Anni Novanta. Individui e fluidità /3
Pubblichiamo la terza parte del saggio di Maria Borio sulla poesia degli Anni Novanta.
Due analisi
Umberto Fiori, Scompartimento: la lirica semplice della similitudine e dell’anonimato urbano
SCOMPARTIMENTO
L’altra sera sul treno
(l’ultimo, sempre pieno) una ragazza,
dando ogni tanto un’occhiata rapida in giro,
scherzava a voce alta sui suoi amori
finiti male,
del suo nuovo lavoro nello studio
di un avvocato, su quanto lei era brava
– però il lavoro: triste – e si faceva
i conti in tasca in pubblico,
lira per lira.
Quando si mettono a nudo
in questo modo, di fronte a gente mai vista,
e la vita – la loro –
te la mettono in piazza come quella
di chiunque, così, ridotta all’osso,
sono talmente belle
certe persone,
talmente pure
che ti fanno tremare.
Parlano come se fossimo
tutti di tutti. Si mettono nelle mani
di chi è lì
come un cane che si lascia
stringere il muso dal padrone,
con le orecchie abbassate
e gli occhi chiusi.
A sentirle parlare
anche tu chiudi gli occhi: sprofondare
vorresti, e invece cresci,
dentro, diventi ripido,
sconfinato e potente
come quel niente che le ha fatte nascere.
Nel 1998 viene pubblicato Tutti di Umberto Fiori. Fin dai suoi primi libri, la poesia di Fiori si è sviluppata seguendo soprattutto il tema della congiunzione tra l’individuo e la collettività. È una relazione che resta sospesa nell’anonimato della metropoli – dal realismo ambientale di Esempi (1992) e Chiarimenti (1995) fino all’ironico dialogismo straniante di Voi (2009) –, ma che si mantiene pulsante, prova a difendere dal vuoto. Il centro di questo percorso è Tutti.
I protagonisti del libro sono le presenze della quotidianità urbana – l’autobus in mezzo al traffico, le pensiline, le strade affollate, le case della città che si ripetono identiche e fisse – e una soggettività che perde il suo centro individualistico e si fa attraversare da un’esperienza comune, dalla gente ordinaria, diventando un voi omnicomprensivo che fluttua nella normalità dell’anonimato. Suddiviso in due sezioni (Anni e Figure), Tutti è articolato secondo un movimento che va da una ‘fenomenologia dell’abitudine’ nella dimensione spazio-temporale a una ‘fenomenologia dell’abitudine’ incarnata in tipi umani spersonalizzati ed emblematici proprio nella loro ‘essere tutti’ e anonimi. Scompartimento è il primo testo di Figure può rappresentare un nodo di raccordo.
La poesia è suddivisa in quattro tempi, i versi richiamano quelli della tradizione (dal quinario al settenario all’endecasillabo) e seguono un ritmo colloquiale con rari enjambement (come ai vv. 28-29: «sprofondare / vorresti»). Sembra di essere portati in un’atmosfera che ha cancellato tutte le «bravure»i. In questa neutralità ordinaria si sente crescere una pronuncia che diventa precisa e inevitabile: quella che fissa il grado zero della normalità nella sua esattezza, come fa Petrus nelle sue opere con gli effetti di luce e con i netti campi cromatici. L’assolutizzazione del grado zero avviene come un’«occhiata» che si posa sulle cose di tutti i giorni seguendo la routine. In questo testo, coglie una ragazza sul treno e la fa diventare un emblema della «gente» e del trascorrere della serialità lavorativa. L’«occhiata» non è lo sguardo rivelatore epifanico, come poteva essere per le apparizioni di Baudelaire, di Montale e di Sereni, così come la ragazza non è una Clizia salvifica e nemmeno la «bionda e luttuosa passeggera» di Uno sguardo di rimando. Fissato il grado zero della normalità, si fissa anche il grado zero dell’epifania. A proposito, Fiori commenta così la poesia Occhiata dalla stessa raccolta:
