alcuni dei massimi moventi delle idee di cosciente rivolgimento sociale» [NSI, 10]. Ma cosa sia il «qualcosa di enorme» resta, in questa fase, imprecisato, si direbbe un auspicio, più che una previsione.
Come si vede, il sistema teorico di Fortini resta organico, estremamente coerente nelle sue articolazioni, sempre consapevole di sé stesso e dei tempi con cui deve misurarsi. Come è collassata la figura storica dell’intellettuale quale si era andata configurando dall’illuminismo a oggi. e con particolare evidenza nei decenni che vanno dallo Zola dell’affaire Dreyfus allo Sciascia di un altro affaire, l’affaire Moro (o al Pasolini della “rivoluzione antropologica e della denuncia del Palazzo o allo stesso Fortini degli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta), così appare esaurita la forma-saggio in cui quella figura si era espressa, ormai sostituita, come vediamo sempre più chiaramente oggi, dalla banalità giornalistica e dallo studio accademico. Un terreno intermedio, o di mediazione, sembra non esistere più. Fortini è stato il primo ad accorgersene e a denunciarlo.
Epperò questa non è ancora l’ultima parola di Fortini. Gli ultimi suoi anni sono percorsi da una tensione estrema: quella di una attesa o di una vigilanza. Quel «qualcosa di enorme» comincia forse a delinearsi. In una recensione del 1990 (ma, questa volta, è un vero e proprio piccolo saggio nel senso caro a Fortini) scritta sul «Manifesto» a proposito del mio L’allegoria del moderno, e recentemente richiamata da Lenzini nella sua introduzione al Meridiano[2], si legge: «Se posso dire queste cose in fretta e quasi per intervallo di insania: le figure sociali che hanno sostituito, ai giorni nostri, le vecchie figure degli intellettuali organici o marginali debbono reinventare una loro funzione “magistrale”. (…). Il mandato sociale, trent’anni fa dal nuovo capitalismo revocato alla cultura umanistica (e ne scrissi fin troppo), in tutt’altra forma e con altri strumenti torna certo a riproporsi» [DII, 102].
Ma – si potrebbe obiettare – questo «reinventarsi» un mandato sociale e una «funzione» non sarà un atteggiamento alla barone di Münchausen, un volersi tirare fuori dalla palude per i capelli?
Una precisazione si trova, nello stesso anno, in Extrema ratio, dove si legge: «il mandato sociale degli intellettuali si è mutato attraverso immense sciagure nel cominciamento di un altro mandato sociale che gli intellettuali-massa del presente possono (ossia debbono) conferire a se medesimi nei confronti di quel “sud” del mondo (e di ogni società) senza del quale non si esce dalla oscillazione fra ribellismo e conformismo» [ER, 36].
Il sud del mondo. Fortini non immagina dunque un atteggiamento volontaristico, ma una precisa condizione materiale che potrebbe fornire ancora spazio a un nuovo mandato sociale. Ebbene, oggi qualche tratto di questa nuova situazione oggettiva comincia forse a rendersi visibile. Allora, all’inizio degli anni Novanta, non ai aggirava ancora per l’Europa il nuovo spettro che spaventa oggi le classi dominanti: non il proletariato industriale dell’Ottocento e del primo Novecento, ma l’immigrazione dal sud e dall’est (a cui si aggiunge con movimento opposto ma potenzialmente convergente quella della emigrazione dei nostri giovani, perlopiù intellettuali anch’essi, precari e disoccupati).
Se mi è lecito concludere questo discorso con una nota soggettiva, direi che tutto il nostro secolo sarà segnato da questo «enorme» fenomeno (uso non casualmente questo aggettivo fortiniano) e che dall’incontro sulle frontiere e fra le frontiere, e fra culture e bisogni materiali diversi, potranno forse nascere nuove figure intellettuali, un nuovo mandato e un nuovo orizzonte di rivolgimento sociale.
REPERTORIO BIBLIOGRAFICO DELLE OPERE DI FORTINI CITATE
DII = Disobbedienze. II: Gli anni della sconfitta 1885-1994, Il Manifesto, Roma 1996
Extrema ratio. Note per un buon uso delle rovine, Einaudi, Torino 1990
NSI = Nuovi saggi italiani, Garzanti, Milano 1987
SI= Saggi italiani, Garzanti, Milano 1974
UGA= Un giorno o l’altro, a cura di M. Marrucci e V. Tinacci, Quodlibet, Macerata 2006
VP = Verifica dei poteri, Il Saggiatore, Milano 1965
VV = Ventiquattro voci per un dizionario di lettere, Il Saggiatore, Milano 1968
[1] R.Luperini, Su Fortini saggista e teorico della letteratura, in Il futuro di Fortini, Manni, S. Cesario di Lecce, 2007.
[2] L.Lenzini, Le parole della promessa, in F. Fortini, Saggi ed epigrammi, a cura di L. Lenzini, Mondadori, Milano , p. LXIX.
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“Il sud del mondo. Fortini non immagina dunque un atteggiamento volontaristico, ma una precisa condizione materiale che potrebbe fornire ancora spazio a un nuovo mandato sociale. Ebbene, oggi qualche tratto di questa nuova situazione oggettiva comincia forse a rendersi visibile. Allora, all’inizio degli anni Novanta, non si aggirava ancora per l’Europa il nuovo spettro che spaventa oggi le classi dominanti: non il proletariato industriale dell’Ottocento e del primo Novecento, ma l’immigrazione dal sud e dall’est (a cui si aggiunge con movimento opposto ma potenzialmente convergente quella della emigrazione dei nostri giovani, perlopiù intellettuali anch’essi, precari e disoccupati).” (Luperini)
In singolare coincidenza tra i miei appunti poetici poi confluiti in questi versi:
FILTRANDO E RIFILTRANDO IL MANIFESTO DI MARX
(Frammento su un frammento di B. Brecht)
Non s’aggira più lo spettro
[i]pauroso ai potenti ma gradito ai fanciulli dei nostri sobborghi.[/i]
Ci spiasse ancora
non troverebbe cucine nude ma abbondanti i piatti.
[i]Però ai recinti di cave e arsenali [/i]
lavoratori di varia pelle, esausti sempre, scorgerebbe
e prigioni ricolme e squallori di periferie.
Parla in altre lingue? Tace da tempo nella nostra.
[i]Una lotta a coltello la lotta per il potere [/i]
tra civil terroristi e altrettanto repellenti fondamental terroristi
in un unico impero
sopportiamo.
I despoti sono giganteschi e occulti
e celesti chirurghi
lavorano la morte in mattatoi fuori mano
a serrande abbassate.
Fiaba è, balbettio di nonni
[i]la lotta dei dominati contro i padroni[/i]?
(2002/2005)