Eraldo Affinati. Il viaggio, la memoria, il lavoro culturale
Il presente saggio è la rielaborazione di un intervento proposto agli studenti del liceo scientifico veronese “A. Messedaglia” nell’ambito della Rete interregionale “Attraversare il Novecento tra ideologie di guerra e utopie di pace”: vi emergono le direttrici che da vent’anni guidano le scelte narrative di Eraldo Affinati, da Campo del sangue (1997), sul quale ci sofferma per la coerenza tematica con il lavoro della Rete, ai più recenti Vita di vita (2014) e L’uomo del futuro.Sulle strade di don Lorenzo Milani (2016).
Affinati, «insegnante artistoide»
Eraldo Affinati ha scelto da sempre di lavorare in situazioni di frontiera: le sue classi di un istituto professionale – inserite nella comunità La città dei ragazzi – vengono frequentate da stranieri multietnici e italiani bordeline. Una sfida quotidiana, dunque, per un «insegnante artistoide» che si relaziona con «gli ultimi del carro» (E. Affinati, Secoli di gioventù, Milano, Mondadori, 2004, p. 14 e p. 38), con le loro storie di separazioni, i viaggi affrontati con mezzi di fortuna nonchè con il loro italiano imperfetto contaminato dal romanesco dei compagni:
Specialisti della lontananza: ecco chi sono i miei ragazzi. Tecnici del distacco. Esperti dell’assenza. Conoscitori del lutto. Piante cresciute fuori del fusto. In mancanza d’altro, si legano mani e piedi a poche verità essenziali, stringendo forte, col nodo doppio.(E. Affinati, La città dei ragazzi, Milano, Mondadori, 2008, p. 100)
Affinati è anche uno degli scrittori più interessanti dell’estremo contemporaneo e, al contempo, tra i più disposti a eleggere una propria tradizione: riconosce, infatti, i suoi “Padri” in Rigoni Stern, Fenoglio, Primo Levi. La sua è, dunque, un voce intellettuale estremamente rilevante per chi, a scuola, intenda “traghettare” gli studenti dal secondo Novecento al presente letterario, aiutandoli a orientarsi nelle affastellanti proposte dell’editoria odierna.
Fatta eccezione per i generi di intrattenimento come il noir, il rosa e i loro derivati, le caratteristiche della letteratura dell’ultimo ventennio, esemplarmente rappresentate dalla scrittura di Affinati e non ancora incluse nei percorsi didattici, sono, a grandi linee, le seguenti:
- la predilezione per situazioni o temi legati alle realtà spesso più scomode e “scottanti” del paese: la malavita, le migrazioni, i conflitti alle porte dell’Europa;
- la tendenza a ibridare i generi, mescidando la narrazione con forme saggistiche e personali come il diario, il reportage, la testimonianza, la cronaca.
Quello che importa notare è che questi due elementi, rispettivamente di contenuto e di forma, sembrano correlati nei risultati migliori alla tensione etica e pedagogica di autori che, come Affinati, mirano a rappresentare le contraddizioni del mondo piuttosto che a far evadere i loro lettori in un mondo altro. Questo tipo di atteggiamento intellettuale e queste soluzioni formali si comprendono meglio se si pensa al contesto in cui sono nati: si tratta in sostanza di una risposta all’egemonia, crescente negli ultimi due decenni, di forme di intrattenimento come i reality «costruiti in modo da prestarsi a una lettura doppia […]. La naturalezza della ‘vita in diretta’ è sempre relativizzata dall’artificiosità dell’ambiente recintato, dello sguardo della telecamera, dello spettacolo in corso.» (R. Donnarumma, Ipermodernità. Dove va la narrativa contemporanea, Bologna, Il Mulino, 2014, p. 179). All’invadenza finzionale delle televisioni e dei social, la letteratura sembra rispondere con la resa verosimile di eventi di cronaca, di fatti di storia, di vite vissute, con una sorta di «ritorno alla realtà», come è stato definito da Luperini e dal gruppo di studiosi raccolto attorno alla rivista «Allegoria».
