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diretto da Romano Luperini

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Un classico difficile (Petrarca) in una scuola difficile

 Come giapponesi sull’isola deserta

Capita sempre più spesso, soprattutto negli istituti tecnici o professionali ma oramai anche nei licei, di incontrare colleghi che dichiarano sconsolati la morte scolastica di autori ritenuti oramai impresentabili in certi contesti, al netto dei programmi e delle buone intenzioni di qualche insegnante che prova a resistere come il giapponese sull’isola deserta. In questo intervento proverò a condividere quella che è la mia esperienza sul campo in merito al tentativo di tenere in vita, specie nelle scuole difficili, l’autore ritenuto meno amato dei tre grandi del terzo anno: Francesco Petrarca. Porto a credito la testimonianza che si tratta di un percorso sperimentato più volte e per quanto mi riguarda consolidato dal punto di vista del successo didattico. Porto a debito il fatto che si tratta di una proposta personale, in quanto tale discutibile nei presupposti e nelle scelte compiute. Ma in fondo il senso è quello di condividere esperienze reali secondo una logica induttiva, per trarne il buono possibile o in modo parimenti utile per analizzarne i punti critici. Francesco Petrarca dunque: proviamo a raccontare come tentare di farlo sopravvivere alla prova della classe.

Il pensiero sull’autore

Il primo e decisivo passo che mi sembra di dovere compiere, ogni volta che mi accingo a portare in classe un autore nuovo, avviene a casa, sul mio tavolo di lavoro. Si tratta anzitutto di mettere ordine nel bagaglio personale di conoscenze, di rispolverare il patrimonio che ogni insegnante detiene o dovrebbe detenere, rinfrescarlo o ristudiare se necessario, al fine di riportare a lucido quello che chiamo un po’ pretenziosamente il mio pensiero sull’autore. Provo a spiegare. Alla base della possibilità di trasmettere e rendere materia viva un autore e la sua opera, tanto più in un contesto problematico, c’è per quanto mi riguarda la comprensione approfondita di quell’autore e di quell’opera fino a sentirli propri, tali da poterli far transitare quasi per osmosi ai destinatari di quel sapere. Questa affermazione, apparentemente banale, andrebbe valutata meglio se si inizia a considerare che non è affatto detto che gli insegnanti, anche dopo anni di formazione e poi di scuola, possiedano bene la materia del loro insegnare, se non altro per la sua vastità e che se anche quel possesso sia consolidato, vada sempre ricontestualizzato e rivitalizzato all’infinito, a ragione del mutare perenne dei destinatari di quel sapere. Da questo punto di vista l’insegnante è per definizione un soggetto che accetta di passare la vita a studiare ininterrottamente e in modo forsennato. Nel caso specifico di Petrarca, chiamare all’appello il mio pensiero sull’autore significa tirare fuori dal mio armadio o ristudiare se necessario alcuni capisaldi su cui costruirò la mia azione didattica. Provo a elencarli, al fine di essere ancora più chiaro. Anzitutto so che Petrarca viene dopo Dante e so che il passaggio per gli studenti è ostico. Ma so anche per esperienza che quello che apparentemente è un brutto ostacolo nasconde in realtà un potenziale valore aggiunto, decisivo alla prova della classe. Petrarca è sfuggente, irrisolto, contraddittorio perché si affaccia sulla modernità. Dall’io integro di Dante dove bene e male trovano collocazione naturale in un sistema morale definito, con Petrarca la coscienza diventa moderna, quindi terremotata: bene e male si fondono e si confondono pur facendosi resistenza a vicenda. Nasce la scissione, il conflitto, la guerra dell’io. Petrarca è la lacerazione interna, è San Paolo che non compie il bene che vuole, ma il male che non vuole, è la rinuncia alla possibilità del sistema. Se il sogno di integrare se stesso alla città di Dio è medievale, l’esito è del tutto moderno e coincide con l’irrisolutezza finale del Secretum. Ecco. Questo è un primo panorama notevole. Mi servirà in classe. Lo dirò così in classe? Ovviamente no, mi tirerebbero le sedie (tanto per non perdere memoria). Ma la bussola del mio procedere didattico sarà orientata verso questo primo luogo perché sono convinto che nonostante tutto sia una meta che possa muovere gli studenti: la tensione petrarchesca è didatticamente spendibile perché in potenza dialoga con l’adolescente che prova a domandarsi chi sia senza riuscirci ma scoprendosi un guazzabuglio primordiale di contraddizioni. Complicato? Tra