A margine dell’esame di stato 2016. Dalla periferia
Ho partecipato agli esami nel ruolo di presidente di una commissione che doveva esaminare gli studenti di liceo classico di due scuole antitetiche per collocazione geografica e per statuto giuridico: il paritario “Istituto Sociale” dei Gesuiti di Torino e il liceo pubblico “Norberto Rosa” di Susa, frequentati rispettivamente da studenti metropolitani agiati e da ragazzi residenti in piccoli paesi di montagna, nella valle ormai nota per la strenua opposizione alla TAV.
La confrontabilità dei risultati sarebbe legittimata dalle materie comuni previste dall’indirizzo classico, dalle conoscenze specifiche accertate, dalle competenze espressive e critiche di cui i candidati hanno dato conto. Ma non è di questo che intendo parlare. Ad esame concluso, altri insegnanti si sono già espressi sulle osservazioni di chi, nei giorni degli scritti, ha giornalisticamente coperto il rito mediatico dell’Esame di Stato riproponendo il solito copione sui costi di una prova inutile. Alcuni hanno condiviso anche l’ipotesi di negare il valore legale dei titoli di studio, anacronistico orpello residuale secondo i sostenitori della competizione meritocratica (cfr. l’articolo di Francesco Rocchi, Contro gli esami di stato, pubblicato su Le parole e le cose il 12 luglio us). Lo storytelling dell’ennesima riforma della scuola, predisposta per adeguare la formazione di base alle esigenze del mercato del lavoro (poco importa se questo non c’è!), punta sull’accountability: se la valutazione non sa misurare l’efficacia di obiettivi definiti e procedure standard, non serve. Al centro dell’interesse – e dell’attacco – c’è il sistema istruzione, un asettico grande tabulato di dati anonimi, tradotti in grafici colorati, ai quali gli stessi insegnanti si appellano per rinfrancarsi della noiosa ripetizione dei loro singoli atti. In merito alle prove finali, quand’anche si riconosca l’impegno individuale di studenti e commissari, poiché esse statisticamente confermano il già acclarato dalla valutazione interna, vengono liquidate come patetica pantomima, spreco (cfr. ancora l’articolo di Francesco Rocchi, cit.): un nichilismo diffuso nella scuola e fuori che tuttavia non comprende la totalità degli insegnanti. Dunque, concluso l’esame in un indirizzo di studi sempre più marginale nel sistema scolastico, in scuole periferiche per topografia e per tipologia, propongo alcune riflessioni che scaturiscono dal lavoro in commissione, risultato interessante per la vivacità dei candidati e per la competenza dei colleghi.
È innegabile: l’esame terminale del corso di studi per gli studenti resta una prova significativa e perciò formativa. Sarà anche un rito, ma è un rito che marca psicologicamente il processo di crescita. Perciò mi parrebbe più saggio da parte dei professionisti della scuola chiedere maggiore impegno per valorizzarlo anziché invocarne l’abolizione. Per molti giovani esso resta l’unico esame che affrontano; per tutti segna la cesura tra una adolescenza posta sotto tutela e la giovinezza in cui ciascuno porta la piena responsabilità di definirsi nel mondo. Se l’attuale cornice istituzionale insiste sul suo significato simbolico più che sulla comparabilità dei risultati, per i candidati e per le loro comunità esso riveste l’importanza di un appuntamento istituzionale forte, che richiama al rispetto delle forme procedurali, come appunto ogni rito simbolicamente riconosciuto. E, senza invocare fuorvianti istanze sanzionatorie, la presenza dei commissari esterni, ignari delle dinamiche di classe, motiva gli esaminandi a dare il meglio di sé sul piano comunicativo, a controllare l’ansia, a misurarsi con l’imprevisto, persino a riconsiderare la stessa relazione con i propri insegnanti con maggiore obiettività.