Non è un caso, allora, che nelle prose ibride di Affinati l’esperienza del viaggio e il ruolo cruciale della memoria si intreccino con il senso che lo scrittore attribuisce al lavoro culturale proprio e a quello di coloro che, come don Lorenzo Milani, hanno scelto di essere insegnanti di frontiera («Non bisogna credere che fosse una semplice didattica. Si trattava piuttosto di un nuovo modo di vivere, nel segno dell’unità spirituale prima ancora che nel sogno del riscatto sociale» in E. Affinati, L’uomo del futuro. Sulle strade di don Lorenzo Milani, Milano, Mondatori, 2016, p. 128). Memoria e viaggio, finalizzati all’intento pedagogico, sono del resto le tematiche più rilevanti nei testi maggiori di primo Levi: Se questo è un uomo e La tregua.
Il viaggio – La memoria – Il lavoro culturale
Per Affinati, viaggiatore instancabile, attraversare luoghi fisici equivale a compiere una sorta di scavo archeologico nel passato. Dal libro Compagni di viaggio (2006) apprendiamo che l’autore ha visitato Hiroshima, la «città cicatrice», Stalingrado, «mausoleo del comunismo», Cassino, crogiolo di croci dei soldati di tutte le nazionalità che vi hanno combattuto, Asiago, a colloquio con il «vecchio sergente», la Normandia, sulla spiaggia dove piovvero, come «bianchi tulipani», i paracadutisti statunitensi. Ma non sono solo storiche le direttrici dei suoi viaggi: anche l’Africa, gli USA e l’India sono mete per lui privilegiate.
L’incrocio tra viaggio e storia avviene innanzitutto in nome di memorie che riguardano Affinati stesso e che alimentano da sempre la ricerca delle sue radici: le domande sul padre, figlio illegittimo addestratosi da solo alla vita, come si apprende ne La città dei ragazzi (2008); sulla madre e sul nonno materno, come si legge in Campo del sangue (1997).
I viaggi da una parte e la ricostruzione storica dall’altra si coniugano, dunque, con l’attitudine pedagogica di Affinati e con la sua riflessione sulla paternità: insegnare a ragazzi dalle «famiglie consunte» significa per lui fare i conti con l’interiorità e con la prassi educativa, con il suo stesso padre, figura emblematica di un’infanzia solitaria e difficile, e con situazioni di frontiera:
Questo ragazzo mi chiama in causa in quanto essere umano. C’è un groviglio sotto di noi, da cui nascono tutte le piante: la radice comune. Quando rispondo allo sguardo del mio allievo, rovisto laggiù, dentro il midollo spinale della specie cui appartengo. (E. Affinati, Secoli di gioventù, cit., p. 15)
Campo del sangue: testimoniare “per delega”
Viaggio, memoria e lavoro culturale si intersecano anche in Campo del sangue che è il libro di Affinati che maggiormente dialoga con Levi non solo per il tema del viaggio ad Auschwitz a cinquant’anni dalla liberazione del campo, quanto piuttosto per il dovere testimoniale di cui quel luogo carica il visitatore-scrittore proprio nel momento storico in cui stanno scomparendo tutti i testimoni diretti: in questo senso Affinati ha parlato di Campo del sangue come di un libro «scritto per il futuro». Le domande che l’autore pone alla propria coscienza sono tese a dare una chiave di lettura del trauma che la Shoah continua a rappresentare nell’immaginario individuale e collettivo europeo ma, ancor più, a capire come si può testimoniare Auschwitz senza averlo vissuto sulla propria pelle.