dire e il fare c’è di mezzo la classe? Non interessa a questo livello, sono ancora a casa mia sul mio tavolo. L’importante è che abbia le idee chiare io, il modo di tradurre il tutto in classe lo concretizzerò poi, ora è il momento del pensiero, è il momento delle idee. Un secondo patrimonio da rispolverare è nell’evidenza di cosa determini questo nuovo approccio all’io. Si tratta di focalizzare elementi fondativi per l’intera cultura occidentale. Nasce un nuovo linguaggio, un linguaggio specifico della poesia che non può che essere frammentario e non sistemico. Nasce l’esigenza del racconto di sé: Petrarca racconta all’infinito la propria vita, la racconta attraverso i filtri dell’autobiografismo e della memoria rappresentativa. L’oggetto di tale narrazione è l’esilio, che da quello dantesco politico e civile diventa interiore, assume le tonalità dell’espulsione dalla vita e dell’estraneità esistenziale. In questa condizione si palesa in modo eclatante un nuovo continente, quello dell’interiorità, territorio a quel tempo inabitato dalla letteratura e oggi sovraffollato fino alla sparizione dei propri confini. Questo è un secondo approdo ideale notevole. Mi servirà in classe. Lo dirò così in classe? Ovviamente no, mi tirerebbero le sedie rimaste. Ma la bussola del mio procedere didattico sarà orientata anche verso questa seconda meta perché so che anche questa è una vetta ostica da raggiungere ma potenzialmente ospitale agli studenti: l’indagine petrarchesca dell’interiorità è didatticamente spendibile perché in potenza dialoga con l’adolescente che prova a districarsi tra le domande di senso della propria età, patendone l’eterna irrisolutezza. Complicato? Anche in questo caso poco interessa a questo livello l’altezza ingente dell’obbiettivo, sono ancora a casa mia sul mio tavolo. L’importante è che veda io l’orizzonte giusto, il modo di tradurre il tutto in classe lo concretizzerò poi, ora è il momento del pensiero, è il momento delle idee. Questo lavoro andrebbe fatto in modo esaustivo e senza paura di esagerare. Il conoscere mille per passare dieci conserva il buono del buon senso, in modo direttamente proporzionale al grado di difficoltà del contesto. Di questo sono convinto fino al punto di affermare, fuori dal paradosso, che occorrerebbe conoscere in modo magistrale la letteratura in misura ben maggiore per portarla in un istituto professionale piuttosto che in un liceo classico. Tornando alle mie idee su Petrarca, potrei orientarmi poi verso altre direttrici importanti: dalla straordinaria novità della rappresentazione femminile, al passaggio epocale della fine del mondo medievale, dal conflitto con la gloria terrena, fino alla ridefinizione del rapporto con l’assoluto. Ma anche rimanendo alle due mete appena descritte avrei già materiale sufficiente per passare alla fase successiva, quella della pianificazione didattica vera e propria. Il punto è un altro. Alla fine del mio privato lavoro preparatorio, il mio pensiero sull’autore dovrebbe essere chiaro e per quanto mi riguarda inattaccabile, interessante, vivo. Del resto mi sto preparando insieme all’autore stesso alla guerra dell’aula. Devo conoscere a fondo il mio compagno per poi saperlo guidare. I suoi punti di forza, i suoi punti deboli. La sua capacità di resistere, la sua possibilità di sorprendere. Capire quando e come cosa fargli dire. E questo richiede tempo, preparazione, vero e proprio amore per compagni di lotta anziani anche sette secoli.

Si ballerà per otto ore e più

E poi si entrerà in aula. Ipotizziamo una classe sufficientemente recettiva e addomesticata. Poniamo che abbia deciso di potere dedicare a Petrarca otto ore. Diamo per assodata la parte preparatoria personale alla ricerca del mio pensiero sull’autore, di cui sopra. Tutto dovrebbe essere pronto sebbene tutto non sarà mai pronto, comunque so che a un certo punto dovrò aprire la porta della classe con Petrarca Francesco al mio fianco. Per le prime tre ore di lezione avrò un obbiettivo chiaro: provare a rispondere a una domanda enorme ma semplice: «chi è Francesco Petrarca?». Lo farò a partire da un cappello introduttivo in cui, al di là del modo in cui lo vorrò fare, dovrò arrivare a fissare le cose importanti che impareremo: per quanto mi riguarda ciò avverrà sulla lavagna e sul quaderno degli appunti degli studenti. Grosso modo si tratterà di anticipare quelle che saranno le mete che mi sono prefissato a casa. Ancora più nel dettaglio, nel caso di Petrarca, i traguardi esplicitati saranno quattro:

1) La scoperta dell’interiorità e del dissidio interiore.

