Non solo riassunti: competenze linguistiche integrate nella nuova prova scritta di italiano. Intervista a Massimo Palermo
A cura di Katia Trombetta
Il professor Massimo Palermo, ordinario di Linguistica italiana all’Università per Stranieri di Siena, ha lavorato alla stesura del Documento di orientamento per la redazione della prova scritta di italiano, nella commissione appositamente istituita dal Miur e coordinata dal professor Luca Serianni. Abbiamo sentito il suo parere sui contenuti più dibattuti di questo Documento e su alcuni aspetti dell’iter che ha portato alla sua stesura. Precedenti interventi su questo tema erano usciti a firma di Elvira Zuin, Linda Cavadini, Katia Trombetta.
1) Professor Palermo, partiamo da alcuni rilievi che hanno accompagnato la pubblicazione del Documento. Si è detto, ad esempio, che non ha affrontato in modo adeguato e globale alcuni nodi cruciali relativi alla didattica dell’italiano, ma quali erano i limiti formali entro i quali è stato concepito questo testo?
La commissione di cui ho fatto parte ha ricevuto dal Ministero un mandato ben preciso, che non prevedeva interventi sulla tipologia delle prove. Esistevano già dei testi legislativi che descrivevano e definivano in certa misura come le prove d’esame sarebbero cambiate, per cui il nostro incarico è stato finalizzato esclusivamente a illustrare in modo operativo alle commissioni competenti una possibile strada da percorrere per la formulazione delle prove stesse, nella forma meno impegnativa del Documento di orientamento per la secondaria di primo grado, e nella forma di vere e proprie Linee Guida, più strutturate, per la secondaria di secondo grado.
2) Il Documento fornisce una carrellata di esempi di prove possibili, con un ricco corredo di spiegazioni. Da dove deriva questa esigenza di didascalicità?
Probabilmente è vero che si può rintracciare nel testo un eccesso di didascalicità, ma il Ministero ci aveva chiesto di illustrare gli aspetti più innovativi della nostra proposta nel modo più dettagliato possibile. Dal nostro punto di vista abbiamo cercato di tenere insieme due esigenze: da un lato quella di non stravolgere in modo radicale le abitudini e le prassi didattiche consolidate, dall’altro quella di inserire appunto alcuni elementi di novità. Mi riferisco in particolare alla possibilità che abbiamo previsto di strutturare la prova in più parti, valutando la doppia competenza, ricettiva e produttiva. Le tipologie testuali proposte sono rimaste quelle prevalenti, ma abbiamo chiesto di considerare anche l’eventualità di lavorare su entrambe le parti della comunicazione, prima comprendere e poi dire la propria in forma scritta. Si tratta di una prassi che in alcune scuole è già abbastanza consolidata, ma sapevamo che per altre si sarebbe trattato di adottare un punto di vista nuovo, per cui anche per questo ci è sembrato doveroso essere quanto più precisi possibile, a costo di risultare un po’ pedanti. In generale resta il rammarico per il fatto che questo testo sia arrivato forse con un certo ritardo sulle scrivanie dei docenti, senza dar loro sufficiente modo per approfondirne i contenuti, ma i tempi istituzionali concessi alla commissione non sono stati ovviamente stabiliti da noi. Mi auguro che per le Linee Guida del secondo ciclo ci sia più tempo affinché i docenti possano metabolizzarle e farle proprie.
3) Passiamo al merito del testo. Come accennava, per la prima volta, si suggerisce la possibilità di considerare la competenza linguistica in modo integrato, proponendo delle prove che prevedono una prima fase di comprensione e una seconda di produzione e riformulazione o riscrittura. Quale modello linguistico c’è dietro questo suggerimento?
