Achille Campanile, uno scrittore con la esse maiuscola: l’irriverente importanza della grammatica per un autore «mai» scontato
Cosa hanno in comune Campanile e Leopardi? Qual è la corretta definizione di umorismo, in relazione agli scritti dell’autore laziale? Nel quarantesimo anno dalla morte di Achille Campanile un percorso tra grammatica, echi letterari ed ironia per ricordare uno scrittore poliedrico e unico nel suo genere.
Non ho mai pensato di essere un fustigatore di costumi.
Credo di essere, più semplicemente, un cronista del mio tempo.
Non mi sento tradito da quello che ho scritto.
ACHILLE CAMPANILE
L’umorista fa ridere il cervello, il comico fa ridere la pancia1.
ACHILLE CAMPANILE
L’Omero dei Castelli Romani non trascura neanche una lettera di quello che scrive, e pratica un altro tipo di epica: Achille Campanile, personalità del Novecento italiano forse un po’ troppo sottovalutata dai quadri storiografici e letterari, è entrato di forza – con le sue battute irriverenti e argute – nell’accezione moderna del termine “epica”. Come definire, infatti, se non “epiche”, le sue intuizioni, non solo riguardo i giochi di parole – molto più di sette, e tutti studiati e presentati in maniera naturale… pardon, legittima! L’autore diviso tra Velletri e Lariano, le due città che se lo contendevano come Omero era rivendicato da undici polis, iniziò come giornalista e l’aneddoto e la leggenda si fondono perché proprio dalle pagine di un giornale emerse le prime volte lo spirito dell’umorista.
Seppur responsabile della terza pagina, composta di recensioni cinematografiche o romanzesche, a Campanile fu commissionato un articolo di cronaca. Lo scrittore doveva occuparsi della stesura di un pezzo con protagonista un’anziana vedova, talmente devota al marito da andare quotidianamente al cimitero a trovarlo. Purtroppo, però, la donna fu trovata morta proprio sulla tomba del congiunto tra lo sgomento generale dei paesani. Quale titolo scegliere per una storia dal forte impatto? “Tanto va la gatta al lardo…”, chiosò Campanile, che dissacrante e sfacciato sintetizzò nella maniera migliore, a suo modo, l’accaduto. Una battuta per una tragedia: il prologo, non a livello temporale, al suo Tragedie in due battute, piece teatrale del 1978 che lancia una serie di motti e situazioni divenute proverbiali negli anni a seguire, talmente comuni nell’immaginario collettivo da far passare in secondo piano (purtroppo) chi l’ha ideate. Campanile, poliedrico nella sua vasta produzione comprendente oltre al teatro e all’umorismo anche la narrativa e il cinema, scrive in maniera garbata e pignola, pretendendo l’attenzione del lettore che a dispetto delle brevi tragedie può trovarsi di fronte più di un rompicapo nelle due battute. Prerogativa dello scrittore veliterno d’adozione è anche la sua continua apertura nei confronti della letteratura italiana, che con i suoi protagonisti entra nella produzione scrittoria. Proprio questa sua maniera di essere dotto pur senza perdere la vena ironica ha creato, negli anni successivi alla sua morte, un autentico dibattito letterario volto a stabilire il possibile “ingresso” di Campanile nel novero dei grandi classici. Enzo Siciliano, Giovanni Arpino, Carlo Bo, Umberto Eco e tanti altri compresero quanto fosse riduttivo definire umorista un uomo con lampi di genialità tali da lasciare interdetto persino Mussolini2. Il suo criptico stile epigrammatico ha indagato i meccanismi del comico, sempre con rispetto e riverenza nei confronti della storia delle lettere: così quando Dante, Petrarca, Tasso e altri poeti entrano nelle Tragedie campaniliane risultano dei perfetti teatranti, sui quali il sipario cala sempre troppo presto. Se il sommo poeta sembra, ad una prima lettura, non amare i viaggi in treno – ed ecco la magia della trama intessuta da Campanile, che presuppone in poche righe una serie di ragionamenti storici e logistici – la catabasi verso il comico istantaneo