Zerocalcare, ti voglio bene
«Zerocalcare ti voglio bene»: è questa l’unica cosa che mi viene da dire ogni volta che chiudo l’ultimo libro di Zerocalcare. Con Kobane calling, per quanto mi riguarda, siamo allo «Zerocalcare ti voglio bene» numero sette. E sono proprio in tanti oramai a volergli bene. C’è chi gli vuole bene dal blog e fa a gara per postare il primo «grande Calca’» all’apparizione della nuova storiella. C’è chi gli vuole bene da Facebook e lo ha conosciuto magari per una mini recensione alla propria serie-tv-preferita su qualche testata on-line. C’è chi gli vuole proprio ma proprio bene ovunque, pure dal vivo, dopo aver aspettato le quattro di notte per farsi fare il disegnetto-accollo al salone del fumetto. E poi sempre di più ci sono quelli che gli vogliono bene per i libri che, ma guarda tu, rischiano di essere presi in considerazione anche per il Premio Strega. A casa mia io gli voglio bene, mia moglie invece non lo capisce e non capisce me e le mie risate incontrollate quando lo leggo.
L’anno scorso Dimentica il mio nome era stato il mio libro dell’anno (e avevo letto molti libri l’anno scorso), quest’anno Kobane calling rischia di giocarsela con altri due (e ho già letto molti libri quest’anno), soprattutto ogni Zerocalcare letto mi ha sempre portato quel pegno che sanno portare i libri che contano: la tristezza per averlo terminato. Ma perché voglio così bene a Zerocalcare? O meglio. Perché Zerocalcare sa farsi volere così bene? Eppure il mondo di Zerocalcare dovrebbe essere abbastanza selettivo. Volendo mettere gli occhialetti saputelli delle sue vignette pippa («vignetta-pippone >> skippone»), l’amore per Zerocalcare dovrebbe scontare l’intoppo di almeno tre ordini di connotazione: un citazionismo abbastanza circoscritto, un microcosmo decisamente identitario, una scelta di campo netta. «Ma che so’ ste’ cazzate?» giustamente commenterebbe lui. Ecco, appunto. Allora proviamo ad analizzare il fenomeno Zerocalcare in modo più zerocalcaresco.
1. Generazione plum-cake o del citazionismo circoscritto
Giusto per rimanere su Kobane calling, per volere proprio bene a Zerocalcare bisognerebbe avere nel proprio corredo di formazione le emozioni infantili date dai famigerati punk cattivi di Ken il Guerriero, dalla rana pupazzo dei Muppet, dagli squittii del mostriciattolo di Jabba the Hutt. E sì che Kobane calling, di tutte le sue storie lunghe, è quella meno abbondante in fatto di citazioni. Dimentica il mio nome e La profezia dell’armadillo ad esempio, sono di gran lunga più ricche di riferimenti “dotti”, per non parlare delle storielle del blog. Passi la comparsata contemporanea in Kobane calling di George, fratello di Peppa Pig, o del vecchietto del pixeriano Up!, fatto sta che per apprezzare al meglio le strisce di Zerocalcare bisognerebbe avere un bagaglio culturale minimo mica da poco. O meglio un bagaglio ben connotato, ma scontato e fornito di default per i nati alla fine degli anni Settanta-inizio Ottanta. Parlo di quella summa segnata dalle tre corone Bim-Bum-Bam, primi videogiochi di massa (generazione bifronte: un giorno Ryu, l’altro Blanka), vecchia cultura nerd–nippo-americana, per non parlare dell’universo Star-Wars, dinosauri spielberghiani (o meglio, T-Rex e Velociraptor, gli unici dinosauri possibili per quella generazione), manga e supereroi di ogni tipo e sorta ma rigorosamente pre Anni zero.
Eppure Zerocalcare piacerebbe anche agli altri, dove per altri intendo i pre Settanta-Ottanta e i post Novanta. Sì, con tutta probabilità piace anche al compagnetto di classe del Blanka-bambino malefico che va a ripetizione di francese a casa di Calcare.
2. Rebibbia regna o del microcosmo decisamente identitario
Zerocalcare esiste perché esiste Roma. Anzi no, Roma c’entra poco. Zerocalcare esiste perché esiste Rebibbia, ma questo oramai lo sanno tutti. Ma non si tratta della solita faccenda del Mammut che tutti conosco (tutti conoscono?), del murales o dei tag che il nostro lascia in giro (pure nei McDonald di Londra). Questo lo si legge tranquillamente anche su «Repubblica» quando gli fanno le interviste. Rebibbia, quella Roma lì, è presente e circoscritta soprattutto nella lingua. Sì, perché la lingua di Zerocalcare è decisiva perché è la lingua vera di Roma. Mi spiego meglio. C’è un culto del romanesco che è patrimonio empatico un po’ di tutta Italia. Quello che ogni tanto si sente scimmiottare in qualche trasmissione, quello che viene imitato da qualche comico non romano, quello che un giorno portò (horribile dictu) Celentano a fare Rugantino. Ma quello è pur sempre un romanesco finto, e non solo nelle sfumature, anni luce lontano dal romanesco dei quartieri. Quando si legge Zerocalcare, con un po’ d’orecchio (e certo è un orecchio che è dato di avere solo a romani o assidui frequentanti di Roma) si percepisce invece il vero romanesco del quartiere, quello che mette una linea di demarcazione invalicabile tra Rebibbia e Talenti, quello degli ascoltatori delle radio romane (h24 sul tema aesseroma e dajelazziodaje) o per capirci meglio (?) degli ascoltatori che telefonano a Danilo Fiorani e Riccardo Morgigno dalle ventidue alle ventiquattro su Teleradiostereo. Una questione quasi impalpabile ripeto, eppure in Zerocalcare c’è quella lingua. Che parte da un «ve’» e finisce con un «eccaallà» e senza la quale l’universo di Zerocalcare non esisterebbe.
