Dante, la psicoanalisi e i diavoli dell’inferno
1. Questo brano è tratto dal volume Psicoanalisi, critica e letteratura, che ho pubblicato per Pacini editore nel 2014. Il testo faceva parte di un più ampio capitolo che affrontava i rischi di alcune impostazioni psicoanalitiche tradizionali riconducibili ai modelli di Freud, Bonaparte, Jung e Lacan. Uno degli approcci più problematici è quello psicobiografico in cui l’interprete tenta di interpretare il testo a partire dalla ricostruzione della biografia psicologica di chi scrive. Per una volta è necessario liberare Freud da eccessivi capi di accusa. Se la forma di psicobiografismo rilevabile negli studi della Bonaparte è riferibile ad alcuni tra i più celebri studi sull’arte freudiani, l’idea che un’opera d’arte possa costituire una mappa della mente di uno scrittore era dominante già prima della psicoanalisi. Spesso, anzi, il profilo dell’artista era fatto coincidere con quello del criminale, del decadente e del degenerato, come aveva notato già alla fine dell’Ottocento lo studioso lombrosiano Nordau.
È ovvio che il Novecento costituisca, in questo senso, il secolo più fortunato per simili approcci concentrati sul destinatore: i dati biografici sugli scrittori a disposizione dei critici aumentano in maniera esponenziale; gli sviluppi di psicologia e psicoanalisi consentono di verificare le argomentazioni; le investigazioni sulla psiche trovano un terreno fertile, sfruttando l’evidente fascino che riescono ad esercitare sul grande pubblico. È effettivamente suggestivo leggere la Gerusalemme liberata pensando alla follia allucinata e depressiva di Tasso che scriveva dal manicomio del Sant’Anna. E quanto interesse possono suscitare ancora oggi le psicosi di Leopardi o Saba? Leggere la letteratura come produzione di “casi clinici” è una radicale forma di riduzionismo con cui è necessario confrontarsi. In Italia questo approccio ha conosciuto estimatori appassionati, ma anche adepti dalla cultura raffinata come Elio Gioanola. Con un autore come Dante l’operazione diventa ancora più rischiosa, eppure ci sono dei momenti in cui sembra impossibile non assecondare una simile seduzione per guardare oltre le cristallizzazioni della critica tradizionale: le avventure di Dante e Virgilio nella quinta bolgia dell’Inferno saranno dunque un banco di prova ideale per riflettere su vantaggi e rischi dello psicobiografismo.
2. Nella storia della critica dantesca il trittico di canti XXI-XXIII dell’Inferno ha costituito un nodo problematico per questioni di forma e contenutoi. Il trittico è, infatti, l’unica sezione della Commedia in cui il cammino di Dante rischia di essere interrotto. A partire dall’incontro con Virgilio nella selva, nessuna entità superumana ha potuto interrompere il cammino voluto da Dio, ma nella quinta bolgia simile concessione sembra temporaneamente sospesa e il percorso epico-figurale di Dante si colora di elementi avventurosiii. Se questi canti costituiscono dunque una lunga digressione, anche a livello tematico si registrano situazioni che non hanno equivalenti nell’intera Commedia. Proverò a procedere per punti, per poi riflettere su alcuni luoghi testuali notevoli tratti dal solo canto XXI. Il primo elemento di interesse è costituito dall’assenza di personaggi di rilievo: è vero che i poeti osservano le pene di molti barattieri immersi in un calderone di pece bollente e straziati da diavoli forniti di uncini ed artigli, ma simili scene sono popolate da personaggi minori, figure che non reggono il confronto con Francesca da Rimini, Farinata o Ugolino. Come secondo aspetto è necessario registrare la presenza (quasi l’affollamento) dei diavoli cristiani: ovviamente di diavoli sono popolati innumerevoli canti dell’Inferno, soprattutto oltre il confine della Città di Dite, ma solo a partire dal canto XXI gli angeli caduti, così come immaginati dalla cultura cristiana medioevale, si staccano dallo sfondo per diventare protagonisti. Ulteriore motivo di riflessione è rappresentato dal rapporto fra il Dante-personaggio e la struttura diegetica: Dante occupa, più che in altri punti del poema, il centro della scena, ma è anche differente rispetto al solito: «si direbbe che qui Dante sorrida nel disegnare sé stesso assai diverso dal fiero indomabile Dante che conosciamo»iii. La quinta bolgia sembra dunque attrarre e respingere i due poeti e l’attenzione che i diavoli riservano a Dante è insistentemente sottolineata:
Per ch’io mi mossi e a lui venni ratto;
e i diavoli si fecer tutti avanti,
sì ch’io temetti ch’ei tenesser patto;
così vid’ïo già temer li fanti
ch’uscivan patteggiati di Caprona,
veggendo sé tra nemici cotanti.
