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diretto da Romano Luperini

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La mia rancura

Premessa

Questo testo non è una recensione all’ultimo romanzo di Romano Luperini, La rancura. È piuttosto il tentativo di riordinare in modo fruibile le suggestioni del tutto personali e per certi aspetti profondamente intime maturate durante la lettura del libro. Si tratta dunque di una mescolanza assoluta e voluta, tra referto oggettivo ed esperienza individuale, tra volontà di penetrare il testo e abbandono volontario all’inerzia emozionale privata.

Primo terzo, Memoriale sul padre (1935-1945)

Il racconto delle gesta partigiane di Luigi Lupi in Istria inizia con una premessa chiara: il tentativo attraverso la narrazione di «farmi perdonare il rancore che ho avuto per lui e per riconciliarmi con la sua figura, che ancora si torce dentro di me». È un incipit che mi ha messo immediatamente in una posizione non tranquilla e nervosa: quella del bisogno identificativo in un travaglio che è il mio ma che credo sia quello di ogni uomo. Anche mio padre è una figura forte, depositario di una storia forte e di conflitto con il proprio vissuto di esule e pastore sardo. Scegliendo di studiare lontano e di uscire dal suo orizzonte d’attese (che io continuassi a lavorare la sua terra nel Lazio, nella sua azienda) mi sono sentito fin dagli anni dell’adolescenza marchiato del debito di stima che il narratore de La rancura esplicita senza mezzi termini nei confronti di Luigi. Fin dalle prime pagine ho letto quindi come se chi narrasse mi promettesse una scorciatoia letteraria, una corrispondenza, per placare un brace che da sempre avverto in me. Da quel momento in poi ogni riga letta è stata condizionata da questo stato di non neutralità personale. Di questa prima parte mi rimangono in mente le figure di Vanessa e Dora, donne profondamente poetiche. Dora è per me l’immagine del corpo caldo, sebbene provato, che spesso Luigi rievoca nei momenti di solitudine. Rimane la bicicletta di Luigi, in assoluto l’elemento che genera la distanza storica tra quell’epoca e il mio presente. La bicicletta mi fa sentire il silenzio delle campagne, il respiro di un mondo che non c’è più e che io non ho mai conosciuto. Rimane la camminata di notte sul ciglio della strada di Luigi, la pagina della notte luminosa sotto le stelle, forse quella che mi ha commosso di più: mostra la vera natura di Luigi, quella di un maestro e non di un soldato, quella di un uomo di lettere e non di arma, quella di Luperini che scrive? Rimane Piddiu che è un personaggio bellissimo, l’aggettivo “valente” che ad un certo punto usa in un dialogo mi ha toccato. Più che alla conoscenza della balentìa delle saghe banditesche sarde, ho pensato a mia nonna quando da piccolo mi diceva di essere valente a scuola, ho pensato alla moglie di Luperini di Orune. Anche la puzza di pecora mi ha toccato. Da bambino, nella scuola elementare del mio paese, ho fatto una volta a botte perché un bambino mi offese dicendomi «sardegnolo, puzzi di pecora». Tutta la parte riguardante gli sloveni è bella, soprattutto per l’acume storico con cui Luperini riesce a calare il lettore in quei confronti poco epici ai posteri, ma profondamente spinosi, quali furono i conflitti fra le tante anime delle resistenze al nazifascismo. Infine alcuni dettagli. Sono rimasto interdetto dal colloquio tra Nullo e Luigi. Perché Nullo non chiede in modo esplicito un aiuto per essere salvato? È vero che non sarebbe stato possibile, e Luigi lo sa e me lo dice. Ma io non ci credo che l’uomo possa arrivare a quel grado di coraggio di fronte alla morte. Non ci credo al gesto epico del pacchetto di sigarette. Che bel personaggio è invece Darko, mi fa venire voglia all’istante di riprendere in mano Saba e Montale. È davvero, dopo anni che la cerco, una risposta convincente al perché un tempo si leggevano i poeti e oggi non più. Una risposta del tutto empirica, ma capace all’istante di cambiare prospettiva estetica in me che leggo. E c’è infine una digressione al termine della prima parte, parla di una foto evidentemente vera, mi ha profondamente toccato.