Nei primi capitoli del libro, l’autore individua «un’ossessione conoscitiva» che lo ha portato per alcuni anni a leggere quasi compulsivamente libri sullo sterminio; eppure solo alla stazione ferroviaria di Udine, Affinati capisce di essere stato spinto alle letture e al viaggio da due figure familiari: il nonno partigiano e la madre, all’epoca ventenne. Se del primo rievoca lapidariamente cattura e fucilazione, è soprattutto intorno a Maddalena, la madre di Affinati, che si affolla una ridda di interrogativi: perché, caricata sui treni diretti in Polonia, non era stata chiusa nei carri piombati? Era forse una prigioniera destinata a diventare una Feld- Hure, una prostituta da campo? E perché era stata collocata in un vagone in cui la vigilanza fu così blanda da permetterle di comunicare con un estraneo che si offrì di portarla in salvo in bicicletta? Di fatto, sono domande destinate a restare senza risposta: conta sapere che sarà Maddalena a raccogliere il testimone paterno e a diventare partigiana dopo aver trovato l’insperata salvezza così come, a sua volta, il figlio Eraldo le “subentra” come testimone di secondo grado in questa staffetta della memoria.
Le ragioni autobiografiche si dipanano soprattutto nei primi capitoli del libro. Quando il viaggio porta Affinati fuori dai confini italiani, la testimonianza soggettiva lascia il posto alle molteplici voci autoriali che ritornano alla mente del viaggiatore-scrittore: tramite il montaggio, le frequenti citazioni, in tal modo, vengono alternate alle sequenze del diario di viaggio che assume un carattere digressivo e saggistico. In sosta, aspettando che l’inserviente finisca di pulire i bagni pubblici di Villach, ricorda, a esempio, le parole del reduce Bruno Bettelheim:
Nessun prigioniero poteva servirsi della latrina o dei lavandini dopo che era passata la prima mezz’ora; e solo parecchie ore più tardi avrebbe avuto il permesso di servirsene di nuovo. Era perciò assolutamente necessario evacuare prima di aver lasciato le baracche. (E. Affinati, Campo del sangue, Milano, Mondadori, 2009, p. 31)
Allo stesso modo, giunto in Slovacchia stanchissimo e affamato, con «la barba lunga, gli occhi spiritati» portando il cucchiaio alla bocca soprappensiero ricorda fulmineamente le parole che Robert Antelme dedicava alla zuppa bollente del lager:
La zuppa è bollente, mi sento la faccia congestionata. Non ci chiediamo se è buona, è una domanda inutile; è semplicemente bella. Mangio ancora più lentamente, ma il livello s’abbassa. Mi fermo ancora. Non ne ho più che qualche cucchiaiata. Raccolgo per primo la purée di fave rimasta attaccata alle pareti. La gavetta è quasi vuota. […] Ora sento che il cucchiaio raschia il fondo. Il fondo appare, non c’è più che lui. La zuppa è finita. (Ivi, p. 92)
Campo del sangue – il tragitto
Il percorso, di poco inferiore ai 900 km, compiuto con mezzi di fortuna e in modo a sua volta digressivo, porta Affinati ad attraversare Slovenia, Austria, Ungheria, Repubblica Ceca per giungere infine, in Polonia: nel corso del viaggio lo scrittore si sofferma sulle tappe progressive degli spostamenti e sulla varietà umana con cui viene a contatto investendo le sue notazioni di viaggio di una lucidità sempre vigile. Basterà notare la differente percezione spaziale e mentale che Affinati ha dell’Austria rispetto ai paesi che hanno fatto parte del mondo oltrecortina. In effetti la patria di Francesco Giuseppe viene a più riprese descritta come un paese «da cartolina», punteggiato da «castelli rinascimentali, santuari barocchi, campi folti di grano maturo, cielo azzurro.» (Ivi, p. 35).