avviene nel momento in cui il tale dice all’altro, in un clima fittizio per antonomasia, che il Dante solennemente citato non è l’Alighieri ma semplicemente un suo amico3. Fra i tanti autori scomodati dall’umorismo dello scrittore non poteva mancare quel Giacomo Leopardi che tanti fiumi di parole ha ispirato, per la particolarità della sua esistenza, controversa e a tratti inesplorata, stereotipata forse come accaduto, per diversi e opposti motivi, allo stesso Campanile. Gobbo, triste, taciturno e sfortunato Leopardi, allegro, dalla battuta pronta e facile Campanile: due opposti nella concezione che inevitabilmente si crea nei lettori ad un approccio superficiale. Il recanatese viene inserito in due tragedie, la prima delle quali lo vede in compagnia dell’illustre collega Torquato Tasso. Da sottolineare come l’introduzione alle battute non sia brutalmente didascalica ma anzi elaborata, di alto valore narrativo, spesso ben più lunga rispetto alle due battute per il duplice intento di preparare al meglio lo scatenamento dell’umorismo e allo stesso tempo lasciare fremente il lettore, che si chiede inevitabilmente dove il narratore lo voglia portare. Paradossi e particolari della fantasia di Campanile conducono Leopardi nella giungla, caratterizzata da una «simpatica fraternità cameratesca», dove animali e persone siedono allo stesso tavolo. Questa improbabile trattoria nel deserto, una vera e propria cattedrale (chissà se con annesso campanile, con la c minuscola) situata nel nulla, provoca accostamenti bizzarri e talmente assurdi da sembrare inevitabili nel contesto che sapientemente l’autore costruisce:
Ricordo che quando ci capitarono i cacciatori di belve Giacomo Bianchi e Torquato Rossi, a una tavola si vedevano Giacomo e leopardi, a un’altra Torquato e tasso. Ma dopo poco, alla tavola di Giacomo e leopardi, si vedevano soltanto leopardi. Più bello ancora fu quando ci capitarono, di passaggio, i poeti Giacomo Leopardi e Torquato Tasso. Perché quella volta a una tavola si videro Leopardi e leopardi e a un’altra Tasso e tasso4.
Un surrealismo della genialità, che sottintende tutti i meccanismi del comico, garantendo una dotta utilizzazione delle parole e lasciando aperta la porta a riflessioni più elevate, meno umoristiche, ma comunque indotte. L’uomo animalesco e l’animale umanizzato: il chiasmo si compie e ha come protagonisti due grandi poeti, con la P maiuscola, definizione fondamentale quanto la grammatica che nel pezzo di Campanile diventa l’unica chiave per distinguere Leopardi dai leopardi. L’umorista è attento alle sfumature, non permette errori di battitura, perché una minuscola può smontare l’Infinito, per tornare alla siepe protettiva del recanatese. Castelli Romani e Leopardi tornano a legarsi, quasi un secolo prima di Campanile, grazie al dialogo epistolare intrattenuto dal poeta e il cardinale Angelo Mai. L’ode dedicata al custode della Biblioteca Vaticana, filologo oltre che teologo, il quale dopo le impressioni positive evinte dalle lettere deluse profondamente – nell’atto di un incontro de visu – Leopardi5, torna di grande attualità per il cognome parlante e pericoloso del cardinale. C’è pane per i denti dell’umorista nell’avverbio di negazione che condanna anagraficamente il porporato: la scena immaginata da Campanile avviene nella stanza di Giacomo, a Palazzo Leopardi, e protagonisti sono il poeta e suo zio. Dottrina, abbassamento, ironia e sagacia si fondono nel consueto prologo:
[…] il poeta siede pensoso presso la finestra e fissa la vetta della torre antica d’in sulla quale il passero solitario alla campagna cantando va finché non muore il giorno, malgrado le sassate che dal basso gli tirano i monelli per farlo tacere. Primavera d’intorno brilla nell’aria e per li campi esulta. Dalla finestra sale un brusìo festoso essendo, tra l’altro, il sabato del villaggio in sul calar del sole. La donzelletta vien dalla campagna ma non si vede […]6.