Secondo terzo, Il figlio (1945-1982)

Valerio, figlio di Luigi, è il protagonista della seconda parte. Le prime pagine mi hanno colpito per il portato di verità che comunicano. Le ho sentite reali e immediatamente mi hanno fatto intuire come la seconda parte del libro sarebbe stata più impastata del dato del vissuto, a differenza della prima dove si sente forte l’amore di chi racconta per la narrazione del padre. La scena del passerotto schiacciato è violenta, mi ha fatto pensare a Tozzi, mi ha fatto pensare a mio padre un giorno quando mi tolse di mano un barattolo di pesche sciroppate che non riuscivo ad aprire e lo aprì di forza, facendomi vergognare. Ho faticato a leggere il rapporto del padre con la figliastra, per quel senso di colpa e pudore che vorrebbe che mai i padri divenissero impuri agli occhi dei figli. La casa sul poggio, la costruzione della trappola per gli uccelli mi hanno al contrario confortato di tenerezza paterna, nell’unica forma ad essa possibile: insegnare la via dello sguardo sul mondo, su ciò che è fuori, per un’impossibilità atavica tra padri e figli maschi di trovare una sintesi a partire da ciò che è dentro i sentimenti. Mi ha colpito in questa sezione la capacità di Luperini nel narrare lo squilibrio dell’adolescenza, fatto di corpo e pulsione, di sesso e odore, fatto di amicizie solari su un campo di calcio. La sequenza del cinema mi ha infastidito e irretito, pur comprendendo la sua realtà. Ho patito la sua violenza, di una violenza che c’è sempre stata e ci appartiene, mi appartiene. Al contrario l’incontro con Sandra al Liceo è molto bello, come tutte le volte che Luperini utilizza la letteratura (il riferimento al libro di Montale) per raccontare i rapporti più teneri: mi pare ricorrente ed è un qualcosa che dona grazia al libro, perlomeno ai miei occhi. Una delle parti più delicate e leggere è sicuramente quella del viaggio con Ottavio. Egoisticamente avrei voluto altri momenti come questo, mentre leggevo mi veniva da sorridere. Silvia è un personaggio sfuggente, compare all’improvviso e sembra svanire nel sogno, ma il suo riferimento a Danton e Robespierre mi pare un’introduzione degna e ben funzionale alla seconda sezione, quella che viene battezzata dai morti di Reggio Emilia. Si corre nel tempo e c’è il corpo di Moro nella Renault 4 rossa. È descritto finalmente come tutti gli italiani semplici credo lo abbiano visto: un cadavere sfatto e non un simbolo storico. Sempre in quella pagina mi ha colpito un dettaglio, le bucce d’arancia come correlativo oggettivo di certo squallore del decennio. Oggi non se ne vedono in giro, oggi per terra c’è la plastica a raccontare la bruttezza di certi luoghi feriali. Luperini esaurisce ad un certo punto la violenza dei Settanta nella parola Peste. Capisco il perché di questo nome per quel tempo, che spaventa per tutto quello che identifica, allude, giudica. Il nome non è neutro ed è già di per sé un giudizio ai miei occhi. Quando Valerio rende ragione della sua militanza è impressionante. Le “ragioni di coerenza” di cui parla sono l’essenza stessa dell’abisso generazionale tra quello che fu e quello che è oggi. Oggi un ventenne non vedrebbe quelle parole come quelle dell’ultimo giapponese sull’isola, ma come quelle di un marziano di un mondo letteralmente impossibile da immaginare. Il Valerio che più ho amato è invece quello che parla di notte con Ottavio. Ilaria rimane poco in mente, mentre colpisce e conferma il peso enorme che ebbe il femminismo nello scompaginare certo dogmatismo di quegli anni. Il finale del capitolo secondo della seconda parte è emblematico. Ho sottolineato con la penna il riferimento alla frase del personaggio di Pratolini: «Hai lottato, ti sei ribellato, e poi?». Mi ha fatto lo stesso effetto di «A Roma apoteosi. E con questo?» quando ho letto Il mestiere di vivere. Anche tutto il dialogo notturno con Ottavio ha questo sapore. Io non lo so quanti abbiano avuto la stessa lucidità di Luperini nello scrivere il tonfo di carta della lotta armata. Ma Luperini lo può fare, la sua vita e la sua onestà gliene danno licenza e dovere. Infine la conclusione dell’ultima parte. È emozionante e lo dico fregandomene della retorica. Il dialogo con Foa è bellissimo, toglie il fiato. Così come è densa la sequenza della morte del padre. Il capitolo dodici non riesco a commentarlo, perché c’è tutto il magma di domande che ogni giorno mi porto dentro, che credo ogni uomo consapevolmente o meno si porti dentro. Alla fine chiunque finisce per scrivere, o meglio, vivere, per distanziamento o affanno dall’anelito verso quel grumo di senso. E poi c’è la morte, o meglio, il morire che ne acutizzano e purificano la percezione.