L’«occhiata» del titolo è quella che dà luogo – attraverso la vista – a un’improvvisa visione. Senza volerlo, un giorno come un altro, l’io che parla, guardando «col sole» i muri che gli stanno intorno, si trova di fronte a una rivelazione: quella di una forza. // Di norma, l’idea di forza è associata al movimento, a un’energia che anima, opera, sposta, trasforma, genera e distrugge. Le case, invece, sono lì, ferme, immutabili. Ma è proprio nella loro fermezza che una forza più segreta si manifesta. Le case «non vanno da nessuna parte» (in questa osservazione, vagamente comica, il soggetto tradisce la sua puerile sprovvedutezza); non hanno progetti, appuntamenti, imprese da compiere, territori da esplorare, affari da inseguire. La loro immobilità, però, non è inerzia; ad averle fermate non è una costrizione, un limite esterno: è la loro stessa forza. Le case sono ferme perché sono forti. Hanno deciso di stare. In questo sembra nascondersi un ammaestramento (Esempi è il titolo di un libro precedente).ii
Le case sono presenze a cui l’autore è particolarmente legato, fin dalla prima plaquette che si intitola appunto Caseiii, tanto da nominarle spesso con l’appellativo «care» (Corsa, Occhiata). La forza delle case nello stare dentro la vita si svela nell’anonimato «disseppellisce il disabituale nell’abituale»iv e diventa un ancoraggio di significato esemplare che chi guarda, spogliandosi delle impalcature interpretative preconcettuali o dall’orgoglio e rimanendo in un contatto puro, autentico e immediato con la realtà, può far entrare dentro di sé. Ciò che Fiori realizza è una riduzione del lirismo di tradizione al grado zero, per portarlo così ad essere una fonte di conoscenza, intesa come chiarezza e possibilità di esempio (come indicano proprio i titoli delle raccolte Chiarimenti ed Esempi). Tale riduzione avviene sia a livello della soggettività sia a livello delle sistema spazio-temporale, di cui Scompartimento, come già detto, presenta una fenomenologia combinata.
Le coordinate spazio-temporali sono spogliate della toponomastica e del dettaglio diaristico. Pur legandosi alla tradizione lombarda realista e referenziale, la città, le piazze, i quartieri di Fiori, e insieme ad essi gli avverbi di luogo di cui è disseminata la raccolta («lì», «qua», «là», «dappertutto», «in mezzo») o i presentativi verbali e avverbiali («c’è», «ecco»), non hanno mai una definizione oggettiva precisa: definiscono una geografia assoluta dell’abitudinario e del comune (di cui uno degli esempi migliori si ha nella poesia Località) che, pur non avendo segni espliciti di riconoscibilità, potrebbe sembrare a tutti familiare, come se avessimo vissuto negli ambienti descritti da sempre, come se gli «anni» che danno il titolo alla prima sezione del libro fossero gli anni che i lettori, alla pari del soggetto e della gente di cui è popolata la raccolta, hanno vissuto e continuano a vivere giorno dopo giorno. A ciò contribuisce l’uso linguistico semplice e quotidiano (moltissime, ad esempio, le espressioni tratte dal parlato: «faceva i conti in tasca», «mettono in piazza»), compiendo un’operazione che può richiamare la pronuncia di Saba, ma depurata da qualsiasi impianto classico o riconducibile a un sostrato classico. La lingua porta a una chiarezza totalizzante, così come le occhiate dell’io si posano nitide sulle presenze della quotidianità.
In parallelo a questa fenomenologia spazio-temporale, la soggettività perde la centratura dell’io che ha nella tradizione lirica e che l’Espressivismo potenzia in direzione di un’autonomia espressiva individualista e incondizionata. L’io perde la «biografia»v, si spoglia dell’identità da diario, della volontà e della pretesa di essere romanticamente riconosciuto e ascoltato: diviene tutt’uno con la gente, con gli altri, è «chiunque», sta «in mezzo» e «dappertutto», cerca di assumere in sé la vista comune delle cose e della vita, la vista di tutti («Speravo, un giorno, di vedere quello / che vedono sempre tutti», Tutti, vv. 5-6; «Parlano come se fossimo / tutti di tutti», Scompartimento, vv. 20-21). Spogliandosi di sé, trasforma l’abitudine e l’anonimato in una potenzialità di conoscenza rivelatrice (come poi svilupperà nella raccolta La bella vista, 2002) e riesce a farlo attivando una visione che procede per similitudine.
