Il monologo di Favino e la guerra simulata
Si è parlato molto, di recente, del monologo di Pierfrancesco Favino al Festival di Sanremo. Se ne è parlato tanto che per giorni è stato impossibile prescinderne. Se anche non avessi la televisione, se anche non avessi seguito Sanremo, certi contenuti ti arrivano addosso con la forza ineluttabile del destino. Come frammenti di una detonazione che ha avuto luogo chissà dove, te li ritrovi sotto forma di pulviscolo tra i pensieri, nella girandola social delle condivisioni e ricondivisioni, che esaltano alcuni aspetti e ne occultano altri, trasformando situazioni puntiformi e parziali in categorie esistenziali, visioni del mondo, questioni di vita o di morte. Quando ci va bene. Più spesso, e molto più banalmente, in tifo becero. Durante le campagne elettorali, nel vestito della propaganda. Così, come un frammento piovuto da un cielo che non ti è amico, ti è arrivato addosso anche il monologo di Favino.
È domenica mattina, sei lì che scorri la home di Facebook. Tra un post e l’altro, tra un like e un cuoricino, conti decine di condivisioni, che diventano sempre più numerose. Nel corso della giornata capisci che è scoppiata un’altra di queste guerre social, che per te diventano più che altro una guerra alla tua mente che si rifiuta di semplificare, di banalizzare, di scegliersi una parte della barricata, anche su Favino. Tra l’altro ti ricordi qualcosa su Favino, ti ricordi il suo nome in una lista di tanti altri nomi, e non te lo vuoi ricordare. Sei riluttante, non ti andrebbe di dedicargli del tempo. Alla fine però non ce la fai, le sollecitazioni sono troppe. Così apri il video.
Ci arrivi avulsa dal contesto, attraverso una dis-connessione, perché Sanremo non l’hai visto e la televisione non ce l’hai. Guardi, ascolti, e trovi che l’attore è mostruosamente bravo. L’interpretazione potente. Ti colpisce in particolare il lavoro che ha fatto sulla lingua, una lingua italiana malferma. Non è un lavoro da linguisti (per fortuna), nel senso che dal monologo non emerge una vera varietà interlinguistica, cioè una varietà di italiano realisticamente riferibile a un non madrelingua. La deviazione dalla norma si limita a pochi tratti fonetici (“se” per “si”, “de” per “di” e così via con altri monosillabi), quasi nessun tratto morfologico, a parte il troncamento degli infiniti e di qualche altra voce verbale (“so’ stato a senti'”), la soppressione di qualche articolo (“lavoro sta là…”). Pochi inserti lessicali di patina romanesca. Più vistosa la connotazione sul piano della testualità, con un’organizzazione del discorso marcata sull’asse diamesico dell’oralità. In sostanza, comunque, tutti tratti comuni alle varietà meno sorvegliate dell’italiano, a parte l’impiego della sibilante palatale sonora (la “g” di “ragione” così come è pronunciata dai toscani), tratto non presente nel repertorio fonematico dell’italiano e che potrebbe vagamente alludere a un’origine magrebina del personaggio, magari per una supposta pressione del francese. Eppure Favino riesce a trasmettere ugualmente il senso di estraneità del personaggio, mimando un uso della lingua che si connota soprattutto sul piano soprasegmentale e della pragmatica linguistica come “straniero”. L’enfasi, il tono della voce, l’andamento prosodico, le esitazioni, l’uomo calato fino in fondo nel suo contesto emozionale e situazionale. Il personaggio è reso, creato. Credibile.