Ultimo terzo, Il figlio del figlio (2005)

Romano Luperini è nato nel 1940, anche mio padre è nato 1940. Sapendo che la terza parte era quella del figlio del figlio, non ho potuto non identificarmi in Marcello. Ovviamente non per la storia, che è quella sua e basta. Ma per quest’ultimo tratto e tentativo di fare i conti con La rancura, con l’irrisolto verso i padri. Non mi va di chiosare quest’ultima parte, come ho fatto con le altre. Certo, ci sono molti aspetti che mi hanno colpito. Ho sorriso quando ho letto dell’ultimo marxiano, quando ancor prima di aver letto la terza parte avevo avuto l’impressione che per un ventenne oggi Valerio sarebbe parso arrivato da un’altra galassia. Mi ha impressionato la profondità verticale del linguaggio di Luperini. Ogni parola che scrive è sempre giustificata, trasuda conoscenza e consapevolezza, soprattutto quando usa il linguaggio che descrive la natura, gli animali, gli elementi del mondo della campagna. Ma tornando a cosa c’è per me dietro La rancura, la resa dei conti tra padre e figlio non poteva che essere quella descritta nello svelamento senza pudore dei due arcani di sempre: la pulsione disperata verso la vita (infondo la passione senile di Valerio per Claudine non è altro che questo, nella forma meno retorica e quindi più onesta e veritiera possibile) e l’inaccettabilità della morte (il racconto del corpo di Valerio che decade è il tarlo che ogni creatura inizia a percepire come vero cancro dell’anima da una certa età in poi). E non se ne viene a capo, no, non se ne viene a capo. Forse l’unico esito possibile è davvero quel soffio di solitudine che chiude il romanzo. Ho premesso che quando avevo diciotto anni ho deciso di seguire la mia passione per le Lettere e ho abbandonato l’idea di portare avanti l’azienda di mio padre. Mi sono trasferito in un’altra città, sono uscito dalla dimensione del clan sardo, ho fatto e faccio i conti con la mia frattura insanabile verso la figura di mio padre. Eppure ogni giorno che passa mi rendo conto come il nodo della mia esistenza passi e si saldi da sempre nel legame torto e misterioso con la sua figura. Ma so dai racconti di mia nonna e dal ricordo dell’infanzia che anche per lui è stato così. Figlio di un pastore emigrato perché vittima di abigeato, mio nonno avrebbe preso a fucilate il colpevole se mia nonna non avesse imposto il trasferimento nel continente. Ecco tutta questo magma non può che perpetrarsi in ogni singolo atomo di una persona. Poi c’è la scrittura, il raccontare. Lo scartocciare lentamente questo colosso che incombe. Non so dire se leggere il libro di Luperini mi abbia fatto bene o male. Ora che ho finito mi dispiace. So che di certo lo rileggerò a breve. La prima lettura è stata emotiva e troppo identificativa per quanto mi riguarda. Sono certo di aver perso molto della bellezza. Ma ad ogni passo in avanti mi caricavo di aspettative o stizza per ciò che sarebbe dovuto accadere o ciò che non volevo fosse accaduto. Mi dispiace anche perché quando ho finito è come se avessi terminato una chiacchierata lunga e privatissima con Luperini attraverso il suo racconto. Ma si tratta di un libro, mi sono detto immediatamente dopo. Io non lo so come finirà per quanto mi riguarda con mio padre. Di certo il libro di Luperini mi ha fatto sentire per una volta meno solo, in un cruccio quotidiano, perenne, che per quanto mi sia sforzato di spiegare, forse nemmeno mia moglie Flavia credo abbia capito fino in fondo. E sì che lei è davvero la persona più importante della mia vita.

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