La riforma del sostegno all’orizzonte
Il 10 giugno 2014 è stata depositata in Parlamento una proposta di legge che aveva tra i deputati firmatari dell’iniziativa legislativa il sottosegretario all’istruzione Davide Faraone. Successivamente la Legge 107 (la cosiddetta “Buona Scuola”) ha dato delega al governo ad adottare decreti legislativi in materia di inclusione scolastica di studenti con disabilità. La proposta di giugno recava il titolo: Norme per migliorare la qualità dell’inclusione scolastica degli alunni con disabilità e altri Bisogni educativi speciali e, poiché potrebbe costituire il nocciolo della nuova iniziativa legislativa del governo in fatto di inclusione, qui ne vorremmo discutere i punti chiave.
Verso una “pedagogia del ghetto”?
La prima sensazione che si ricava dalla lettura della proposta di legge riguarda il carattere spesso generico e contraddittorio del documento. Basti pensare che si parla alternativamente di disabilità e di “statuto di handicap” o che si dà per scontato che siano chiare (e che su di esse vi sia consenso scientifico) le categorie di svantaggio inserite nella macrocategoria di BES. Emerge poi una concezione tecnico/specialistica del docente di sostegno del cui lavoro non si riconosce lo statuto circolare e di interazione continua tra l’operatività didattica e la preparazione disciplinare. Inoltre si utilizza l’acronimo ICF (che sicuramente nell’ambito diagnostico ha costituito un passo avanti) in maniera enfatica, come se esso fosse una risposta pratica, di progettazione pedagogica volta a favorire lo sviluppo delle potenzialità degli alunni e la loro effettiva accessibilità all’istruzione, i saperi e le conoscenze, nonché la soluzione per creare luoghi di socialità diffusa nella scuola. L’ICF è invece, come sappiamo, un sistema di classificazione diagnostico e non fornisce nessun tipo di risposta sul cosa e come fare con il gruppo classe e il singolo alunno. Anche sulla questione dei criteri di valutazione la proposta è vaga: non si esplicitano gli strumenti, i criteri, i dispositivi, gli obiettivi. Colpisce poi che le parole e i concetti di ‘pedagogia’, ‘azione pedagogica’ o ‘progetto pedagogico’ siano del tutto assenti. La pedagogia speciale concepita in relazione alla pedagogia generale, che nella tradizione di questi studi (si pensi solo alla Montessori o a Sante de Sanctis) ha accumulato un patrimonio di saperi ed esperienze importanti, è completamente assente dal documento. In luogo della pedagogia delle mediazioni attive prende campo una sorta di “pedagogia del ghetto”, estremamente specialistica e separata.
In rilievo
Quanto detto prima però potrebbe apparire apodittico e ingiustificato se non si procedesse a un esame più attento della proposta. Analizziamo dunque i punti che ci sembrano più importanti.
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Innanzitutto va chiarito che la proposta di legge poggia sulla categoria di BES, che è una categoria controversa, messa in discussione in un acceso dibattito scientifico nazionale e internazionale. Anche intorno ai ‘trattamenti’ educativi e terapeutici di studenti etichettati come BES (DSA, ADHA, Disturbi specifici evolutivi, con svantaggio socio-economico e linguistico-culturale ecc..) non vi sono convergenze in ambito scientifico. Lo stesso richiamo al rapporto Warnock del 1978 in quest’ottica è discutibile: si mette tra parentesi l’intera evoluzione critica intervenuta a livello nazionale e internazionale negli ultimi trentanni sul piano della ricerca scientifica. Basterebbe leggere (e il legislatore dovrebbe farlo) gli interventi dei numerosi ricercatori della società italiana di pedagogia speciale ma anche del Canada e di area francofona come Charles Gardou, o gli studi dei neovygotskiani come C. Ratner, Van der Veer, Valsiner, Y.Clot, B.Rogoff, A. Stetsenko.
