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L’italiano senza letteratura. Commento alla tracce all’Esame di stato 2018/3

 Abbiamo letto numerose opinioni a proposito delle tracce di italiano per l’esame di maturità. Ne abbiamo letto su blog e facebook, su diversi quotidiani, abbiamo seguito approfondimenti su radio e televisioni, e, mi sembra, che i plausi abbiano superato le critiche. In molti si sono lasciati andare a interpretazioni politiche: è stato scritto che questa maturità così piena di antifascismo e tolleranza sarebbe una risposta indiretta agli orrori politici più recenti.

Ammetto di condividere con Claudio Giunta (che ne ha scritto su «Internazionale») la tentazione di immaginare quale traccia avrei scelto: è probabile che avrei subito scartato costituzione e tema storico (troppo ampi i margini di genericità), mentre avrei letto e riletto solitudine e clonazione (lo so, ho sempre avuto un debole per le tracce di attualità apocalittico-qualunquista) e, alla fine, avrei probabilmente scelto la solitudine, con la sua carrellata di micro-citazioni. Una traccia fragile, perché a sua volta oggetto di letture sociologico-facilone per cui i giovani, soli nella propria cameretta, avrebbero deciso di lanciare un grido d’allarme (Severgnini sul «Corriere» è uno dei più accesi sostenitori di questa tesi patetico-intimista). Ecco, mi sembra che sia le letture politiche che quelle psicologiche dicano davvero poco sul significato di queste tracce e sulla natura dei “nostri ragazzi”: gli studenti sono dotati di molto più pragmatismo rispetto a quello che i media vorrebbero concedergli.

 

Inutile riassumere e commentare di nuovo tutte le tracce: vorrei, piuttosto, fare una breve e parziale riflessione su una di queste, a qualche giorno dalla fine degli scritti. E la riflessione riguarda la prima traccia, quella di comprensione, analisi e interpretazione del testo dedicata a Il giardino dei Finzi-Contini di Bassani. È stata, assieme alla traccia sulla costituzione, quella più soggetta a letture politiche. Ed è piaciuta a tutti: a Liliana Segre, a Paolo di Paolo, perfino a Giunta, che non ha criticato eccessivamente la scelta. A me non è piaciuta. Anzi: una traccia formulata in quel modo mi preoccupa terribilmente e mi sembra un sintomo del definitivo degrado della letteratura nella nostra società. Qual è il problema? Bassani? Il giardino dei Finzi-Contini? Volendo anche quelli. Ma non intendo lanciarmi in una disputa sul canone o sul genere: l’Italia non è paese da romanzo e, escludendo Gadda e Volponi, non trovo effettivamente molti romanzi degli anni Sessanta – ma forse di tutto il Novecento – superiori a quello di Bassani. Né voglio impelagarmi in una riflessione sulla poesia, la grande sconfitta di questa maturità, visto che ce n’era pochissima, molto discutibile (Merini), e trattata molto male (sempre Merini, addirittura tagliata nel testo argomentativo). Intendo, invece, riflettere più attentamente sulla natura delle domande che la commissione ha elaborato per analizzare e interpretare questo testo. La prima, ingiudicabile, ha il titolo di “comprensione del testo” e chiede di riassumere sinteticamente il contenuto del brano. La seconda, “analisi del testo”, è suddivisa in sei micro-quesiti tipo Invalsi (almeno le prime cinque): domande semplici, senza alcun riferimento allo stile, alla retorica, a null’altro che a una piatta comprensione del significato. Il fastidio diventa preoccupazione quando leggo la terza parte della prova, che fa paura fin dal titolo: “interpretazione complessiva e approfondimenti”. La cito, per guardarla di nuovo da vicino prima di procedere:

Proponi una interpretazione complessiva del brano di Bassani, approfondendo il tema dell’antisemitismo anche con riferimenti a opere di altri autori che conosci.

In alternativa, proponi una riflessione sul tema più generale della discriminazione e dell’emarginazione; anche in questo caso, puoi arricchire le tue riflessioni con riferimenti a opere letterarie che conosci.

Sorvolo sui problemi a livello formale: scelte lessicali soprattutto, in particolare quell’ “arricchire”, che sottintende un uso ornativo delle citazioni. Mi concentro sulla doppia traccia: perché due tracce? Soprattutto, perché una traccia più specifica sull’antisemitismo è intercambiabile con una domanda che ha un legame vago con il testo di Bassani? Mentre il primo interrogativo è sul testo, come mai il secondo sposta la questione su discriminazione e emarginazione? Ti interrogo sulla Divina commedia, l’esilio di Dante: vuoi rispondermi, o vuoi parlarmi delle esperienze di allontanamento da casa che ti vengono in mente? Sia la prima parte della domanda che (ancor di più) la seconda, stanno a testimoniare che oggi non si ha idea di che cosa voglia dire interpretare un testo. Un testo letterario – tratto da Bassani, ma anche da Manzoni, Marino, Petrarca, e così via – sembra avere la speranza di sopravvivere solo quando è trattato così, cioè come un documento di qualcosa, qualunque cosa pur di non essere più, mai più, semplicemente, letteratura. Questa non è attualizzazione, bensì si tratta di una forma (tarda, sterile e molto fuorviante) di cultural studies. È il sintomo di una società che non è più in grado di capire e storicizzare il suo patrimonio letterario e lo tratta come un servizio buono da tirare fuori in ogni circostanza. La complessità del testo di Bassani è passata completamente inosservata sia alla maggioranza dei commentatori mediatici (scrittori e politici in stragrande maggioranza), sia, evidentemente, alla commissione che ha prodotto le domande. Perché, come si vede chiaramente, il passaggio tratto dal romanzo non parla del “tema più generale della discriminazione”, ma si pone in un solco problematico che ha a che fare con l’aspetto multiforme del male, e soprattutto di quel preciso male storico che è stato il fascismo. Perché quel personaggio che non può più sedere in biblioteca ribadisce la propria appartenenza al fascismo, non ergendosi a simbolo di tutti i discriminati, ma tentando, umanamente, di salvarsi mettendosi dalla parte dei più forti. Non capiamo quella complessità paradossale che è la letteratura, se la trattiamo come un canovaccio politico da sventolare con semplicistico manicheismo. Non capiamo Bassani, non capiamo la vergogna e il suicidio di Levi, non capiamo perché in un certo momento in Italia e in Germania (quasi) tutti erano fascisti. E se non capiamo che la letteratura è un’arte in grado di dar voce agli aspetti più scomodi e scorretti del nostro io, individuale e collettivo, non capiremo Salvini, Toninelli, i porti chiusi, i respingimenti e l’entusiasmo trasversale che sta cogliendo quest’Italia orgogliosa della prova di forza del suo “governo del cambiamento”. Ci sentiremo a-problematicamente dalla parte del giusto, senza imparare a conoscere quanto di sbagliato alberga in noi. Quindi no, non mi è piaciuto il modo in cui la letteratura è stata trattata nelle ultime prove dell’esame di maturità, e il silenzio compatto che circonda questo fenomeno mi piace ancora meno.

Fotografia: G. Biscardi, Palermo 2017, assenze.

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