È acquisizione ormai unanimemente condivisa che una buona produzione, sia orale sia scritta, non si possa realizzare prescindendo dalla fase ricettiva. Inoltre, la comunicazione digitale in cui tutti siamo immersi ha reso ancora più interdipendenti le due fasi, soprattutto ha messo in evidenza quanto sia necessario nei processi comunicativi assicurarsi che il momento della ricezione sia stato correttamente evaso. Alcuni cortocircuiti che si realizzano nella comunicazione digitale avvengono proprio perché si tende a scrivere d’impulso, senza assicurarsi di aver capito veramente quello che si è letto e a cui si risponde. Considerando la pervasività della comunicazione digitale nella vita delle nuove generazioni, ci è sembrato giusto mettere l’accento proprio sul concetto di competenza integrata, nell’ottica dell’interazione delle diverse abilità. Del resto questo aspetto è presente nei testi normativi della scuola media dal lontano 1979, per cui ci sembrava il momento che queste indicazioni iniziassero veramente ad essere recepite, senza stravolgimenti o radicalismi — ripeto — ma con l’auspicio certamente che alcune nostre piccole forzature possano finalmente portare a una riformulazione dei libri di testo e del modo stesso di fare lezione.
All’interno di questa cornice, in ogni caso, vale la pena ricordare che resta ferma la piena autonomia delle commissioni d’esame, le quali possono decidere liberamente se inserire le prove miste delle tipologie C e D o prevedere nelle terne solamente le tipologie A e B, anche per ovviare alle discrasie che si potrebbero porre in sede di valutazione. Il suggerimento delle prove miste, infatti, vuole essere in primo luogo un invito a riflettere sul concetto di competenza linguistica in modo più ampio.
4) Nella sua riflessione si è soffermato sull’importanza della fase di comprensione dei testi nel processo comunicativo. Di fatto il Documento propone una modalità di verifica della comprensione che non si sovrappone esattamente a quella delle prove standardizzate. Da dove nasce questa scelta? È una critica indiretta alle Prove Invalsi?
In realtà nelle prove miste che abbiamo proposto non abbiamo inteso fare né la bella né la brutta copia dell’Invalsi. Semplicemente noi avevamo la possibilità di muoverci al di fuori dei vincoli delle prove standardizzate e abbiamo deciso di verificare, nei tanti modi in cui questo può avvenire, la capacità di comprendere un testo, senza necessariamente ricorrere alla scelta multipla. Non vedo quindi una differenza sul piano dell’affidabilità e validità delle prove, ma semplicemente una differenza nella tipologia delle prove, che hanno entrambe una loro coerenza.
Quanto allo specifico delle Invalsi, è chiaro che esse presentano tutti i vincoli e i limiti dei test standardizzati, ma sulla loro progettazione non credo ci siano da muovere grosse obiezioni. Penso invece che nel corso degli anni si sia fatta molta confusione e che si siano sovrapposti due piani di analisi, quello legato alle caratteristiche delle prove in sé e quello relativo invece al loro uso. Se c’è un problema che pongono le prove Invalsi, questo sta proprio nell’uso che se ne è fatto nelle scuole, magari per indicazioni di carattere politico. Ecco, io ritengo che su questo aspetto, sulla lettura dei dati e su quali indicazioni si possano ricavare dai risultati, occorrerebbe maggiore attenzione da parte di tutti, per evitare equivoci e semplificazioni.
5) A proposito di equivoci, nei primissimi giorni dopo la pubblicazione del Documento, si è molto discusso della presenza del riassunto tra le prove, quasi fosse l’unico strumento di valutazione proposto. Come se lo spiega e qual è invece il ruolo effettivo che il riassunto riveste nel quadro generale del Documento?
Credo che la circostanza sia uno dei possibili effetti della semplificazione mediatica. Ricordo che ancora prima dell’uscita del Documento, il professor Serianni — che è stato il coordinatore della nostra commissione — era stato soprannominato “Mister Riassunto” e sembrava appunto che quella di sintetizzare un testo fosse l’unica competenza finale che intendessimo prendere in considerazione. In realtà, da una lettura integrale del Documento, si comprendere che la nostra priorità era un’altra, vale a dire quella di sottolineare l’importanza di tutte le attività di manipolazione di un testo: parafrasare, riformulare, analizzare, commentare e ovviamente anche riassumere. La riscrittura per riduzione, quindi, è solo una delle possibili attività di manipolazione che abbiamo preso in considerazione.