La similitudine permette di stabilire relazioni di parità tra l’io e gli altri, di presentare le figure non come personae in cui sdoppiarsi o calarsi teatralmente, ma in ‘sagome’, o ‘figure’, dove ritrovare se stesso in una parità prospettica («Come una vite gira / nel suo filetto, io mi sono disteso / nella forma di tutti / e con un occhio aperto / ho dormito», Sagoma, vv. 14-18). Ci si affida alla similitudine con la fiducia di un cane che si lascia stringere il muso dal padrone (come si dice in Scompartimento, nella descrizione delle persone che si mettono a nudo in pubblico raccontando casualmente fatti della propria vita, vv. 21-26; ma la figura del cane compare in una corrispondenza vera e propria con l’io in La volta del cane, testo conclusivo della sezione Anni) o con la freschezza di un bambino che guarda e cerca di interpretare i fenomeni del mondo (Pari, Taglio). La similitudine è la figura retorica per eccellenza che consente di chiarire ed esemplificare, trovare un ammaestramento, una corrispondenza per legame esplicito, una sintonia in una parità. Non a caso, l’uso della similitudine in Tutti, dopo Esempi e Chiarimenti, segna un vertice nel percorso dell’autore di rifiuto nei confronti del gergo poetico della Parola innamorata, della lingua come rocambolesco e irreale prospettiva artefatta, della metafora che devia e altera la realtà:
Nei primi anni Ottanta, quando cominciavo a scrivere i libri che poi ho pubblicato, a dominare in poesia era sostanzialmente la metafora; si può anzi dire che metafora e poesia tendessero idealmente a identificarsi. Il linguaggio poetico appariva come una sistematica trasfigurazione della realtà, una sua metodica deformazione “creativa”. Attraverso la metafora, le cose più lontane trapassano l’una nell’altra, si smembrano, si mescolano e si fondono magicamente, senza mediazione, perdono il loro senso ordinario, dando luogo a una dimensione fantastica e –spesso- indecifrabile, oscura. Questa oscurità cominciava a inquietarmi, a insospettirmi. Il gioco mi sembrava troppo facile, troppo arbitrario. E’ anche a partire da questo disagio che mi sono riavvicinato a una figura marginale e un po’ desueta: la similitudine. // Nella similitudine, un pezzo di mondo viene evocato per “chiarirne” un altro. Anche qui, la chiave è l’analogia, la somiglianza, ma – questa la differenza decisiva – tra i due elementi accostati c’è un come (o qualcosa di equivalente) che ne dichiara e ne esplicita il rapporto: questo (ciò che va “spiegato”) è simile a quest’altro, che forse può aiutarci a capirlo meglio. // Nella metafora, che vuol presentarsi come un superamento di quel rudimentale come, il mondo viene offuscato, se non addirittura rimosso, da un intreccio complesso e sotterraneo di “campi semantici”; in ciascun elemento della similitudine, invece, il mondo è lì, intero. Il mondo si specchia nel mondo. Il mondo è simile.vi
La similitudine è principio conduttore della scrittura di Fiori: parifica e apre la via alla chiarezza e all’esempio, come l’io spogliato dalla biografia si fonde con il ‘voi’, come le coordinate spazio-temporali portate a un grado zero di identificazione formano un ambiente e un’atmosfera che sembra far parte naturalmente del vissuto di tutti. La similitudine allontana la lirica dall’offuscamento e dal ‘poetichese innamorato’, ma anche dai riferimenti ideologici. La lirica supera i legami con le poetiche, come quella del realismo o dell’oggettività lombarda; supera l’idea di un’equivalenza necessaria tra chiarezza, equilibrio e classicità; apre il soggetto da una posizione ‘forte’ a una posizione ‘debole’ che non interpreta in modo dominante la realtà, ma cerca la parificazione con i fenomeni e con le presenze per comprendere l’esistere negli exempla che l’anonimato e la normalità, assoluti e familiari, possono portare.