2) Un nuovo e decisivo linguaggio per raccontare l’amore.

3) La nascita della modernità come messa in discussione del problema del bene e del male.

4) La nascita della figura dell’intellettuale umanista.

Sulla presentazione di questi quattro punti spenderò il meglio delle parole che potrò mettere insieme, frontalmente, per non più di dieci minuti. Gli studenti mi ascolteranno se sarò scaltro e lucido, ma comunque raramente si fallirà a questo livello, paradossalmente perché quanto si propone è alto e niente funziona meglio dell’esplicitare lo stare per esporre concetti «forse troppo alti per voi», perché è nuovo, perché a ogni inizio c’è un credito di attenzione che anche la peggiore classe concede all’insegnante. Quindi si inizierà davvero, con il racconto della vita. Nel modo che ci è più congeniale, frontalmente, capovolti, con l’ausilio multimediale della NASA, con la penna e il calamaio, in giardino, in palestra, seduti a testa in giù: la vita degli autori va portata in classe. Perché? Perché agli alunni interessa, e questo prima ancora che una convinzione didattica è per quanto mi riguarda un dato statistico per me assodato. E poi anche perché rimango convinto che conoscere l’uomo dietro l’opera sia da sempre uno dei diritti legittimi di ogni lettore, libero o costretto che sia. Nel caso del nostro, si potrebbe, lim permettendo, partire dalla foto della presunta casa natale o da una delle tante rappresentazioni di Arezzo nel medioevo (S. Francesco caccia i demoni ad Arezzo, Assisi, basilica superiore). Si potrebbe vedere Petrarca stesso, perché no (l’affresco del Gozzoli a Montefalco o Andrea del Castagno agli Uffizi). Ma soprattutto come non sfruttare quell’opportunità meravigliosa che è la Lettera ai posteri per familiarizzare con un autore che quasi sette secoli fa già faceva di tutto per proporsi come fintamente friendly:

“Ti verrà forse all’orecchio qualcosa di me; sebbene sia dubbio che il mio povero, oscuro nome possa arrivare lontano nello spazio e nel tempo. E forse ti piacerà sapere che uomo fui o quale la sorte delle opere, soprattutto di quelle la cui fama sia giunta sino a te e di cui tu abbia sentito vagamente parlare”.

Quindi si tirerà avanti, si arriverà ad Avignone. Se la cattedra è Italiano-Storia si dovrebbe avere già trattato la cattività avignonese. Apro parentesi: nella cattedra Italiano-Storia del triennio il parallelismo diacronico dei due programmi è praticamente servito su un piatto d’argento, eppure spesso e volentieri siamo proprio noi docenti a non sfruttare quest’opportunità meravigliosa creando sfasature del tutto evitabili, dovute spesso alla poca capacità di organizzare bene i programmi. Tornando al periodo avignonese, questa fase offre appigli interessanti: la questione degli ordini minori (tradotto: come mantenersi al prezzo di diventare mezzi preti), la vita del palazzo di Avignone, ma soprattutto e ovviamente Laura. Chi era? È esistita? Non è esistita? Che rapporti ebbe con il nostro? E poi Valchiusa, i capelli biondi, le radure nascoste. Insomma, c’è di che saper gestire per tenere viva l’attenzione. E Laura sì, Laura no è argomento di sicuro appeal. Arrivati a questo primo livello potrò già introdurre uno stop al racconto della vita e anche alla lezione: verosimilmente sarò arrivato al passaggio tra la prima e la seconda ora e sarà necessario il tempo di una piccola pausa strategica. Nella seconda ora introdurrò il Secretum come prima carta buona. Perché il Secretum? Perché dovremmo essere già abili, sì, dopo giusto un’ora di lezione, a poter attaccare la prima vetta importante. L’intento sarà quello di arrivare al termine della seconda ora lasciando i ragazzi sospesi nell’irrisolutezza sublime che è l’oro di quest’opera. Un po’ come quando si raggiunge una cima e si gode del panorama ma anche ci si intimorisce dell’altezza raggiunta, dovrò essere bravo a fare percepire il dislivello affrontato. Si spiegherà velocemente di che opera si tratta, si daranno e si appunteranno giusto i dati essenziali, si chiariranno i personaggi e in merito ad Agostino, che sicuramente non conosceranno, basterà raccontare il poco di una vita maledetta, spaccata in due dalla conversione, poi divenuta santa. Non ci si dimenticherà di sottolineare come il personaggio della Verità stia sempre zitto e di quanto questo fatto sia importante. Soprattutto si tenterà di arrivare il più presto possibile al testo. Nel mio caso sono solito partire da alcuni passaggi significativi della fine del libro secondo, dove emerge nitidamente il tema dell’inquietudine personale, che Francesco imputa alla propria condizione terrena, mentre Agostino sottomette quella condizione infelice all’arbitrio della propria interiorità:

“Chi potrebbe esprimere convenientemente la noia e il disgusto quotidiano della mia vita, la città più infelice e inquieta di tutta la terra, la più angusta e profonda sentina onde traboccano le sozzure del mondo intero?”

A questi aggiungerò alcuni passaggi più estesi, magari tratti dalla parte iniziale del libro terzo, dove emerge nitidamente il conflitto insanabile tra Francesco e la propria coscienza resa viva da Agostino, in merito all’amore per Laura:

“Agostino: Ha distolto il tuo animo dall’amore dei beni celesti, ed ha volto il tuo desiderio dal Creatore alla creatura. E questa sola è stata sempre la via più facile verso la morte.

Francesco: Ti prego, non sentenziare con troppa fretta: il suo amore giovò senz’altro a farmi amare Dio”.

Il materiale, se ben scelto e proposto, sarà ottimo per intavolare una discussione in classe, a patto che si possieda l’abilità di gestire una discussione in classe. La partigianeria degli studenti verso Francesco non andrà data per scontata se l’insegnante saprà essere abile al punto giusto. Si potrà dibattere di evidenza e di negazione della stessa, del peso dell’angoscia, di come questa sia ben diversa dalla paura. Se va bene si potrà arrivare alla fine della seconda ora che ancora si sta litigando, se la risposta invece risulterà fiacca si potrà anticipare la seconda lettura strategica prevista per la terza ora di lezione: la lettera che tutti conosciamo come Ascensione al monte Ventoso. Anche in questo caso basteranno pochi passi, il tema caldo è il confronto con il fratello Gherardo che fila spedito fino alla vetta in opposizione significativa al procedere obliquo e tergiversante di Francesco. Ovviamente il focus sarà sempre quello dell’irrisolutezza, della difficoltà a scegliere, della fatica di poterlo fare. Irrinunciabile il finale con la lettura a cima raggiunta, del brano tratto da Le confessioni:

“Mentre ammiravo questo spettacolo in ogni suo aspetto ed ora pensavo a cose terrene ed ora, invece, come avevo fatto con il corpo, levavo più in alto l’anima, credetti giusto dare uno sguardo alle Confessioni di Agostino, dono del tuo affetto, libro che in memoria dell’autore e di chi me l’ha donato, io porto sempre con me: libro di piccola mole ma d’infinita dolcezza. Lo apro per leggere quello che mi cadesse sott’occhio: quale pagina poteva capitarmi che non fosse pia e devota? Era il decimo libro. Mio fratello, che attendeva per mia bocca di udire una parola di Agostino, era attentissimo. Lo chiamo con Dio a testimonio che dove dapprima gettai lo sguardo, vi lessi: «e vanno gli uomini a contemplare le cime dei monti, i vasti flutti del mare, le ampie correnti dei fiumi, l’immensità dell’oceano, il corso degli astri e trascurano se stessi»”.