Gli inserti di Campanile sono minimi, il 90% del testo è citazione pura dell’opera poetica di Leopardi. Ma bastano quelle sassate inserite dallo scrittore per fare comicità: il «tra l’altro» che smonta, la donzelletta che «non si vede», i monelli che vogliono che il poeta taccia sembrano dei piccoli raccordi, ma pesano nell’economia del testo e risulteranno decisivi all’atto dello scioglimento. Nei corridoi del signorile edificio recanatese, lo zio decide di dare un consiglio al nipote-vate. La prolificità del poeta viene sottolineata, in linguaggio colloquiale, con un «dedichi poesie, scusami, sai, a porci e cani». I protagonisti più noti delle odi leopardiane sono passati in rassegna da Campanile: la ragazzetta (Silvia), il giocatore di pallone, la donzelletta. Perché, allora, non pensare ad un’ode anche nei confronti del premuroso cocchiere che di nome fa Angelo? Il dubbio si insinua nel lettore, ma non è ancora svelato. Basta connettere la famosa ode alla situazione creatasi, ma lo zio molesto che vuole mettere bocca sull’ispirazione del nipote riceve una risposta secca: «Non farò mai una cosa simile», che è come rispondere con il titolo reale dello scritto leopardiano: «Un’ode? Ad Angelo mai». Anche qui è la minuscola a salvare dal travisamento globale, ma la genialità si conferma con il suo ben rodato meccanismo che Eco auspicava venisse preso a modello per un saggio sul comico7. Il riso, amaro e dolce al contempo, è l’obiettivo mai dichiarato di Achille Campanile, che non si definisce appunto mai umorista e si svincola da questa definizione riduttiva visto il numero di titoli da lui pubblicati. Il confine labile tra l’essere scrittore e l’essere sottovalutato come un barzellettiere era ben noto all’autore che a fine anni Sessanta si rifugiò nella campagna veliterna a Contrada Arcioni, forte della popolarità che con il bastone e il monocolo aveva guadagnato non solo a Velletri, dove gli ex dipendenti dell’ufficio postale centrale ricordano lo stupore e il clamore degli utenti nel momento in cui Campanile faceva il suo ingresso, quasi solenne: «è arrivato lo scrittore!», si esclamava. Il Leopardi «reciso» di Campanile, non svergognato e anzi simpaticamente parodizzato, ritorna nelle parole di Umberto Eco ma esula dalla scrittura e si espande nella biografia. Il filosofo di Alessandria, tra i più grandi estimatori e critici del Nostro, ri-scomoda e riaccosta il recanatese e il laziale, con un’analisi che giustifica – ovviamente in maniera inconsapevole – questo parallelo tra due letterati distanti in fondo solo di sessantadue anni8:
Non si ride più, si sorride, ma con una certa tristezza. Campanile ha fatto vera poesia prendendo di contropiede la cattiva poesia. Forse non riesce a liberarsi da una sfumatura di patetico: ma sa benissimo di non essere Leopardi. È solo uno che dice per scherzo9.
Sapere di non essere Leopardi, tuttavia, pare poco esaustivo. Campanile, dall’alto della torre della sua intelligenza, avrebbe scansato il fardello dell’accostamento, facendone una tragedia in due battute. Forse si sarebbe liberato di questa forzatura con l’ennesimo rompicapo, magari dichiarando: «Leopardi? Mai». E il maiuscolo dell’avverbio non rivelerà mai – la ripetizione irrompe per forza di cose – se si tratta di nome proprio o di semplice rispetto della regola grammaticale. Del resto un Campanile – con la lettera grande – che scomoda un cardinale rientra, pur risultando un capovolgimento da teatro dell’assurdo, nello stesso campo semantico dell’ecclesia. Per una corretta definizione di umorismo, tutt’altro che etichettabile con gli «allegretti» di Malaparte10, Achille Campanile fu dunque uno scrittore con la esse maiuscola. Senza equivoci né doppi sensi. E molto attento alla grammatica, alla poesia di Leopardi e alle scene dopo le quali, calato il sipario, avrebbe dovuto mettersi sempre in moto il cervello.
