Perché leggere Rosso nella notte bianca di Stefano Valenti
A complemento dell’intervista Stefano Valenti oggi proponiamo nella rubrica Perché leggere questo libro l’incipit del suo romanzo “Rosso nella notte bianco”, uscito nel 2016, e un approfondimento sul libro.
La tremenda immensità dei duemila metri. La distesa è intirizzita. E la neve di novembre ha cancellato arbusti, rocce, terreno. Ulisse ritrova l’ombra nebbiosa del primo mattino, un’onda immobile che divora i monti. La accoglie fermo, le braccia abbandonate sui fianchi. È arrivato in malga ieri sera. Lì, in radura, la casera bruciata. Le pareti della baita nere di fumo trascorsi ormai cinquant’anni. E l’immensità dei monti. Gli anni vissuti a ricordarli non aiutano a far memoria di che cosa nasconda quel manto di neve. Cammina nel grande abbandono, nel dislivello, verso il fondo, in direzione del bosco. Cammina morbido, a margine del Creato, oltre un cinto di abeti che fa da confine al mondo. Le campane dal fondovalle rintoccano le sei.
Infine Ulisse è tornato. Ha dormito ridestandosi in questa terra abbandonata una mattina di molti anni fa. Una terra abitata, come allora, da nemici. E cerca una traccia che conceda di ritrovare l’uomo che è stato prima di andarsene. Gli anni trascorsi altrove sono anni che non possono essere misurati. È ancora buio quando infila la mulattiera. La notte ansima, il mondo intorno prende la rincorsa, comincia a correre. Lì per lì nel sottobosco un frullo, una presenza sul terreno, tra aghi d’abete e melma. Un uccello è volato via in un batter d’ali. Le nuvole basse, a banchi, cancellano il Creato. Gli stivali affondano nel fango d’acqua e neve e ritrovano il terreno. Un guizzo, l’inatteso chiarore dell’acciaio ricurvo. L’estremità del piccone che fuoriesce dalla sacca; il tempo di fermarsi, affondare il manico di sbieco, rimetterlo dov’era.
Ha dimenticato di urinare Ulisse, e, fermo nell’intrico d’alberi, chiude gli occhi, le dita fredde sul membro ritratto. Le mani attraversate da un fremito malato e l’alito caldo dell’urina nella neve color canarino. Nella sacca l’ultima bottiglia buona a cacciare la febbre, la fatica brutta della malattia. La necessità di vodka, di non addormentarsi fin quando la bottiglia sarà vuota. Ulisse, un metro e ottanta di fatica, ha quasi settant’anni ma non dà l’idea di essere affaticato, pallido forse, le fattezze del condannato confuse nella mente. L’alternarsi caotico di incubi e orrore ha cancellato i volti, come se niente avesse nome in queste incerte giornate. Ricorda orridi, rii in secca, mastodontici blocchi di roccia, ricorda le bestie sulla mulattiera, ma non ha memoria di volti.
La mente è un incendio, un dolore forte, come un roditore che rosicchi il dentro del cranio; nel folto del bosco urta rami, fronde, e friziona il volto con un manciata di neve. È un toccasana il freddo, circoscrive il tormento, il rosicchiare, il mal di testa, veemente questa volta, forte da cavare il fiato. E dentro la testa le voci. È reale il frastuono e tutto accende. Pensieri veloci come pensieri, forme brevi, senza eco né coda, pensieri veloci come fitte, barlumi di giorno che irradiano malinconia. Ulisse si commuove della vita e tutto prende paura.
[…]
Il centro abitato nel fondovalle è un catino immacolato. Una manciata di minuti e sarà tutto finito. Ulisse esita tra le prime abitazioni. Ne esce senza considerarlo una donna anziana vestita di nero. Un cane si avventa sul cancello abbaiando. La neve adesso è un diluvio di bianco; non un suono, non un fremito, dietro tendine di case calde, dietro tendine di case indifferenti.
[…]
Le voci maschili e le voci femminili discutono tra loro. Le voci commentano, raccomandano, ordinano. E da quel mal bianco, in bilico nelle luminarie tutte intorno, esce un uomo anziano. Gli occhi sono fessure quando arriva davanti a Ulisse, che, in un movimento unico delle braccia, distesa al suolo la sacca, afferra a due mani il piccone, prende l’abbrivio e precipita un violento fendente. E il Ferrari crolla a terra senza un rumore, la testa dischiusa come un buccia d’anguria.
(S. Valenti, Rosso nella notte bianca, Milano, Feltrinelli, 2016, pp. 15-18)
Perché rappresenta la persistenza del trauma storico
L’omicidio del compaesano Mario Ferrari da parte di Ulisse Bonfanti, costituisce ai suoi occhi, anche a distanza di cinquant’anni, un’«azione di Guerra» (p.109), necessaria a risarcire una violenza subìta e mai passata al vaglio della giustizia.
Attraverso i flashes memoriali di un uomo vittima, fin dalla giovinezza, di disturbi psicotici, si ricostruisce la tragedia vissuta nel corso della guerra partigiana. Una notte, la brigata nera capitanata da Ferrari irrompe nella baita dei Bonfanti per scoprire dove si sia nascosto il giovane Ulisse, fuggito sui monti con la formazione Matteotti. I neri bruciano la stalla e le bestie, violentano la sorella Nerina che, a guerra conclusa, si toglierà la vita. I superstiti di questa tragedia, Ulisse e la madre Giuditta, scelgono di lasciare la Valtellina. Inizia così la loro vita da operai nel cotonificio della Valsusa, vita che non è meno faticosa di quella in montagna, ma che almeno permette loro di alzare la testa, di partecipare alle lotte di fabbrica, di rivendicare dignità al loro lavoro. Tuttavia da allora Ulisse convive con il senso di colpa per aver determinato il destino della sorella, esacerbato anche dalla consapevolezza che, a causa del rapido voltagabbana del dopoguerra, i responsabili di quel crimine non sono mai stati puniti: da ciò trae origine l’esplosione di violenza raccontata nelle prime pagine.