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In apertura del documento si parla di presa in carico del progetto inclusivo precisando che essa deve avvenire in un’ottica di «accomodamento ragionevole». Ma di cosa si tratta in concreto? In effetti non si suggerisce alcuna azione educativa successiva alla conoscenza della diagnosi funzionale. Ad esempio non vi è nessun richiamo all’osservazione pedagogica, invece essenziale per progettare e calibrare l’intervento educativo, e non si sottolinea l’importanza di fondare i processi inclusivi sulle potenzialità dell’alunno, sull’ambiente e sulla classe.
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Le proposte sulla formazione degli insegnanti curricolari e specializzati sono generiche e poco chiare. Si percepisce soprattutto l’intenzione di volere costruire una sorta di barriera nella mobilità professionale tra insegnante curricolare e specializzato di sostegno. Confermata d’altra parte in questi giorni dalla creazione di una specifica classe di concorso per insegnare sul sostegno. Anche in questo caso, insomma, si dividono e si separano gli ambiti d’azione e di pertinenza. Tuttavia bisogna chiedersi se questa settorializzazione dei saperi sia di per sé garanzia di qualità. L’esperienza dice il contrario e cioè che i docenti più validi – di sostegno o curricolari che siano – hanno competenze ampie e conoscono gli statuti epistemologici e i saperi disciplinari che contribuiscono a insegnare.
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Nella proposta vengono menzionati gli assistenti all’autonomia e alla comunicazione: sono figure importanti oggi a carico degli enti locali alle prese con il patto di stabilità che non permette di investire sulle risorse umane. I tagli stanno drasticamente riducendo la rete di operatori che co-costruiscono il nostro sistema inclusivo. Il peso economico per retribuire queste figure ricade quindi sempre di più sulle famiglie che devono pagare quasi interamente questi servizi di accompagnamento fondamentali per i loro cari. Gli educatori professionali e sociali inoltre spesso lavorano in condizioni precarie e sono sottopagati. Altre figure, come quella del mediatore interculturale sono del tutto dimenticate, ritenute forse superflue, come se il carattere multiculturale e meticcio delle nostre classi non sia ormai una realtà per molti e non possa diventare un’opportunità per tutti.
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Così come non vi è posto per i mediatori interculturali, nella proposta di legge non vi è spazio per i figli di migranti, le cui famiglie provengono da vari mondi culturali. I temi del bilinguismo e plurilinguismo nelle nostre scuole, anche legati alla presenza di tanti alunni disabili figli di migranti inseriti in sistema familiari pluriculturali e meticci, sono dimenticati. Il legislatore non dà impulso normativo per spingere nella direzione di un potenziamento di forme di mediazioni attive per l’inclusione, di contaminazione culturale, di apprendimento reciproco.
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Nell’articolo 1 della proposta si parla di «individuazione di indicatori idonei a valutare e ad autovalutare la qualità dell’inclusione scolastica nelle singole classi e scuole». La valutazione è un sistema complesso strettamente correlato al modello formativo e inclusivo che si adotta, come declinarla quindi nelle singole realtà? E poi cosa si intende per ‘inclusività’? Il conseguimento di alcuni apprendimenti fondamentali? Il funzionamento accogliente o meno della comunità scolastica come luogo accessibile e di pari opportunità? Esiste uno standard a cui riferirsi? La percezione degli attori può essere sufficiente a descrivere la qualità del nostro sistema di inclusione scolastica? Questo punto è particolarmente opaco.
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Nell’articolo 10 si propone una forma di conciliazione pregiudiziale obbligatoria nel caso di contenzioso fra famiglie e MIUR. Il presupposto dell’articolo (giustificato dalle molte cause in corso) risiede nella previsione di uno scontro e di un conflitto crescente o permanente tra scuole e famiglie. La proposta ha senz’altro finalità pratiche; è tuttavia sconfortante che il legislatore assuma questo punto di vista e non scommetta invece su strategie di mediazione sociale e pedagogica nella relazione scuola-famiglia per costruire una vera alleanza educativa. Proprio mentre in vari paesi, dal Belgio alla Francia, dal Québec al sud-America si stanno sperimentando percorsi di co-educazione e di mediazione socio-pedagogica per favorire l’inclusione, in Italia pensiamo a come litigare in tribunale.