Anche solo per questi motivi genericamente pedagogici l’esame di stato non è tempo perso per nessuno. Ma restando ancora sul piano simbolico, va detto che esso sta lì a ricordarci che la scuola è soprattutto un’istituzione sociale, come si può evincere dal seguente breve apologo occorso pochi giorni fa nella classe valsusina esaminata. All’orale di un candidato che aveva preparato come argomento di avvio del colloquio lo studio della Resistenza in val di Susa era presente fra il pubblico, insieme ai compagni e al padre, anche il nonno, un vecchietto quasi novantenne dall’inconfondibile postura del montanaro vigile, il gilet smanicato di lana, indossato sulla camicia bianca a maniche rivoltate, nonostante l’afa di una giornata calda anche in mezzo alle montagne. Nel 1943, a sedici anni, era stato partigiano. A distanza di anni il nipote, che aveva ascoltato spesso i suoi racconti, ricostruisce la cornice storica di quella sua precoce scelta e ricolloca la sua vicenda particolare nel quadro politico-militare locale, nazionale e internazionale. L’esito del lavoro esposto e discusso con i commissari dal ragazzo genera commozione e riconoscenza nel vecchio contadino incolto, che, a esame concluso, congedandosi, avanza verso di noi esaminatori per stringerci la mano ripetendoci: «Io ho frequentato solo la V elementare, ma vi stimo tutti».
Casi come questo sono la prova che nelle realtà locali all’istituzione scolastica la comunità continua a riconoscere il ruolo di presidiare il patto fra le generazioni, di cui in questi anni, lì in Val Susa, un’altra resistenza di popolo ha riproposto la portata politica ed etica. Non mi sembra infatti casuale che proprio nel liceo valsusino fra gli argomenti dell’approfondimento personale scelti dai candidati compaiano temi riguardanti le forme di opposizione pubblica e privata al male (da Peppino Impastato a Frida Kalho, dalla lettura come forma di autocoscienza identitaria alla canzone di protesta degli anni Settanta).
A partire da queste considerazioni va poi detto che questo malversato esame, nell’attuale forma della commissione mista, resta un momento prezioso di formazione anche per noi docenti, perché ci obbliga a misurare la sostenibilità culturale dei nostri linguaggi – e delle nostre nevrosi professionali. I dati di contesto, sottesi ai percorsi formativi delle scuole e dei singoli studenti, interrogano i nostri insegnamenti. Mentre scrivo queste riflessioni (è domenica 17 luglio), sul quotidiano La Repubblica un articolo dedicato alla scuola analizza il trend delle iscrizioni al primo biennio della secondaria di secondo grado dalla riforma Gelmini del 2010 ad oggi (p. 21). L’avanzamento del “liceo light” (sic), senza latino, a discapito dei licei tradizionali classico e scientifico da un lato e degli istituti tecnici e professionali dall’altro, viene giudicata una scelta al ribasso, frettolosamente spiegata con il mancato rinnovamento della didattica della lingua antica, rimasta arretrata rispetto agli efficaci metodi di insegnamento delle altre lingue moderne. Noi tutti sappiamo che il problema didattico relativo agli insegnamenti linguistico-letterari riguarda innanzi tutto l’Italiano, rispetto al quale non ci è più chiaro che cosa dobbiamo/vogliamo insegnare e perché. La nostra didattica è in sofferenza sia sul versante linguistico sia su quello letterario. Se, al di là dei pedagogemi ricorrenti nella scuola, è indiscutibile che gli apprendimenti sedimentano quando coinvolgono il piano profondo delle emozioni, è tutt’altro scontato, anche al liceo classico, per quale via da parte nostra si possa accendere il coinvolgimento motivazionale verso la lettura degli autori italiani canonici. Sta di fatto che troppo spesso le competenze specifiche riferite all’italiano difficilmente diventano competenze culturali utili per comprendere qualcosa del presente. In entrambe le classi da me osservate, infatti, la materia di studio “Italiano” non è stata investita dagli studenti di particolare valore: le loro scritture, corrette dal punto di vista formale, sono rimaste incerte sul piano dell’argomentazione, che chiama in causa uno sguardo consapevole sul mondo; il loro incontro con gli autori si è tradotto in una serie di conoscenze più o meno precise, ma non ha liberato né emozioni né interpretazioni partecipate, anzi in alcuni casi le ha inibite. Anche dai Gesuiti, che, favoriti dalla rete internazionale dei collegi della Compagnia di Gesù e dalle disponibilità economiche delle famiglie, hanno fatto dell’apertura verso le altre culture l’obiettivo formativo strategico dei curricoli liceali. I loro studenti hanno ricevuto molti stimoli all’approfondimento personale e all’attualizzazione delle conoscenze apprese attraverso seminari extra-curricolari di diritto ed economia, approfondimenti storico-filosofici, potenziamento delle lingue comunitarie ed extracomunitarie (il cinese), una programmazione delle discipline curricolari orientata verso la modernità e la contemporaneità. In letteratura italiana il programma d’esame comprendeva alcuni autori del secondo Novecento (oltre a Calvino, Ungaretti e Montale, Pasolini, Fenoglio, Sanguineti); ma generalmente questi autori sono rimasti nomi, le loro opere titoli, date, trame o poco più. Eppure la letteratura sarebbe una chiave di accesso formidabile per interrogare oggi la complessità sempre più indecifrabile della vita e della storia. Rilegittimarne il valore formativo dovrebbe essere imperativo categorico per tutti: nella scuola, con l’aggiornamento in servizio dei docenti e forme di ricerca-azione in aula; nelle università, con l’impegno a definire un nuovo paradigma della letteratura italiana.