Mezza Italia si commuove. L’altra metà ci sputa sopra. Ed è così per giorni. Eppure a te queste due fazioni non sono mai sembrate e non sembrano così diverse. Davvero così contrapposte. Quello che ti preoccupa non è tanto la metà d’Italia che fa commenti alla Borghezio, nel senso che questa roba la riconosci da tempo. Ti ci sei abituata, sai dell’esistenza — per niente folcloristica — di un’Italia genuinamente razzista, o portata a esserlo, che però è lo stesso. Ti preoccupa di più l’altra parte, l’acclamazione cieca, l’ovazione a prescindere. Senti che è un’insidia per molti. Di nuovo buoni contro cattivi, e di nuovo la tentazione irresistibile di essere santi subito, a tutti i costi, a costo di non ragionare. Se infatti la «macchina attoriale» di Favino non è da mettere in discussione, pensi che prima di acclamare in modo così entusiasta e incondizionato vada ricostruito un contesto, vadano date delle coordinate, per poter decidere se davvero valga la pena alzare questa lode, e perché, e in nome di che cosa. Tu il nome di Pierfrancesco Favino infatti non te lo dimentichi, nella lista degli artisti italiani che, non avendo forse mai preso posizione pubblica su niente, hanno deciso però di apporre la loro firma in calce al documento a sostegno del sì al Referendum Costituzionale di Renzi. Te lo ricordi bene. Te li ricordi tutti. Che pensare allora di questo monologo? È libera la sua collocazione all’interno del contenitore Sanremo? Non sarà invece che quel monologo, portato dall’Ambra Jovinelli al palco di Sanremo, serve a far cadere tutti, per l’ennesima volta, anche chi è in buona fede, nella trappola di una finta contrapposizione, attraverso un meccanismo mediatico ormai così scoperto e infinitamente reiterato da essere a tratti perfino grottesco? Non servirà a lucrarci sopra, dall’una e dall’altra parte, in vista delle elezioni? E che pensare allora di tutte le volte che vorresti esaltarti al canto di una sirena, compiacerti della tua bella posizione, del tuo essere nel giusto, senza rischiare, però, niente di più che lo sputo virtuale di un fascista, o di un ignorante qualsiasi? È umano il tuo desiderio, perché in un’epoca di vuoti riempiti di niente, di odio insincero e di buonismo salottiero, vorresti disperatamente riconoscerti in qualcosa. Nell’arte, certo. In cos’altro che nell’arte? Unica patria possibile, pensi. Ma hai imparato a fermarti ogni volta che vorresti applaudire senza la certezza di non essere usata.
Un’azione radicale e davvero compassionevole, questo avresti voluto dal monologo di Favino. Ma questo non è, non può essere. È il contesto che lo nega. Sono i dati di fatto. Così niente applausi, ma niente fischi nemmeno. Fate voi. Giocate. Un attore recita una parte, si mobilitano le fazioni. Non cambia niente. Non cambierà.
Certo, sarebbe più rischioso non recitare una presa di posizione ma mantenerla una vera posizione, più difficile correre il rischio di rimetterci qualcosa pur di conservare a sé stessi, e alla propria arte, quella libertà che sola la può rendere tale, perché altrimenti non vale più niente. Ma ti chiedi chi sia disposto a questo oggi in questo paese.
E tu, sei disposta? Sei disposto?
Qualcuno obietti, ribatta ragionevolmente, very politically correct… per carità, quanto alla firma di Favino può anche darsi il caso che lui e i suoi colleghi avessero maturato spontaneamente la ferma convinzione che fosse venuto per l’Italia il tempo di abbandonare il bicameralismo perfetto e di votarsi a una nuova e moderna (!) costituzione. Ma se anche fosse questa la migliore delle ipotesi, ti sembrerebbe comunque una leggerezza imperdonabile l’aver equivocato rispetto alla posta in gioco in quel referendum. Del resto — pensi — nemmeno Umberto Terracini avrebbe voluto il bicameralismo perfetto, eppure la sua proposta ti ha sempre fatto tutto un altro effetto. Ma questo è un altro discorso…
Chiudi Facebook, è tardi. Domani si lavora
Fotografia: G. Biscardi, Palermo 2017, schermi.
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