É un paesaggio che stride con la meta ultima del viaggio di Affinati e, talvolta, sembra disturbarlo. L’avvicinamento all’Ungheria, pertanto, viene accolto con sguardo benevolo, come approdo ad un mondo crudamente essenziale, più prossimo alla matrice del trauma perché prosciugato dal superfluo. E l’approdo all’est europeo, realizzato a soli otto anni di distanza dal crollo del muro di Berlino, significa anche prendere contatto fisico e mentale con l’altro grande fantasma del Novecento, il totalitarismo comunista. Affinati, osservando a Bratislava che il paesaggio, ancora disseminato dei residui architettonici di impronta staliniana, sta subendo la colonizzazione dell’Occidente in modo brutale, riflette:
Nel silenzio e nel caldo di Slavín, in anticipo sulla visita che, di lì a poco, avrei compiuto ad Auschwitz, le due grandi dittature del secolo per un attimo si sono rialzate come fantasmagoriche quinte a dirmi che il Novecento, questo secolo paralizzato dalla propria lucidità, era finalmente finito. (Ivi, p. 97)
Campo del sangue – Auschwitz
L’avvicinamento alla meta coincide con l’infittirsi del montaggio di brani tratti da testimonianze di reduci e impressioni del pellegrino contemporaneo. Ne è esempio emblematico l’arrivo alla stazione di Oświęcim, preceduto da un frammento testuale di Levi:
Venne a un tratto lo scioglimento. La portiera fu aperta con fragore, il buio eccheggiò di ordini stranieri, e di quei barbarici latrati dei tedeschi quando comandano, che sembrano dar vento a una rabbia vecchia di secoli. Ci apparve una vasta banchina illuminata dai riflettori. (Primo Levi, 1983).
La stazione di Oświęcim oggi assomiglia a un vecchio lavandino pieno di incrostazioni calcaree che non vanno più via, neppure con l’acido. Sulla strada davanti ai binari transitano furgoni, camion, autotreni. Il diciassettesimo giorno, finalmente, siamo arrivati. (Ivi, p. 127)
Giunti alla meta la narrazione lascia il posto alla descrizione; al diario di viaggio subentra l’insistenza sui dettagli e sui residui di razionalità efficientista, segni e tracce di chi ha voluto ridurre a «larva» i suoi simili:
L’uomo indifeso, inerme, dentro lo spazio attrezzato del campo non poteva essere che una larva. Altri uomini lo fissavano dall’alto, se ne prendevano gioco. Era come se osservassero se stessi, la vulnerabile provvisorietà che avevano rimosso. Le sentinelle di guardia alle torrette non dovevano sorvegliare […] l’orizzonte lontano, per annunciare pericolosi attacchi o attesi ritorni: i riflettori erano girati in modo nuovo, all’interno del recinto. (Ivi, pp. 138-139)
La progettazione ordinata del lager rimanda alla razionalità stravolta dei pianificatori dell’universo concentrazionario; la caotica fuga di riflessioni e di testimonianze che si avvicendano nella mente dello scrittore nel corso delle sue visite al campo, producono in lui una sorta di trance che lo porta a girovagare «disorientato e confuso». Infine, tutti i fantasmi che lo hanno accompagnato nel suo singolare viaggio gli si affollano intorno, compiendo una sorta di danza macabra che lo porta quasi allo svenimento:
Quando già le tenebre rischiavano di avvolgermi, alcune immagini si sono incrociate fra loro, nella tipica scarica elettrica degli attacchi febbrili, come un montaggio affrettato: ho riconosciuto mio nonno, nel momento in cui fu raggiunto dalla sventagliata dei mitra, mia madre, mentre di corsa fuggiva fuori dalla stazione di Udine, gli scrittori suicidi, tutti i fucilati, i gassati e quei milioni di cadaveri bruciati le cui ceneri ricadevano sulle foglie degli alberi circostanti. La bizzarra processione di poveri derelitti ha cominciato a circondarmi fino a farmi mancare il respiro. (Ivi, p. 151)
In queste pagine Affinati riproduce un’immedesimazione e una situazione emotiva paradossale: il viaggiatore empatizza con gli scomparsi del campo, riesce a rivivere il trauma «diventando il modello teorico del deportato» (Ivi, p. 13) e ne salva la dicibilità. Seppure “per delega”, Affinati può dunque assumere e rinnovare la postura testimoniale cui si riferisce Levi quando dice di parlare al posto di tutti coloro che non sono tornati: «noi parliamo al posto loro, per delega» (G. Agamben, Quel che resta di Auschwitz, Torino, Bollati Boringhieri, 1998, p. 158). Lo scrittore-pellegrino nel campo arriva infatti a condividere alcune delle percezioni degli internati: sente il respiro venire meno, le gambe deboli, la morte lambirlo; poi avverte la vita riemergere prepotentemente nella forma dell’egoistico istinto di sopravvivenza dei reclusi; e viene trovato, come un reduce deperito ma ancora attaccato alla vita, dalla guardia polacca che, senza fare domande, lo riaccompagna all’uscita poco prima della chiusura del campo-museo.