*
Antonella Anedda, Correva verso un rifugio, si proteggeva la testa…: la conoscenza analogica come resistenza laica nella vita dei dettagli
Correva verso un rifugio, si proteggeva la testa.
Apparteneva a un’immagine stanca
non diversa da una donna qualsiasi
che la piaggia sorprende.
Non volevo dire della guerra
ma della tregua
meditare sullo spazio e dunque sui dettagli
la mano che saggia il muro, la candela per un attimo accesa
e – fuori – le fulgide foglie.
Ancora un recinto di spine confuse ad altre spine
spine di terra che bruciano i talloni.
Ciò che si stende tra il peso del prima
e il precipitare del poi:
questo io chiamo tregua
misura che rende misura lo spavento
metro che non protegge.
Vicino a tregua è transito
da un luogo andare a un altro luogo
senza una vera meta
senza che nulla di quel moto possa chiamarsi viaggio
distrazione di volti
mentre la pioggia batte.
Alla tregua come al treno occorre la pianura
un sogno di orizzonte
con alberi levati verso il cielo,
uniche lance, sentinelle sole.
La poesia di Antonella Anedda porta a una raffinata evoluzione la scrittura di impianto analogico che con Milo De Angelis ha raggiunto una rete di connessioni tra i piani del reale, una rete tragica e tesa a un significato che riesca a trascendere le apparenze sensibili. Distante dalla poesia orfica di matrice storica, e ancora più dalle sue derivazioni neo-orfiche, Antonella Anedda fa uso di arcate e di intrecci analogici per costruire ponti significanti in una rappresentazione e interpretazione degli eventi. In lei lo spasmo tragico assoluto del De Angelis di Somiglianze trova una compostezza che sta nell’attenzione per i frammenti e i dettagli della realtàvii, e che per questo la avvicina più a raccolte come Terra del viso. I dettagli sono estrapolati come materie prime da cui poter riorganizzare una forma di resistenza di fronte al dolore e alla difficoltà della storia, e permangono in una ambiguità tra la connessione e la sconnessione sotto il dominio di tensioni esatte e raggelate (come è suggerito fin dal primo libro, Residenze invernali, 1992).
Questo analogismo è fortemente radicato nella realtà, non crede a bagliori divini o a una trascendenza, anche simbolica, che possa costituire una salvezza certa. Il soggetto e gli eventi sono materia concreta attraversata dai pezzi di un’unità non ricostruibile mai totalmente. Ogni pezzo, ogni dettaglio ha un suo peso reale e esemplare: la lingua, i nomi, il corpo, la luce, il buio valgono per un significato poetico, o narrativo, e uno metapoetico, o riflessivo, e il senso che da essi si può ricavare sta nei procedimenti di riconoscimento e di catalogo (Il catalogo della gioia è, non a caso, il titolo della terza raccolta dell’Anedda, 2003), non nella contemplazione di un sicuro assemblaggio.
Anche la storia è vista nella doppia valenza poetica e metapoetica, come storia dell’hic et nunc e storia messaggera di un significato che trascende le esistenze individuali. E così avviene in uno dei libri più significativi degli anni Novanta, Notti di pace occidentale (1999), che costruisce un anello tra l’esistenzialismo del mondo occidentale e il mondo orientale segnato da conflitti come quello nei Balcani e della guerra del Golfo, attraversando la riflessione sulla funzione della lingua e della scrittura poetica, superando il diarismo del privato e recuperando i dettagli dell’intimità per immetterli in un piano di legami vasti e vertiginosi.