L’ultima parte della terza ora di lezione servirà a fare il punto, come sempre anche fisicamente, sulla lavagna e sul quaderno. Si sintetizzerà nel modo che ci è più congeniale quanto raggiunto, si evidenzieranno i punti fondamentali, si recupereranno eventuali passi importanti sfuggiti durante la dialettica didattica. Si dichiarerà infine il termine del primo blocco di lezioni, si assegnerà un lavoro e per quanto mi riguarda tornerò a casa sul mio tavolo a fare un primo bilancio, per correggere il tiro rispetto a quanto preparato preventivamente senza il riscontro della classe che ora avrò e dal quale non potrò prescindere, in vista della quarta e quinta ora di lezione. Al ritorno in classe si concluderà brevemente il racconto della vita per mantenere una continuità con il territorio delle tre ore precedenti. Il tempo di parlare degli anni della consacrazione poetica, dell’infatuazione per Cola di Rienzo e del cosmopolitismo, si arriverà dritti dritti ad Arquà fino alla chiesa di Santa Maria Assunta. Ma la quarta e quinta ora serviranno ad altro, ovvero al tentativo di tentare la seconda vetta fissata: il racconto della nascita di un nuovo linguaggio. Da questo punto di vista non c’è troppo da inventare: bisognerà far parlare l’autore quella lingua, la sua lingua. A noi competerà giusto il decidere cosa fargli dire, tradotto, scegliere i testi da portare in classe. Nel mio caso parto sempre ex abrupto e posticipando il discorso sulla genesi e struttura del Canzoniere dal sonetto Solo et pensoso i più deserti campi. Perché è un testo accessibile ma importante, perché introduce già l’idea di luogo interiore su cui sono solito soffermarmi a lungo, perché racconta una natura del tutto piegata all’io, perché presenta una struttura binaria simbolica dello stallo, del tutto antitetica alla perennemente risolutiva terzina dantesca. A questa affianco Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono, perché contiene, in continuità con il sonetto precedente, il tema enorme e affascinante dell’errare, perché quel voi è un io che si apre all’ universalità, perché per la prima volta una poesia chiama non alla didàssi ma all’identificazione emotiva. Ovviamente dovrò sapere trovare le parole giuste per affrontare insieme ai ragazzi ciò che sceglierò e che dovrò saper leggere analizzare e commentare secondo una modalità ricorrente e consapevole. Senza dovere necessariamente dichiararlo, potrò farlo utilizzando l’ordine logico previsto dal modello dell’analisi del testo che si troveranno ad affrontare un giorno all’ Esame di Stato. Non tutte le sovrastrutture didattiche sono orpelli, e il potere analizzare un testo secondo i tre gradi progressivi di comprensione, analisi e interpretazione conserva una logica sensata e utile. Nella quinta ora di lezione faremo finalmente ordine e proveremo a ricostruire insieme la struttura del Canzoniere, ma sapendo a questo punto di che pasta sia fatto. Partirò dall’analisi sulla lim di una pagina del Codice degli abbozzi per mostrare come sia stata sofferta e artigianalmente vera la lotta per il raggiungimento di una forma definitiva. Parleremo del titolo, della struttura, faremo un elenco utile dei temi presenti, dando fondo al mio personale corredo di strategie e metodologie didattiche. Il tempo di assegnare un lavoro di rinforzo per casa e ci si aggiornerà per l’inizio della discesa verso valle. Dalla sesta ora in poi si darà briglia sciolta alla voce del poeta. Ormai il metodo sarà chiaro, la direzione pure, ci troveremo tra il secondo e il terzo punto del che cosa impareremo fissato all’inizio: si leggeranno a oltranza i versi di Petrarca. Per quanto mi riguarda, con la libertà di cambiare ogni anno, perlomeno Erano i capei d’oro a l’aura sparsi; Chiare fresche et dolci acque; Italia mia, benché parlar sia indarno; Movesi il vecchierel canuto e bianco; Pace non trovo, et non ò da far guerra; O cameretta che già fosti un porto; La vita fugge, et non s’arresta una hora; Vergine bella che di sol vestita.

Un miracolo preparato con scienza

Passaggio degno di massima attenzione, sarà questo il momento in cui si potrà dare spazio a un’improvvisazione didattica ragionata. Non quella deleteria dovuta all’entrare in classe senza saper cosa fare e inventando lì per lì qualcosa, quanto quella che può fiorire all’interno di un terreno ben preparato e dissodato, dove poi a ragione si potrà lasciare spazio all’emergere spontaneo di sollecitazioni che nascono in classe dagli studenti, a partire dalla lettura e interpretazione dei testi e a cui si decide di dare rilievo: una vera e propria comunità ermeneutica. È questo in potenza una dei momenti più gratificanti, dove sarà la classe a guidare l’insegnante con le sue reazioni verso territori magari imprevisti, è questo il momento in cui si riuscirà ancora a sorprendersi per quanto si vedrà d’improvviso fiorire dalla stura di un verso o di un concetto vecchio secoli che attecchisce sul presente dei ragazzi. Sarà questo il momento in cui si potrà godere della bellezza di sentire i classici vivi e di sentire i ragazzi vivi grazie a un classico. Sarà questo uno dei momenti in cui si capisce di fare il mestiere più bello del mondo. Arrivati alla settima e ottava ora, anche se molto verisimilmente la rassegna dei testi potrebbe aver dilatato i tempi a qualche ora in più, si recupereranno le falle ancora presenti attraverso un’analisi più specifica del linguaggio, del valore delle opere minori, della nuova figura di intellettuale inaugurata con il modello petrarchesco. Infine si tireranno le somme con una sintesi ragionata dell’autore nel suo complesso, ma sì, anche con una mappa concettuale, ma mai senza prima aver presentato quella che per i miei alunni è la pagina difficile. Per pagina difficile intendo semplicemente la consuetudine di presentare qualche contributo finale di critica letteraria, al fine di valorizzare le eventuali eccellenze, o nel caso di classi pessime, di metterli comunque difronte e per un istante all’evidenza di linguaggi importanti che li superano infinitamente ma che comunque esistono e chissà se un giorno germini in loro la tigna per provare a decifrarli. Nel nostro caso e per quanto mi riguarda sono ricorrenti la pagina continiana sul plurilinguismo dantesco e sull’unilinguismo petrarchesco, accompagnata magari da quella sul rapporto tra natura e paesaggio nella lettura di Hugo Friedrich, oppure qualche contributo di Marco Santagata.