Un ponte possibile
Risulta dunque evidente la possibilità di un efficace uso didattico, nella scuola odierna, di queste scritture: da un lato si prestano infatti a dar conto di alcune linee della letteratura italiana fra anni Novanta e anni Zero, dall’altro offrono la possibilità di una verifica non convenzionale dei traumi del Novecento al cospetto della più stretta attualità.
Questo viaggio in luoghi di barbarie che sono divenuti “musei di Stato” dove in misura crescente domina la ritualizzazione della memoria (Cfr. il reportage di G. Didi-Huberman, Scorze, Roma, Nottetempo, 2014), risulta reattivo allo svuotamento del senso storico non solo grazie alle memorie personali ma soprattutto per il ponte che la sua scrittura istituisce tra il passato “mummificato” e il nostro presente. Questo “ponte” è dato sia dal dialogo con i ragazzi migranti con cui il docente-scrittore quotidianamente lavora, sia dall’adozione a paradigma pedagogico di educatori, noti come don Milani, o sconosciuti che, «senza averlo mai conosciuto, né sapere niente di lui», seguono il suo esempio (E. Affinati, L’uomo del futuro, cit., p. 20): basti pensare all’imam cieco che, in Marocco, ha insegnato “l’abc” a Faris e Omar, ora suoi giovani studenti: «il ginnasta dell’adolescenza. Il timoniere degli scalmanati. L’artista dei tempi morti» (E. Affinati, La città dei ragazzi, cit., p.56).
E’, dunque, la condizione migrante ad attualizzare Auschwitz. Affinati ne dà conto soprattutto in La città dei ragazzi (2008) e in Vita di vita (2014) in cui si narrano le esperienze di insegnamento della storia e della cultura italiana ai ragazzi stranieri e i viaggi in Africa compiuti dal docente a fianco di alcuni studenti della “Città dei ragazzi”, desiderosi di ritrovare le loro radici: andare con loro a rivedere le famiglie da cui si sono separati significa portarli a ricucire gli strappi, aiutarli a risolvere le contraddizioni che quotidianamente vivono, sospesi come sono tra Africa e Europa. Osservare Omar, Faris, Khaliq nel loro mondo d’origine vuol dire restituire loro quella «rapidità percettiva degli stambecchi d’alta montagna» (Ivi, p. 37) che possono esprimere solo dove padroneggiano pienamente lingua, usi, costumi.
Tuttavia il loro sguardo sulla cultura italiana, mediato dal docente-scrittore, rinnova e vivifica la conoscenza e l’esperienza dei traumi e delle cicatrici della loro patria d’adozione e dell’Europa: crea un “ponte” tra terre storicamente legate da guerre mondiali, conflitti tribali, vicende di colonizzazione e decolonizzazione. Risulta allora emblematica la visita che Affinati organizza alle Fosse Ardeatine raccontata sul finale di Vita di vita, dopo il rientro dal Gambia:
Sfilano lenti, in rispettoso silenzio, fino al cancelletto della grotta dove i nazisti assassinarono trecentotrentacinque persone. I flash dei cellulari illuminano la scritta incisa sul muro: “Qui fummo trucidati, vittime di un sacrificio orrendo. Dal nostro sacrificio sorga una patria migliore e duratura pace fra i popoli”.
Khaliq scuote la testa. Santino mette la mano sulla spalla di Martin. Kenan procede dondolando verso la candela dove già sono arrivati Faris e Gerry. […]
Khaliq mi chiama: «Porof, eco: “Ai martiri di Talia”. Tu venuto Africa, visto Basiru, deso io qui» (E. Affinati, Vita di vita, Milano, Mondadori, 2014, pp. 159-160)
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