Perché il protagonista è in dialogo con i suoi fantasmi familiari
Ulisse è un personaggio dai difficili rapporti sociali: solo i fantasmi familiari – la madre e la sorella – diventano suoi interlocutori e fanno maturare un senso di giustizia che si tradurrà in vendetta.
La madre Giuditta, sposa a diciotto anni grazie al «mediatore» (p.44), accetta la vita «da bestia» che tocca alle donne in una Valtellina aspra e inospitale, durissima per una comunità contadina povera dominata da una parte dal ritmo delle stagioni e dall’altra dai dettami religiosi. Tuttavia, schiacciata dal dolore per la perdita della figlia, cercherà riscatto lavorando in fabbrica, orgogliosa del suo primo sciopero, vissuto a cinquant’anni e sarà di esempio per l’affermazione della propria dignità anche da parte del figlio: «Nei monti la donna ha il valore della bestia, meglio perdere la donna e non la bestia, che la bestia è tutto per il contadino, la donna niente. […] E, diceva Giuditta, nei monti non tornerei a viverci, che in fabbrica la donna è libera in confronto» (p.41)
Nerina è, invece, figura idealizzata e fantasmatica: è forse l’unico personaggio del libro privo di rancore. Presenza eterea, assiste al funerale della madre comandando una «moltitudine di creature celesti, ambasciatori divini» (p. 36); rievoca la violenza subìta e lo stato catatonico in cui cade nei mesi successivi senza imputare la colpa a nessuno. Resta, per Ulisse, la figura da vendicare, vittima innocente di un’insensata violenza storica: «Nerina, dovevamo andarci coi ribelli, coi ribelli dovevamo andarci a forza, di possibilità diverse non ne avevamo, non ne avevamo di possibilità. Nerina, anche se ho avuto il pentimento tutta la vita che se non andavo nei monti coi ribelli tu forse eri ancora viva, Nerina mia» (p. 62).
Perché il flusso di coscienza del protagonista è sospeso tra oralità e lirismo
In questo romanzo la tensione espressiva di Ulisse e degli altri personaggi è perfettamente bilanciata tra la resa dell’oralità, tipica di parlanti al limite dell’analfabetismo (come attesta l’insistito uso del “che” polivalente) e un lirismo scarno e ritmico: le ripetizioni, le inversioni, le strutture chiastiche del periodo conferiscono efficacia a un dettato essenziale che coincide con l’instancabile flusso di coscienza del protagonista.
Perché sono riconoscibili modelli novecenteschi rilevanti
Fin dalla citazione posta in esergo e tratta da Una questione privata, è evidente la lezione di Beppe Fenoglio. Essa spicca nella descrizione della durezza della vita contadina sulle montagne: il Fenoglio della Malora emerge nel racconto della fatica e del silenzio, in quello delle morti premature, in quello di un’asprezza senza fine nel condurre l’esistenza. Nella Valtellina di Valenti rivivono, insomma, le Langhe di Fenoglio. Ma anche i suoi racconti partigiani sono punto di riferimento ineludibile per Valenti: l’insistita richiesta del vecchio a Milton di uccidere tutti i neri, di ammazzarli perché «la morte […] è la pena più mite per il meno cattivo di loro» riecheggia nella mente di Ulisse per cinquant’anni: «Dice di non essersi mai liberato dall’incubo della violenza subita, dice di non temere il carcere. Dice che in tutti questi anni ha desiderato vendicarsi» (p. 109).
Per la rappresentazione della vita operaia,Valenti sembra rifarsi soprattutto al Volponi di Memoriale: a tratti Ulisse è, come Albino Saluggia, un contadino-operaio mai davvero convertitosi alla fabbrica, come lui travolto dai «problemi della paga oraria, del cottimo, del posto qui o là» (P.Volponi). Le sue parole sembrano tornare nelle rivendicazioni di Ulisse e dei compagni: «Col cottimo dovevi correre, noi correvamo ma la retribuzione, quella rimaneva ferma, dice Ulisse. E abbiamo anche avuto la serrata del padrone, che aveva deciso di non farci entrare in fabbrica» (p. 60)
La lezione del Fortini di Foglio di via è invece evidente nella rappresentazione di un’emancipazione tradita; esemplare a questo proposito il seguente passaggio: «il Partito e la fabbrica mi hanno educato e adesso sono meno analfabeta […] il mondo è governato dal conflitto di classe e dalla prevaricazione, e di questa cosa è arrivato il momento che deve finire» p. 116. Fortini ispira, dunque, il risentimento di Ulisse nei confronti di una «troia Italia» (p. 107) pronta a mistificare la verità sul suo passato più recente. Infine l’eco di Nuto Revelli riemerge nel parlato popolare e nell’impasto orale che costituisce il tratto linguistico caratterizzante l’intero racconto.
Perché contamina cronaca e invenzione narrativa
A partire da un fatto di cronaca occorso nel mantovano e da una fitta documentazione (Cfr. Nota dell’Autore, pp, 121-122), nasce quello che Valenti definisce «un romanzo testuale», ossia una storia che trae origine da altri libri, con l’intento di far riemergere traumi storici non sanati e di individuare il nesso tra questi e le aporie del presente. La ricostruzione del “cuore di tenebra” che genera il delitto iniziale avviene attraversando il delirio e la psicosi di Ulisse, personaggio la cui follia ha tratti modernisti, anche se la sua parabola di vita è in gran parte simile quella dei “vinti” di «conio realista» (A. Ferracuti).
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