6) Professor Palermo, lei ha sottolineato in un passaggio che il concetto di abilità integrate è presente nei testi normativi da molti anni, ma la pubblicazione di questo Documento dimostra che evidentemente è necessario rafforzare la formazione linguistica dei docenti di Lettere, sia in ingresso sia in servizio. Quali sono le sue idee a proposito?
La formazione disciplinare deve iniziare durante il percorso universitario e post-laurea dei docenti, attraverso l’obbligatorietà di una serie di corsi nei settori disciplinari connessi alla linguistica italiana. In servizio è necessario un aggiornamento non tanto sui contenuti, quanto sui metodi adottabili nella concreta prassi didattica. In questo senso occorre operare una chiara distinzione tra la didattica disciplinare e la pedagogia generale, della cui utilità o meno spesso si discute anche a vuoto. Se si riflette sul piano della didattica disciplinare, ad esempio della lingua italiana, chiaro è che non si può insegnare lingua se non si conoscono le strutture della lingua e se si ignorano i principali modelli che descrivono la lingua stessa; sapendo questo si può successivamente valutare quali sono più o meno adatti alla prassi didattica, ai diversi ordini e così via. Altra cosa è la pedagogia generale, attraverso la quale si ha spesso la presunzione di poter insegnare qualsiasi cosa, prescindendo dallo specifico dei domini di ogni singola disciplina, e mi riferisco segnatamente a un recente articolo di Settis che andava proprio in questa direzione. Credo quindi che nella formazione dei docenti vada assolutamente accordato maggior peso alla didattica delle discipline, ferma restando l’utilità che indiscutibilmente può avere la pedagogia generale.
7) Negli ultimi anni, però, la tendenza è stata opposta: si è registrato un proliferare di corsi di formazione legati alla didattica per competenze, mentre sempre più raramente vengono proposti corsi sulle discipline, forse anche per un malinteso legato proprio all’interpretazione del concetto di competenza. È una circostanza che anche lei registra?
Certamente bisogna uscire da una visione della didattica che ripropone stancamente gli stessi metodi ed è assolutamente necessario rinnovare, tenendo conto di alcuni modelli teorici di recente elaborazione. Ma come accennavo poco fa in merito alla formazione dei docenti, questo rinnovamento non può e non deve prescindere dal “cosa” si insegna. Le competenze rischiano di essere pura astrazione e di non avere valore se non si innestano sulle conoscenze: non è possibile “saper fare” senza “sapere”.
8) Questo sul piano dell’estensione orizzontale della competenza… e sul piano verticale, rispetto allo sviluppo delle competenze in L1, non crede che sia necessaria anche una rivisitazione del curricolo di lingua?
Se ne sente l’esigenza. La nostra commissione non aveva questo mandato, ma certamente occorre rivedere il curricolo verticale dei vari ordini di scuola. Uno dei principali problemi che ci si trova a fronteggiare da questo punto di vista è la ripetizione sistematica di un indice di argomenti che viene riproposto in modo sostanzialmente analogo dalla scuola primaria fino alla secondaria di secondo grado, rendendo peraltro poco piacevole lo studio della grammatica a scuola. Un curricolo verticale ben pensato dovrebbe prevedere contenuti diversi a diversi livelli. Non intendo dire con questo che le attuali Indicazioni per i singoli cicli non siano ben fatte. Lo sono, semmai — come dicevamo — non sono state adeguatamente recepite nella realtà scolastica. Quello che manca è forse una visione d’insieme, il senso di una progressione da un ciclo all’altro. Noi ci siamo limitati a prendere atto delle Indicazioni e delle competenze in uscita della classe terza, su cui appunto ci era stato chiesto di intervenire.
Fotografia: Fogli 2014.
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