RASSEGNA NAZIONALE “CAMPANILIANA 2017”: DOVE E QUANDO
La città di Velletri che ha ospitato Achille Campanile negli ultimi anni della sua vita, a quarant’anni dalla morte del grande scrittore propone una serie di appuntamenti in una rassegna nazionale denominata “Campaniliana”. Queste, in breve, le date principali: il 21 ottobre inaugurazione della mostra e convegno “Umorista sarà lei!” (Relatori: Giorgio Montefoschi, Vito Molinari, Arnaldo Colasanti, Gaetano Campanile; luogo: Casa delle Culture e della Musica). Dal 21 al 29 ottobre Mostra fotografica-documentaria con immagini, gigantografie, manoscritti, bozzetti, disegni e oggetti di uso quotidiano dell’autore (Luogo: Casa delle Culture e della Musica di Velletri, aperta tutti i giorni dalle 10.00 alle 12.30 e dalle 16.00 alle 18.30. A cura di Silvio Moretti, Angelo Cannatà, Gaetano Campanile). Il 24 e il 26 ottobre sono previsti Reading Campaniliani anche per le Scuole. Domenica 29 ottobre 2017 alle ore 21.00 presso il Teatro Artemisio Gianmaria Volontè premiazione del vincitore del I Premio Nazionale Teatrale “Achille Campanile” (scrittura di un copione di genere umoristico) decretato dalla giuria composta da Arnaldo Colasanti (Presidente), Simona Marchini, Gaetano Campanile. A seguire rappresentazione teatrale di una commedia tratta dal repertorio Campaniliano. Evento realizzato in co-produzione tra la Fondazione Arte & Cultura Città di Velletri, l’Associazione Memoria ‘900. In collaborazione con il Fondo Campanile e con il patrocinio del Comune di Velletri.
1Citazioni tratte dalla sezione “Il pensiero” del sito dedicato allo scrittore (www.campanile.it).
2L’episodio è raccontato da Alberto Cavallari in un articolo del «Corriere d’informazione» datato 4 gennaio 1958: “Venne spedito ad incontrare Mussolini a Civitavecchia durante la marcia su Roma. Arrivò alla stazione mentre i fascisti facevano quadrato, una tromba squillava l’attenti e nel silenzio generale, Mussolini stava scendendo dal treno. Il momento era storico. Nessuno fiatava. Ma d’un tratto si vide un ometto col monocolo, flemmatico e distratto, andare verso Mussolini. Nessuno credendolo un personaggio importante lo fermò. Anzi tutti tesero le orecchie supponendo che, a questo punto, quel signore rivolgesse a Mussolini la debita frase storica. Invece, si vide l’uomo dal monocolo togliersi il guanto e dire al duce: “Permette? Campanile”. La comicità di questa battuta aveva fatto crollare l’atmosfera “eroica” se Mussolini non l’avesse guardato, con forza, negli occhi. Campanile si trovò di colpo lontano. Oggi è di quelli che giurano che Mussolini avesse straordinarie doti d’ipnotizzatore” (passo tratto da www.campanile.it).
3 A. CAMPANILE, Tragedie in due battute, BUR, Milano, 2000, p. 50.
4 CAMPANILE, Tragedie, in due battute, cit., pp. 26-27.
5 Sulla delusione “letteraria” di Leopardi dopo l’incontro con Angelo Mai, stimato a tal punto da guadagnarsi la dedica della nota ode, ci sono numerose testimonianze. La delusione è dovuta, come si legge nelle più complete biografie del poeta di Recanati, al fatto che quando nel 1822 Leopardi poté leggere il testo del De re publica, scoperto da Angelo Mai, rimase deluso dal testo stesso (pubblicò comunque nelle romane «Effemeridi letterarie» del ’22 l’articolo filologico Notae in Ciceronis de Re Publica).
6 CAMPANILE, Tragedie in due battute, cit., pp. 96-98.
7U. ECO, Ma che cos’è questo Campanile, Introduzione ad A. CAMPANILE, Se la luna mi porta fortuna, Rizzoli, Milano, 1960.
8 Leopardi morirà nel 1837, Campanile nascerà il 28 settembre 1899 anche se in gran parte delle ristampe dei suoi libri è riportata la data di nascita “1900” per una precisa volontà dell’autore di non passare per un uomo dell’Ottocento a causa di soli tre mesi.
9 U. ECO, Maestro del postmoderno, da «La Repubblica», 7 ottobre 1989.
10 In una lettera data 15 luglio 1930 Curzio Malaparte, direttore de «La Stampa», scrive a Campanile: «Non puoi seguitare eternamente con gli allegretti. A me sembra che sia nel tuo interesse mutar genere. Pensaci». Ma l’autore romano, al quale sta stretta la definizione di “umorista”, con la sua produzione oltre a non smentirsi contribuì – come asseriscono i numerosi saggi critici a lui dedicati – ad una corretta definizione di «umorismo», genere che assurge a dignità letteraria.
Fotografia: Palermo 2014, bar
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