Anna Angelucci, nel suo ultimo intervento su questo blog (16 luglio), provocata dai tragici fatti di Nizza indica una strada, ardua ma obbligata: ci propone di inventare «un’altra didattica, che tessa un racconto intriso di un realismo globale, in cui ognuno di noi è testimone di un pezzo di guerra e di un pezzo di oppressione – guerra, guerra civile, guerra economica, guerra di religione, guerra di popoli – e ne fa, insieme a tutti, esperienza, sofferenza, racconto». Molte tesine che ho ascoltato dai candidati, come quelle che mi sono state proposte dai miei studenti, le danno ragione. I ragazzi e le ragazze diciannovenni che concludono il percorso scolastico con i loro entusiasmi, i loro traumi esistenziali e le loro inquietudini generazionali, si congedano dall’adolescenza con una idea piuttosto precisa dei loro Bisogni Educativi Speciali di cittadini del mondo rimasti sospesi. Una scuola che produce il bisogno di altra formazione non ha certo fallito. Ma perché essa conservi la dignità istituzionale che le compete, i bisogni culturali dei giovani, per molti aspetti inediti, deve sapere ascoltarli e interpretarli, con una disposizione alla ricerca epistemologica – oltre che all’innovazione metodologica – oggi assai poco incoraggiata e valorizzata. A fronte delle richieste di senso che gli studenti ci pongono continuamente, troppo spesso noi, insegnanti e politici, rispondiamo con i conti. Ma è sempre più evidente che le logiche economicistiche, da oltre un decennio sottese alle trasformazioni in atto del sistema dell’istruzione, sono in contrasto con una scuola vera, buona nei fatti. Corrono tempi angosciosi per le sorti del mondo, e più «nessuno è incolpevole», nemmeno a scuola.
Fotografia: G. Biscardi, Centre Georges-Pompidou, Parigi 2014.
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Insignificanza della letteratura
Sono stato anche io commissario in un liceo sceintifico torinese. Mi dà da pensare che dopo anni di studio della letteratura spesso non rimanga una traccia significativa di quel modo di conoscere la realtà che si chiama letteratura, come dice Carla Sclarandis. Da che cosa lo ricavo? Dal fatto che quasi nessuno attinga al repertorio “umanistico” per le tesine di approfondimento, e dal fatto che nessuno (in una delle due classi) o pochi svolgano il primo tema, che era proprio sulle “funzioni” della letteratura a partire da un passo di Umberto Eco. Spiace (e, forse, angoscia) che quel che rimane, a volte, se va bene, sono i paragrafi del libro che parla di letteratura, non la letteratura, ma contenuti precotti. Ma i testi cosa (ti) dicono? Di che parlano? E come? Come si parlano tra loro? C’è un modo di “dire la lezione” di letteratura che mortifica la letteratura, che la fa diventare qualcosa di morto. La letteratura non consiste nelle belle parolette. Non me la prendo coi colleghi, succede anche a me, ma durante l’esame la cosa diventa pubblica ed evidente. Chissà che cosa ho lasciato in 5 anni di insegnamento letterario… (per non parlare del latino)? Quelle parolette possono suonare morte anche se studiate. E poi: merita investire anni nello studio di una lingua e di una letteratura che non dice più nulla, i cui autori sono racchiusi in formule di una tale genericità da non riuscire a distinguere un autore dall’altro? Sono stato sgridato per aver ingaggiato qualche discussione con gli allievi, su qualche testo: è vero, non è l’esame il momento per fare questo “lavoro”. Eppure non mi posso rassegnare alla (quasi totale) insignificanza di questo studio. Un allievo che vuole fare studi di ingegneria a cui avevo confessato, alla fine dell’esame, questa amarezza, mi ha risposto: “Capisco cosa vuol dire, ma che la letteratura non sia solo parolette credo di averlo capito”.