I’ m’accostai con tutta la persona
lungo ‘l mio duca, e non torceva li occhi
da la sembianza lor ch’era non buona.
Ei chinavan li raffi e «Vuo’ che ‘l tocchi»,
diceva l’un con l’altro, «in sul groppone?».
E rispondien: «Sì, fa che gliel’accocchi».
Ma quel demonio che tenea sermone
Col duca mio, si volse tutto presto
E disse: «Posa, posa, Scarmiglione!».
(vv. 91-105)
Ultimo elemento di novità, ancora di carattere formale, riguarda l’evidente comicità con cui è caratterizzato l’episodio. Trascurando il dibattito secolare sul Dante comico, simile notazione giocherà un ruolo importante nella ricostruzione del quadro psicologico e biografico dello scrittore.
3. Proprio in apertura del canto XXI, Dante e Virgilio si trovano davanti alla prima apparizione diabolica. È un diavolo costruito su ricordi letterari, iconografia tradizionale e spunti popolari: il piede veloce, le ali nere, i muscoli in tensione, l’omero appuntito. È un corpo in movimento, che corre figurativamente e letteralmente ad adempiere un compito a cui è condannato. Come Minosse o Caronte, è parte di una geografia disegnata dalla mente di Dio, vive nel mondo dove la gloria che tutto muove risplende di meno, ma è comunque presente. Eppure l’allegoria della Ragione che guida Dante si comporta in maniera diversa dal solito. Il personaggio di Virgilio, infatti, si arricchisce di tratti realistici che lo rendono più umano: è spaesato, perso, preoccupato. Ha bisogno indicazioni per procedere, ora che è lontano dai luoghi consueti. È spaventato nel doversi confrontare con esseri che non vengono dal suo mondo, ma che anzi un tempo occuparono i luoghi più alti dell’Empireo. Dopo aver suggerito a Dante di nascondersi dietro un grosso masso per celarsi ad un gruppetto di diavoli, Virgilio dichiara malsicuro:
«[…] per nulla offension che mi sia fatta,
non temer tu, ch’i’ ho le cose conte,
perch’altra volta fui a tal baratta».
(vv. 61-63)
Baratta: è una parola inusuale in simile contesto e, ovviamente, rimanda alla pena che espiano i peccatori della bolgia, tutti insidiatori e truffaldini che fecero cattivo uso del proprio ruolo pubblico. Ma come è possibile che l’allegoria della Ragione, che si muove in queste lande desolate solo per volere divino, usi una parola così ambigua? La baratteria è un peccato e in più una «baratta» (da considerarsi in questo caso come “contrattazione”) è possibile vincerla o perderla. Cercando di celare la propria preoccupazione, Virgilio si muove verso questi angeli neri, che lo accolgono come una muta di cani farebbe con una preda inerme. È qui che il viaggio di Dante e della sua guida si interrompe: se anche i diavoli accettano di non fare del male ai due pellegrini, decidono di mentirgli e di scortarli lontani dalla via. A ben vedere, l’operare dei diavoli è inutile, poco più che una beffa, eppure quell’allontanamento costituisce una interessante resa narrativa del concetto di digressione a cui facevo riferimento poco sopra. In realtà i diavoli non mirano soltanto a rallentare il poeta costringendolo ad errare, ma vorrebbero addirittura ghermirlo per scagliarlo nella pece bollente. Spaventato dagli sguardi minacciosi che gli rivolgono, Dante se ne lamenta con Virgilio che però gli risponde:
Ed elli a me: «Non vo’ che tu paventi»;
lasciali digrignar pur a lor senno,
ch’e’ fanno ciò per li lessi dolenti».
(vv. 133-135)
Le parole di Virgilio sono corrette, per quanto inconsapevolmente: Dante, per i diavoli, è proprio come «li lessi dolenti» e deve restare nel luogo a cui appartiene. In questo regno del compimento della figura, nel luogo dei morti in cui tutte le anime mostrano quello che si poteva solo intravedere in vita, i diavoli vedono in Dante vivo un’anticipazione del suo destino di peccatore punito nella quinta bolgia. Assecondando un cortocircuito tra piano del racconto ed eventi storici, è importante ricordare che la baratteria costituì il pretesto con cui Dante venne accusato e poi esiliato da Firenze. Mentre, sul piano della forma, la narrazione non procede, inceppandosi in una lunga digressione, sul piano del contenuto lo spavento del personaggio letterario, l’incertezza smarrita di Virgilio, la minacciosità dei diavoli, sono tutti particolari che favoriscono l’identificazione. Lo psicobiografismo entra nelle pieghe più recondite del testo forzando i limiti imposti dalla lettura e proponendo una spiegazione che tiene assieme tante anomalie. Tutto il canto è, a ben vedere, dominato da ricordi autobiografici: quando i diavoli si muovono una prima volta contro Dante la mente del protagonista corre subito ad una scena vissuta in prima persona:
Per ch’io mi mossi e a lui venni ratto;
e i diavoli si fecer tutti avanti,
sì ch’io temetti ch’ei tenesser patto;
così vid’ïo già temer li fanti
ch’uscivan patteggiati di Caprona,
veggendo sé tra nemici cotanti.