Luoghi bellissimi

Si farà, si dirà, si leggerà. Faranno, diranno, leggeranno. Ma davvero ne usciremo vivi? Volutamente ho proiettato in un futuro ipotetico l’esito di un programma di lavoro che in fondo non conta nemmeno tanto rivendicare come effettivamente sperimentato dal sottoscritto con esiti felici: non servirebbe affatto a stemperare le inevitabili riserve di chi ha letto o le altrettanto inevitabili proiezioni di reazioni del tutto diverse della propria classe a un modo di procedere come questo. È giusto che sia così, fa parte del conflitto delle interpretazioni e del mettersi a confronto. Mi si passi però di rivendicare almeno tre considerazioni finali. La prima ha a che fare con il pregiudizio nemmeno troppo velato che in fondo oggi come oggi provare a fare letteratura, perlomeno in certe scuole, sia un esercizio destinato al fallimento, utopico e irrealistico. Non starò a sindacare sul non senso di tale non detto oggettivamente assurdo, per lo meno finché esisteranno ancora programmi ministeriali che al netto di ogni perché continueranno a prevedere, guarda un po’, lo studio della letteratura anche in certi famigerati ordini di scuola. Se un’idea strisciante del genere è sempre più montante nel mondo della scuola e io dico, soprattutto tra noi stessi insegnanti di quelle materie, un perché ci sarà e di certo andrà indagato. Ma in questa sede mi piace rivendicare a riguardo il potere invece dire che «sì, si può fare letteratura, si possono fare i classici e farli bene in modo che funzionino, anche e soprattutto nelle scuole difficili». La seconda è che tale convinzione poggi su basi solide, realistiche e non ingenuamente romantiche. Per fare letteratura è anzitutto vitale indagare e sperimentare tutte le possibili vie didattiche, vecchie e nuove, che possano fare al nostro caso, fortificare tutto l’apparato che sostiene l’interazione emotiva tra docente e discente e che regola le dinamiche oltremodo complesse di un gruppo classe. Questo è fuori discussione. Al pari però mi si consenta di affermare come per fare letteratura occorra tornare anche a studiare e amare seriamente la letteratura e la sua esigenza vitale di essere trasmessa. Solo a partire dalla riscoperta perenne della bellezza di ciò per cui abbiamo deciso di spenderci per una vita lavorativa intera, riusciremmo forse a innescare tutto il meglio delle strategie, dell’inventiva, della credibilità che porta al successo di un dialogo didattico. Che la bellezza della letteratura nasca per noi insegnanti dallo studio perenne e continuo, questo non può essere taciuto. Infine, terza considerazione, la necessità di renderci disponibili al tornare a sorprenderci. Tornare cioè a stupirci di cosa possa innescare una pagina, un verso, il tentativo di ricercare senso attraverso il bello sottratto alle pieghe del tempo e rimesso a nuovo difronte alla vita di un ragazzo. Se ci renderemo aperti a questa opzione e ne imboccheremo il sentiero stretto, potremo vedere di certo ogni tanto le sedie volare, e questo lo metteremo sempre in conto, ma forse potremo anche arrivare a vedere, insieme ai nostri ragazzi, vette di luoghi incredibili e bellissimi.


Fotografia: G. Biscardi, Letture, Palermo, 2014.

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