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diretto da Romano Luperini

 Come lo scirocco che ha imperversato in questi giorni sul Sud d’Italia, la riflessione politologica italiana ha immerso i nostri corpi e le nostre menti in una sconfortante e sudata bonaccia, continuando a ripetere gli stessi concetti tanto nel commentare i risultati delle amministrative che nell’analizzare l’uscita della Gran Bretagna dall’Europa.

Cosa porta via lo scirocco? In genere il vento secco del Nord, oppure una pioggia liberatrice. Ora il vento del Nord ha soffiato ma non ha portato via lo scirocco, ovvero fuor di metafora i risultati del referendum inglese sulla permanenza nella UE sono stati un vero vento gelido su tutte le istituzioni e i governi europei ma non hanno portato via la stagnante ripetizione di alcuni mantra del pensiero liberista, primo fra tutti, da noi, la ripetizione ossessiva che occorre procedere sulla strada delle riforme costituzionali per non finire come l’Inghilterra in un caos economico e politico. Addirittura l’ufficio studi della Confindustria si è dedicato all’astrologia e alla previsione del futuro indicando con precisione le cifre della crisi economica che attenderebbe l’Italia in caso di vittoria del No al referendum costituzionale. Il caso della Brexit viene apertamente usato come monito per costruire uno scenario politico predeterminato mediante un mix di terrorismo economico ed evocazione di possibili crisi politiche. Ha ragione Etienne Balibar in un recente articolo sul “Manifesto” (Europa la crisi è morale e politica, “Manifesto”, 28 giugno 2016) a parlare di “processo destituente” rispetto alla situazione attuale.

Come in una tenaglia i popoli europei subiscono, come conseguenza di un’economia finanziaria sempre più devastante socialmente e destrutturante istituzionalmente, una crisi economica che mette in discussione livelli di vita e conquiste democratiche e si vedono proporre dalla destra e dalle forze populiste come rimedio a tutto ciò un ritorno all’isolazionismo. Un rilancio delle tesi sovraniste che auspicano un ripristino delle monete nazionali e degli stati protezionisti, il tutto accompagnato, spesso da posizioni segregazioniste. Tutto ciò non è certo un buon rimedio alla situazione di disgregazione attuale. Non vi è allora nessuno spazio per la sinistra in questa situazione? Bisogna intendersi su quale spazio occupare e come situarvisi. In un suo libro recente (Da Fuori, Einaudi 2016) e poi nell’intervento sul “Manifesto” (Il sintomo immaginario nel “difetto di politica”, 28 maggio) in risposta a una articolata e generosa recensione di Toni Negri che però conteneva alcuni rilievi (Un pensiero vitale messo fuori gioco, 17 maggio), Roberto Esposito  parla esplicitamente di un pensiero filosofico che per porsi all’altezza della crisi di identità dell’Europa, crisi economica, ma soprattutto crisi politica e di valori (il termine di crisi morale non è esplicitato ma sotteso anche qui) deve evocare e occupare  uno spazio decentrato del fuori. Fuori non solo per la circostanza contingente che alcune delle correnti critiche europee di cui il testo si occupa tornano in Europa dopo un “passaggio” americano (la scuola di Francoforte dopo la parentesi bellica, il post-strutturalismo di Derrida e Foucault dopo aver fecondato i cultural studies americani) ma fuori soprattutto poiché la comunità alla quale il lavoro di Esposito fa riferimento non è un primum, un fondamento, come possono affermare i partiti d’ispirazione populista o certe correnti comunitaristiche, né un telos  secondo certa teleologia o teologia di gruppi radicali, bensì un’estraneità del soggetto a se stesso, una sua eterogeneità alle logiche immunitarie, perché identitarie, del pensiero mainstream e solo in questo modo diviene “costituente”. L’armamentario proposto è quello della bio-politica ma stavolta il pensiero bio-politico, su cui da tempo Esposito lavora, non ha più una connotazione “inoperosa” ma volutamente cerca di costruire dei sentieri di resistenza attiva alla crisi. Nato come concetto di sottrazione al potere sovrano, ai suoi apparati di dominio e di assoggettamento, per Esposito, il concetto bio-politico di “nuda vita”, presente sotto altra forma anche in Agamben, non è solo un momento di resistenza del soggetto alla narrazione della teologia politica, ossia una sporgenza contro l’omologazione, ma può configurare una forma di percorso interpretativo e politico alternativo.  E’, infatti, nel riferimento alla nuda vita che la comunità può trovare quella forma di comune che si oppone alle procedure immunitarie degli apparati di potere, senza per questo essere un fondamento. Mi sembra che così si valorizzi il momento del conflitto come momento costituente, riprendendo Machiavelli e Vico. A partire da tale posizione Esposito può rispondere a Toni Negri, rovesciando e ribaltando sull’interlocutore l’accusa di naturalismo connessa all’idea di una comunità retta dalla “nuda vita”. Alla prova della realtà il sospetto di un certo soggettivismo nella visione negriana della moltitudine, pur suggestiva nella sua valenza politica, sembra avere una qualche fondatezza se è vero che nella vittoria dello schieramento anti-europeista inglese non vi è la moltitudine ma un patchtwork di forze, età, ceti sociali, che certo è difficile far rientrare in un unico schieramento e non è riconducibile ad una soggettività politica che ribalti le logiche di un’Europa dei capitali.

Si tratta, forse, di fuoriuscire da una lettura di questi fenomeni secondo le categorie della teologia politica e in Esposito vi sono segnali in tal senso. D’altronde lo stesso capitalismo nel momento in cui ha sottratto la moneta agli stati sovrani e alla subordinazione dell’economia alla politica (Marazzi)  ha mostrato di saper superare la logica della teologia politica, la connessione a uno spazio istituzionale e sovrano determinato, per presentarsi come flusso, quasi come vento nell’atmosfera delle banche e delle borse,  che cambia però la vita delle persone, modella i comportamenti e le classi, trasforma gli individui in quella folla metropolitana che già inquietava e affascinava Baudelaire. E qui mi sento di accennare solo, chè lo svolgimento è complesso e per alcuni versi ancora misterioso, come al di là dell’indagine biopolitica delle tecniche di assoggettamento esista, oggi, un’indagine necessaria delle forme di consenso soddisfatto, di servitù volontaria, per cui il pensiero critico deve tornare alla critica della politica oltre che descrivere il governo del sociale, come avviene in Foucault. E tornare alla critica della politica può anche significare fuoriuscire dalla filosofia per studiare con altri strumenti quegli esperimenti e quelle prassi che si oppongono alla logica economicistica dominante, dalle sperimentazioni sui beni comuni alle varie forme del dono e alle teorie e prassi alter-mondiste. Non si tratta di esaltare delle piccole riserve indiane ma di riuscire a cogliere in certe prassi dei laboratori per un rinnovamento dei punti di vista critici e di sinistra sulla crisi. Una sola cosa porta di positivo lo scirocco: ci obbliga a cambiare i nostri ritmi, la nostra fretta di far circolare le merci e ci spinge a riflettere mentre ci difendiamo nelle ore in cui imperversa sovrano.


NOTA

Questo articolo è apparso su Il Manifesto del 21/7/2016.

Fotografia: G. Biscardi,  Piazza Politeama, Palermo 2006

 

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