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L’Appello per la scuola pubblica: una questione politica. Il dibattito/3

 

 [I due precedenti interventi sull’Appello sono stati quelli di Lucia Olini e Luisa Mirone]

Scrivo questi pochi appunti a proposito dell’Appello per la scuola pubblica dopo aver letto, oltre a quel che se ne è scritto sui giornali e in rete, le riflessioni sul tema comparse in questo blog a firma di due amiche e colleghe, Lucia Olini e Luisa Mirone. Dopo queste letture, vivo un paradosso: da un lato sarei pronto a sottoscrivere tutto, o quasi tutto, quello che Lucia e Luisa scrivono, dall’altro – a differenza di loro due – ho firmato l’appello, e continuo a pensare di aver fatto la cosa giusta.

Come è possibile una tale schizofrenia? Io me la sono spiegata così: Olini e Mirone svolgono nei loro interventi raffinate e puntuali riflessioni che hanno al centro la didattica e nascono da anni di progetti e battaglie (che io ho condiviso e condivido con loro) per un rinnovamento reale, efficace e ricco di senso delle pratiche scolastiche. Progettualità e battaglie spesso portate avanti con difficoltà e in posizioni di estrema marginalità, spesso realmente contro tutto e contro tutti, e proprio per questo tanto più necessarie e significative. Credo però che questo appello non vada giudicato in via prioritaria per quel che propone, o per quel che omette, nel campo della didattica (anche se certamente pure su questo indica una strada – una strada che mi pare ragionevole, niente affatto nostalgica, come invece è stato detto, e molto diversa da quella di un altro appello di qualche mese fa). La questione che pone l’appello, a mio avviso, è invece essenzialmente politica: riguarda prima di tutto, e più di tutto, il ruolo e le finalità generali della scuola in un paese come l’Italia e in un mondo come quello attuale, e solo di conseguenza le sue modalità organizzative e didattiche. Come tale, quindi, sollecita tutti gli attori della scuola non in quanto tecnici ma in quanto cittadini. E chiama in causa in particolar modo gli insegnanti, che in quel contesto svolgono un ruolo particolarmente delicato, in cui lo statuto di funzionario pubblico non può annientare quello di intellettuale e di cittadino attivo.

Ho quindi firmato l’appello perché in esso vedo, pur con gli inevitabili schematismi di un documento di questo tipo, un tentativo generoso di rimettere al centro la discussione sul ruolo della scuola (e degli insegnanti) nella società, e di provare a chiamare a raccolta quante più persone possibile intorno a questa prospettiva tanto inattuale quanto necessaria. Non serve ribadire, infatti, che da anni assistiamo ad una serie di processi di marginalizzazione: della scuola stessa (prima di tutto quella statale), e in essa degli insegnanti e dei saperi disciplinari, in particolare (mi sembra giusto ribadirlo in un blog che si chiama la letteratura e noi) di quelli umanistici. E si potrebbe andare avanti nella litania ormai tante volte recitata.

C’è chi interpreta questi fenomeni come una normale e inevitabile evoluzione della società; altri al contrario ci vedono un piano messo a punto a tavolino dalle tecnocrazie e dal potere neoliberista. Ancora una volta apocalittici e integrati, insomma. Ma io credo che tutto questo sia soprattutto, almeno se guardiamo alle vicende della scuola nell’Italia degli ultimi decenni, il portato di due forme di pigrizia: quella di chi non ha saputo proporre, in risposta alle trasformazioni del tempo, ricette diverse dal ritorno ad una ideale e probabilmente mai esistita “buona scuola di una volta”, e quella di chi ha accettato che, in mancanza di idee alternative, la scuola diventasse un fornitore di servizi alla persona come un altro, che si gioca il suo ruolo non dentro un progetto politico-culturale, ma sul mercato. Un discorso, questo, che peraltro può valere per quello scolastico come per molti altri ambiti.

Questo appello, mi pare, propone una via diversa, un ritorno ad una strada che nel nostro paese è stata forse in qualche fortunata stagione intravista, ma mai seguita fino in fondo; quella di una scuola che sia finalmente occasione di costruzione e di pratica di comunità, di convivenza, di cittadinanza. Vedo insomma nell’appello, sotto la modesta (ma importante) richiesta di mettere in mora alcuni punti particolarmente deleteri di una pseudo-riforma come la 107 (in primo luogo quello di una alternanza scuola-lavoro pensata male e realizzata all’insegna dell’improvvisazione), una possibile prospettiva più ampia, quella di chiedere, a chi ci governa e ci governerà, di porsi – prima di proporre soluzioni abborracciate e frammentarie – la domanda fondamentale che deve precedere ogni riforma degna di questo nome, ovvero la domanda sulla finalità della scuola, e di provare a darsi risposte che vadano oltre l’adesione passiva allo spirito dei tempi e che derivino da un reale ascolto di chi nella scuola ci vive e lavora tutti i giorni. Un impegno, questo, che è stato disatteso da tutte le forze politiche che hanno “riformato” la scuola negli ultimi decenni.

Sia chiaro: non ho nessuna speranza che questo avvenga, non almeno nel giro di una legislatura, e forse nemmeno di una generazione. Ciononostante credo sia giusto, anche nei momenti in cui sembra che tutto vada in un’altra direzione, soprattutto in questi momenti, tenere il punto su alcuni valori fondamentali, ricordare che esistono alternative possibili e migliori, fare in modo che queste alternative non scompaiano persino dalla memoria e dal novero delle possibilità. Mi pare una responsabilità che dovrebbe essere in capo ad ogni cittadino, e forse in maniera particolare a chi per professione si occupa di trasmissione del sapere, e di discipline umanistiche, con il carico di inattualità e di riflessione critica sul presente che inevitabilmente esse si portano dietro. Una responsabilità che sarebbe giusto prendersi anche da soli, ma se c’è la possibilità di essere in tanti – anche grazie ad un appello – è meglio.

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