
Memento. L’Ossessione del Visibile, prove di resistenza
Sai che fortuna essere liberi
essere passibili di libertà che sembrano infinite
e non sapere cosa mettere mai
dove andare a ballare a chi telefonare
CCCP, Narko’$
Il legame tra arte, potere e libertà (o l’illusione della stessa) è al centro della ricerca di Pietro Gaglianò e del suo Memento. L’ossessione del visibile, uscito per Postmedia Books in una versione bilingue italiano-inglese. Negli stessi mesi la casa editrice pubblicava anche Non volendo aggiungere altre cose al mondo. Politiche dell’arte nella sfera pubblica di Emanuela di Cecco. La concomitanza di queste due uscite rivela una ben precisa linea editoriale: se il volume della di Cecco è costruito, infatti, come l’antologia di un ventennio di esperienze sul campo, (volte a ridiscutere l’idea di partecipazione e di spazio pubblico), il libro di Gaglianò si presenta in perfetta continuità con la linea proposta dalla Di Cecco, rivendicando l’esistenza di una critica militante.
In Memento la militanza dell’autore emerge fin dalle prime pagine, in un’introduzione che rivendica la continuità tra discorso critico ed esperienza dell’opera. Ed è proprio in questa dimensione partecipativa ed esperienziale che si racchiudono il senso della militanza critica e della resistenza civile. La chiave esperienziale è in altri termini il dispositivo attraverso il quale abbattere la distanza tra il critico e lo spettatore, ma anche lo strumento per combattere l’isolazionismo e la progressiva specializzazione del mondo dell’arte e della critica. Le installazioni effimere sono le assolute protagoniste della linea proposta da Gaglianò, una ricerca che si sostiene su due opposti: il visibile (connesso all’idea di monumento) e il non-visibile (che può essere invece ricondotto ad una serie di interventi contemporanei dalla durata limitata).
Il primo capitolo, una seria ricostruzione storica del livornese monumento a Ciano (mai completato) permette all’autore di isolare le caratteristiche appartenenti al regno del visibile e ricorrenti in tutte le rappresentazioni del potere, tanto nei totalitarismi politici quanto nell’egemonia culturale del tardo-capitalismo. Il monumento esercita violenza sulla percezione del tempo, imponendo una dimensione eterna e collettiva; opera una manipolazione della memoria; parla un linguaggio anonimo. All’esatto opposto, l’arte non visibile rivendica una dimensione temporale per via della sua durata limitata; rifiuta una memoria collettiva in favore di una memoria individuale; rivendica una lingua condivisa e non spersonalizzata. La netta opposizione tra visibile e non-visibile trova il suo contrappunto nel contrasto, anch’esso trasversale a tutto il volume, tra centro e periferia. Laddove centro e periferia, prima ancora che ad un concetto geografico, corrispondono ad una idea di canone: il centro coincide dunque con la linea culturalmente dominante, una linea sostenuta ed appoggiata da un gruppo di specialisti della materia. Di contro, secondo Gaglianò, la periferia è luogo di resistenza, un terreno in cui un pubblico non avvezzo ai sistemi dell’arte può partecipare alla creazione dell’opera, contribuendo alla creazione anche attraverso le specificità e le differenze linguistiche.
Nel suo riflettere su un modello di contestazione del potere ed una partecipazione sulla scena che si fa scelta militante, Gaglianò propone una sua personale risposta alla crisi della critica. Ed è proprio immaginando la rivoluzione proposta da Gaglianò che viene da chiedersi che cosa potrebbe accadere qualora la visione centrale venisse definitivamente depotenziata: in altri termini, chi si farebbe carico del potere egemonico che il centro ha saputo esercitare? E come si può evitare che la nuova egemonia della periferia, una volta divenuta dominante, non ripeta i meccanismi del potere centrale?
La risposta di Gaglianò alla questione è che la periferia non deve mirare ad alcuna sostituzione del potere centrale, ma si deve imporre come atto di sfiducia verso il potere (Pag. 68). Il rifiuto di prendere parte all’ ‘avvicendamento’ ai vertici del potere -siglato come niente altro che desiderio verso il potere stesso (Pag. 68)- è uno degli elementi caratterizzanti della linea critica di Gaglianò, il quale rivendica la contestazione del potere, ma non propone alcuna nuova forma di dominio. Leggendo Memento sembra dunque di capire che il senso ultimo della protesta risieda nel suo aspetto rivoluzionario, che però non aspira ad abbattere un potere per formarne uno nuovo.
Nella periferia e nella contestazione il critico ascrive il senso ultimo del suo ruolo, un ruolo che però (ed è necessario sottolinearlo) non è più legato ad alcun mandato. Leggendo le parole di Gaglianò sembra infatti che per scovare ancora un mandato sia necessario aggrapparsi ad una visione della periferia come terreno pre-moderno: ‘l’arte nella sfera pubblica nelle [..] periferie […] illustra una declinazione caotica, polimorfa e meticcia della capacità di coltivare appartenenza, anche grazie ad una caratteristica disponibilità a chiamare in campo elementi del simbolico e del magico. […] È importante ricordare come la memoria non tangibile, le unicità linguistiche, i racconti orali e le tradizioni laiche e religiose siano in gran parte funzione di una coesione del panorama nazionale altrimenti in frantumi.’ (Pag. 99) Il magico, le unicità linguistiche e l’unitarietà delle società periferiche richiamano alla mente la ricerca del ‘primitivo geografico’ (secondo la definizione di Lovejoy e Boas) operata da Gauguin e Van Gogh. Oggi come allora è nella ricerca di un mandato che si lascia il centro per muoversi verso una nuova dimensione partecipativa dell’arte. Nella periferia Gaglianò opera una rivoluzione il cui senso ultimo non è sovvertire poteri, ma rivendicare la necessità dell’atto critico, il suo trovare un posto nel mondo.
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Fotografia: G. Biscardi, Piazza Castenuovo, Palermo 2015.
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