(vv. 91-96)
Simile densità autobiografica sembra favorire la forzatura psicobiografica di un luogo testuale così delicato. Persino l’interpretazione di una studiosa sempre attenta come Chiavacci Leonardi rientra a pieno titolo in simile filone. L’agitazione letteraria del Dante personaggio, l’allontanamento dalla retta via, l’insistita comicità della bolgia, sarebbero infatti tutti espedienti testuali volti a celare una preoccupazione che si agita nella psicologia profonda dello scrittore. Il movimento contraddittorio tra l’attenzione morbosa dei diavoli e lo sforzo autoriale di allontanarsi da una materia così delicata attraverso il comico portano Chiavacci Leonardi a queste conclusioni:
A render ragione della scelta singolare non resta dunque — a ben guardare — che un elemento capace di render differente, agli occhi di Dante, il peccato di baratteria da tutti gli altri. E ciò non può essere — e una lunga tradizione esegetica lo conferma— che l’elemento appunto autobiografico. […] Ma come poteva Dante «dimenticare» (e in un canto pieno di ricordi, come bene osservò il Roncaglia) il fatto che determinò tutta la sua vita?
Si pensi al centrale ricordo di Caprona — unico nel suo genere in tutta la Commedia — e alla situazione rovesciata, da ora ad allora. Dante non era uomo di facili dimenticanze. E soprattutto non dalle «dimenticanze» nasce la sua poesia […] ma, al contrario, dalla violenza della memoria: tutta la Commedia è in realtà una straordinaria testimonianza di come ogni cosa vista, udita, letta e subìta, si fermasse per sempre nella sua mente e producesse poesiaiv.
Attraverso analisi testuale, rudimenti psicologici e riferimenti a documenti storici, è possibile ricostruire uno degli episodi più oscuri nella vita di Dante, che egli avrebbe nascosto nel suo incontro con i diavoli che puniscono i peccatori di baratteria. La bolgia quinta viene allora a rappresentare la digressione in cui Dante ha scolpito una sorta di testamento psicologico a chiave, una testimonianza della sua incertezza di uomo nel cammino della storia.
4. Queste risorse, per quanto suggestive, dovrebbero essere trattate con attenzione. L’operazione della Chiavacci Leonardi offre una perfetta esemplificazione dell’approccio psicobiografico. È un modello interpretativo seducente, ma anche rischioso, perché suggerisce di ritrovare al di fuori del testo spiegazioni non sempre fondate. Le corrispondenze fra il canto XXI, la biografia e la psicologia di Dante sono di impatto immediato e sembrano capaci di svelare l’universo segreto che anima un capolavoro come la Commedia. Da Sainte-Beuve all’attuale cognitivismo, la critica estetica ha saccheggiato i dati biografici degli autori, cercando corrispondenze ed indagando cause: l’affinarsi degli strumenti a disposizione degli interpreti non ha mai portato a risoluzioni, semmai ha provocato deleterie autorizzazioni. Leggere Dante attraverso la psicoanalisi è dunque possibile e questo può contribuire ad attualizzarlo, ma l’interprete dovrebbe essere sempre in grado di distinguere fra vita, psicologia e letteratura.
i Il testo della Commedia citato successivamente è in tre volumi a cura di Anna Maria Chiavacci Leonardi: Dante, La commedia, Milano, Mondadori, 1991-1996.
ii Sull’incompatibilità del concetto di avventura nella Commedia e più in generale nell’epica si veda l’ancora fondamentale G. Lukàcs, Teoria del romanzo, SE, Milano, 1999.
iii Cfr. le pagine critiche a cura di U. Bosco e G. Reggio, Divina Commedia, Firenze, Le Monnier, 1988, p. 309.
iv A.M. Chiavacci Leonardi, Canto XXI dell’Inferno, in Aa. Vv., Lectura Dantis Neapolitana. Inferno, a cura di P. Giannantonio, Napoli, Loffredo, 1983, pp. 370-71.
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