In pendio
Ai “rilievi” che abbiamo mosso al documento corrispondono altrettante “dimenticanze”. Non è un caso. E’ come se all’emergere di una linea politico-culturale corrispondesse il declinare di un precedente modello. Elenchiamo quindi brevemente quel che potremmo lasciarci alle spalle se procedessimo nella direzione suggerita dalla proposta di legge Faraone.
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Rischiamo di perdere il nucleo del nostro paradigma inclusivo, in cui la differenza è accolta naturalmente e la risposta educativa che gli insegnanti elaborano di fronte alle difficoltà è innanzitutto pedagogica. Il modello stigmatizzante e clinico-diagnostico dei BES è alternativo, non complementare al modello inclusivo pedagogico.
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La storia inclusiva di un alunno in difficoltà non finisce con la sua diagnosi e certificazione, da qui semmai inizia. Soltanto seguendo un approccio di tipo classificatorio, difatti, l’aspetto clinico-terapeutico e diagnostico appaiono esaustivi. In questa prospettiva perde valore la possibilità di co-progettare un dispositivo educativo dinamico che evidenzi potenzialità evolutive e opportunità. Non è dunque un caso che continui ad essere ignorato e sottovalutato il gruppo classe come spazio esperienziale e luogo di osservazione pedagogica sia delle dinamiche del gruppo che delle potenzialità e dello stile di apprendimento degli alunni.
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Il richiamo continuo allo specialismo e alla separazione dei compiti mina la possibilità di creare situazioni didattiche integrate che sappiano rendere complementari i diversi sguardi nella traiettoria evolutiva della persona nel processo di apprendimento. Rischiamo di perdere definitivamente la complessità della funzione dei docenti, la loro capacità di essere intellettuali in azione.
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Non basta evocare la rete d’aiuto per farla esistere, bisogna sostenerla. La nostra rete pubblica d’aiuto alle persone disabili si sta dissolvendo sotto i colpi inferti al nostro welfare. La stessa delega al governo in materia di sostegno non prevede «nuovi e maggiori oneri per le finanze pubbliche».
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Mentre si afferma una tendenza differenzialistica, classificatoria che separa ambiti e competenze si perde il principio di valorizzazione delle differenze basato sul principio di eguaglianza. Un alunno con deficit, un figlio di migrante o con difficoltà è innanzitutto un alunno. Così ci insegna la Costituzione, che i docenti conoscono meglio dei manuali diagnostici.
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I “livelli essenziali delle prestazioni e indicatori di qualità” rischiano di essere un’astrazione inconciliabile con le realtà delle scuole. Le quali d’altra parte corrono il rischio, per smania valutativa, di modificare il loro volto reale in funzione di uno standard. C’è insomma il rischio di deformare le nostre pratiche inclusive per allinearci a un modello statistico senza produrre autentiche e autenticamente utili pratiche riflessive e autovalutative.
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Per prevenire lo scontro e l’incomprensione tra famiglie e scuole occorre lavorare nel senso della co-educazione e qualificare professionalmente gli educatori al dialogo e al lavoro di rete. Su questo il documento non solo non dice niente, ma si colloca su una posizione puramente difensiva di gestione dei possibili conflitti. Rischiamo di lavorare in difesa e non in sinergia con le famiglie. Ci stiamo rassegnando a un “noi” contro “loro”.
In conclusione la tendenza ad un etichettamento preventivo e clinicizzante della popolazione scolastica, la settorializzazione e l’atomizzazione degli insegnanti, degli operatori e dei familiari, l’illusione statistica, l’imposizione di pratiche di rendicontazione e meramente burocratiche non valorizzano gli aspetti pedagogici vitali del processo inclusivo, come la capacità di osservare e cogliere la zona di sviluppo potenziale degli alunni, la capacità di valorizzare il contesto dinamico della classe e della scuola o di vedere nell’alunno svantaggiato non solo un problema ma anche una risorsa per tutti.
Per queste ragioni lo sforzo legislativo e la formazione degli educatori andrebbero volti in direzione contraria rispetto a quanto si tende a fare oggi. Le categorie mediche e i protocolli burocratici sono tanto rassicuranti e sterili per chi li agisce quanto sterili e dolorosi per chi li subisce.
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