Eppure Zerocalcare lo leggono anche su al nord, lo leggono al sud isole comprese. Sì, con tutta probabilità lo legge anche il milanese che magari non s’azzarda a fare il Rugantino, ma che durante l’apericena se ne esce con un con «bella sècco» con la «è» inevitabilmente e penosamente grave.
3. Wannabe punk o della scelta di campo netta
E poi c’è la connotazione politica. Che come dice Calcare, chi non ha vissuto gli anni Novanta, magari cercando di essere Punk a Roma, stenta a capire. Si tratta di tutta quella cultura che parte dai centri sociali anni Novanta, dalla Posse e dalle borchie, dalle fanzine e dalle musicassette con dentro Skarabiniere (che non è punk ma ci siamo lo stesso) o Luna rossa e che arriva dritta dritta a Genova e Carlo Giuliani. È una scelta di campo netta, che forse i disegnetti potrebbero far sembrare innocua, ma che in quel periodo assumeva e assume anche oggi significati di appartenenza e militanza inequivocabili. Del resto la solidarietà verso il popolo curdo che diventa affresco in Kobane calling parte da lontano, dai mercatini e le bancarelle al Villaggio globale o al Forte Fanfulla, dalle manifestazioni per Öcalan e contro D’Alema nel 1999, alle magliette del fronte sandinista che ancora si vedevano girare in quegli anni, che parlavano di storie passate ma nate dalla stessa radice. Insomma scelta netta e scelta politica, di campo, mai taciuta o messa sullo sfondo da Zerocalcare che, arrivato al grande pubblico con la vicenda bella e intima di Dimentica il mio nome, avrebbe tranquillamente potuto non impicciarsi in una storia scomoda e assolutamente partigiana come Kobane calling. Magari semplicemente andando a fare la sua vacanza in qualche posto più trendy, che ne so’, tipo la Borgogna francese, piuttosto che andarsi a impiccare su per i serci del Rojava.
Eppure Zerocalcare piacerebbe anche a chi si sente distante da una posizione politica netta ed inequivocabile come la sua. Certo, non è che parli sempre di guerrigliere dell’YPJ o dei macelli fatti dalle guardie a Bolzaneto, magari ti dice come non sclerare quando da Win 7 passi a Win 8 e non trovi più il bottone Start. Eppure la politica o meglio una visione politica della vita nei suoi disegnetti c’è ad ogni angolo, a partire da certe prese di posizione di quella chioccia tutta romana che è sua madre.
4. Il mammut e il cuore (pixellato)
Credo che la soluzione di questi tre “eppure” la si debba allora cercare nel cuore di tutta la poetica di Zerocalcare. Sì, proprio quel cuore (spoilerone) tutto pixellato che non si riesce a decifrare all’inizio di Kobane calling, ma che poi spiega il senso ultimo di quello che Michele Reich ha deciso di fare con il pupazzetto di se stesso nominato Zerocalcare, da quando ha iniziato a farlo girare tra noi. Nell’ Elenco telefonico degli accolli, quel pupazzetto iniziava a interrogarsi su quel piccolo fardello che gli era stato dato di farci sorridere, all’inizio Ogni maledetto lunedì (su due) sul blog e poi sempre di più con i libri più importanti. Alla fine Michele ammetteva a se stesso (e a noi) che quel fardello era ben poca cosa e che il mondo che provava a rendere più amico con i disegnetti non poteva però che non essere quello delle infinità di volti di chi deve mantenere un figlio con un contratto di lavoro scaduto, di chi magari sconta una condanna a sei mesi senza condizionale, di chi continua a infilare curriculum dentro bottiglie che butta nell’oceano pregando che qualcuno le trovi. E anche le idee più pericolose, quelle che hanno a che fare con il sangue e la libertà, con la scelta netta di campo andavano dunque raccontate, pur sapendo che l’errore, primo il nostro, è dietro all’angolo, che ogni punto di vista è necessariamente parziale, poco chiaro, pixellato, ma che non per questo dobbiamo esimerci dal prendere una posizione. A quel cuore enorme e pixellato nelle strisce di Zerocalcare ha sempre fatto da contraltare la coscienza amica che ognuno porta dentro sé e che assume la forma simpatica dell’Armadillo, ma anche di quella gigantesca gabbia rappresentata dal peso mastodontico e insopportabile del Mammut. Tra mille contraddizioni, tra il coraggio di rivendicare la dignità di un popolo e contemporaneamente agognare il gusto rassicurante di un occidentalissimo plum-cake, Zerocalcare canta la dignità di una generazione. Una generazione che deposti i simboli e le bandiere importanti delle generazioni precedenti sembrava non potere meritarsi uno sguardo civile e vero sulla Storia. Ma quella generazione c’è, c’è sempre stata, nonostante il pantano ereditato. Una generazione che ha giocato con la Play o la X-Box, ma che può arrivare fino a raccontare e capire Kobane, quella in Siria, ma anche la Kobane che è dentro ognuno di noi.
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