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diretto da Romano Luperini

Io adoro insegnare


A cura di Emanuela Annaloro

Il 3 marzo scorso il CIDI di Palermo e l’Associazione Genitori Figli nell’ambito del Master “Educare oggi” hanno organizzato un incontro con Massimo Recalcati che ha diffusamente parlato di insegnamento e scuola a partire dal suo libro L’ora di lezione. Al termine della conferenza sono state poste alcune domande dal pubblico, l’ultima della quale era: «perché ha scritto L’ora di lezione?» Riportiamo la risposta dello psicoanalista.

 

Io ho un’adorazione per la pratica dell’insegnamento che considero mai conclusa, poiché acquista sempre nuova linfa. Nonostante il mio lavoro sia quello della psicoanalista, io adoro insegnare. Da cosa nasce questa adorazione? Probabilmente dal fatto che sono arrivati tardi i miei maestri e mi piace dare ai miei allievi la possibilità di fare un incontro che io non ho fatto, o meglio che ho fatto molto in avanti.

Amo l’insegnamento anche per un’altra ragione più intima, se posso dire così. Perché nell’insegnamento si riconosce il dono della chiarezza che è sempre legato a un certo dono della sintesi. Questa dote ha per me un’origine edipica molto chiara. Io avevo un padre floricoltore che era sempre immerso nel lavoro (di lui ho tessuto l’elogio ne Il complesso di Telemaco) e quando parlava con me in dialetto milanese mi diceva: «dai, arriva al punto». Ed io avevo pochissimo tempo per esprimermi, dovevo sempre “asciugare, asciugare, asciugare”, essere il più essenziale possibile. Nel rapporto con mio padre ho ricevuto la prima grande educazione alla sintesi, ad andare dritti al punto. Ed è questo quel che io cerco di fare e che amo nell’insegnamento: andare sempre dritto al sodo, malgrado dilaghi una retorica del “girare attorno” che trascura di ricercare il punto centrale del discorso.

L’ora di lezione è stato un libro molto amato dagli insegnanti anche se paradossalmente è il libro di uno psicoanalista, di qualcuno cioè esterno al mondo della pedagogia, al mondo della didattica, al mondo della scuola. Mi sono chiesto perché è stato amato così tanto. Probabilmente perché va al sodo, cioè, diversamente da molti altri libri più competenti del mio in fatto di pedagogia, di teorie educative, cognitive ecc., pone il problema centrale che è quello della lezione, della didattica. Ma non della didattica attraverso la mediazione di paradigmi psico-pedagogici, cognitivi, quanto piuttosto della didattica nel suo farsi, nella sua costruzione quotidiana. Me lo spiego solo così.

Infine amo l’insegnamento per una ragione più interna al mio lavoro. Negli ultimi anni mi occupo di un tema fondamentale che ritorna in tutti i miei lavori come un’ossessione – e in effetti è l’ossessione della mia vita – è il tema dell’eredità. Se leggete i miei lavori hanno tutti questo tema comune: cosa significa ereditare, cosa significa essere dei figli ‘giusti’. L’ereditare è ciò che differenzia la vita umana dalla vita animale. La vita animale rende l’ereditare una questione di geni, di comportamenti, di istinti. La vita umana indica invece che per diventare figli giusti, eredi giusti dobbiamo riconquistare quello che c’è stato dato, farlo nostro. In questo movimento di fare nostro quello che c’è stato dato, non vi sono soltanto i regni della fortuna di Telemaco. Telemaco difatti è un erede particolare, eredita un regno, noi invece abbiamo ereditato anche delle sberle, dei pugni, delle ferite, insieme magari ad altre cose positive. Nell’eredità c’è tutto, tutta la nostra provenienza, il trauma, le offese, le incomprensioni, al pari dei gesti d’amore, le tenerezze, i beni, per chi ha avuto la fortuna di riceverli. Ecco, a me interessa come possiamo fare diventare tutto questo nostro, cioè generativo; mi interessa comprendere come avviene la trasmissione dell’eredità tra le generazioni. E nella scuola si fa proprio questo: si tratta di come noi possiamo ereditare la lingua del sapere, la lingua da cui proveniamo, di cui siamo fatti.

Pennac diceva, lo cito anche ne L’ora di lezione: «è bello insegnare ai bambini a imparare a memoria». Io non ho mai imparato a memoria, mi sono sempre rifiutato. Così oggi quando vedo alcuni miei amici alzarsi a tavola ogni tanto a cena e cominciare a declamare Leopardi, Pascoli… li guardo con invidia. Hanno la mia età e in loro sono rimaste scolpite le poesie che hanno imparato alle elementari. A me non è rimasto niente. Pennac dice che è giusto insegnare ancora oggi a imparare a memoria le poesie perché in questo modo noi mettiamo i nostri figli «a bagno nel fiume della lingua». Il fiume della lingua è il fiume da cui tutti noi proveniamo ed è veramente l’oggetto dell’eredità: come essere degni del linguaggio.

NOTA

Fotografia di Nino Migliori.  

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