Correva verso un rifugio, si proteggeva la testa… è il quarto testo della prima sezione della raccolta. Si basa sulla visione televisiva di un’immagine di guerra (in una lettura pubblica l’autrice ha parlato, a proposito, di un programma sul conflitto nei Balcani), così come avviene per molti sonetti di Composita solvantur di Fortini. In apertura si fa riferimento ad un filmato che immortala una donna che scappa, di cui è resa la tragicità dell’effetto di anonimato («un’immagine stanca», «una donna qualsiasi») per via del potere dei media di neutralizzare la realtà fisica del dramma. Si passa, quindi, a un tentativo di riflessione soggettiva sui dettagli per recuperare un nucleo di verità e di coscienza storica rispetto all’effimera riproduzione dei media. Si fa così luce sulla condizione dell’uomo occidentale, identificata con una tregua straniante, come evoca il titolo del libro. La tregua è simbolo di un Occidente smarrito all’interno di una terra atterrita: la tregua di fronte all’immagine televisiva è controparte, inversa e paradossalmente speculare, della condizione di chi vive la guerra nella realtà. Questo stato viene rappresentato alla perfezione dal primo verso del quarto movimento («Vicino a tregua è transito»), un verso secco, incentrato su due sostantivi assoluti, senza articolo, che descrivono la condizione di chi sta nella tregua, con la tragedia della passività e dello smarrimento integrale, descritto poi nella chiusa («Alla tregua come al treno occorre la pianura / un sogno di orizzonte / con alberi levati verso il cielo / uniche lance, sentinelle sole»).
La poesia è costruita per legami vasti che espandono l’analogismo di De Angelis in un intreccio di elementi, simile a quello che possiamo trovare nella scrittura di Mandelš’tam e della Cvetaeva, di Beckett e di Celan. I legami riguardano vari livelli del testo. Il rapporto tra i movimenti strofici che assemblano quadri individuati e poi scomposti nei dettagli da cui si elabora la via a un significato. Ciò avviene in una combinazione di elementi anonimi e tendenti all’astrattezza e elementi puntuali, concreti, materici. L’«immagine stanca» della «donna qualsiasi» che corre proteggendosi la testa è, infatti, filtrata attraverso il «meditare sullo spazio e dunque i dettagli», cui seguono una serie di presenze sensibili, tattili, che formano una natura morta che abbaglia, una concretezza povera e graffiante; potrebbero sembrare simboliche, ma non hanno a che fare con nulla di alogico né con una rappresentazione figurale: il «muro», la «candela», le «foglie», le «spine» del recinto e le «spine di terra che bruciano i talloni». Questa combinazione innesca una dialettica tra il momento della visione e il momento della scomposizione della visione, attraverso il quale si raggiunge una proiezione catartica nel finale che fa la somma, trascende e cristallizza l’itinerario conoscitivo.
La dialettica tra il momento della visione e il momento della sua scomposizione si manifesta in uno stile che unisce punti contratti e punti distesi, pause riflessive e cortocircuiti visionari. Questo si verifica a livello della metrica, con versi di misura lunga e breve che danno una struttura molto elastica ai movimenti strofici, insieme all’alternanza tra frasi ‘chiuse’, definite da punteggiatura, e frasi ‘aperte’, che ne sono sprovviste. Sulla stessa linea, in altri testi del libro si trova anche una commistione tra verso e prosa poetica, o tra versi di misura tradizionale e versi molto lunghi con un ritmo autonomo e dissonante rispetto agli altri. Inoltre, i vocaboli sono scelti secondo una duplicità tra astratto e concreto, e i verbi sono distinti tra quelli che hanno un’incidenza narrativa o drammatica, che delimita un momento, una riflessione, uno stato d’animo («correva», «volevo», «chiamo»), e quelli con un’incidenza quasi oracolare che apre alla visionarietà («è», «occorre»).
La poesia dell’Anedda elabora così un universo materiale nella vita dei dettagli, fissata sula rete tra il momento della visione e il momento della sua scomposizione. Questo universo delinea, nel compresso di Notti di pace occidentale, una focalizzazione su due nuclei tematici principali: quello del corpo e quello della lingua.
Come si nota fin dalla poesia incipitaria (Vedo al buio…), il corpo rappresenta la realtà sensibile e cosciente dell’io. L’io è corpo, è allargato dall’individualità alla materia, è il contatto tra l’individualità e i dettagli del mondo. In un rispecchiamento protratto tra luce e buio, tra conoscenza e smarrimento, l’io-corpo non ha nulla della fisicità viscerale con cui il corpo, dagli anni Settanta in poi, è stato rappresentato in poesia, soprattutto nelle scritture femminili. L’io-corpo indica un esistere che è anche un meta-esistere, una fisicità che tende a trasformare la sua materialità in conoscenza. Questa conoscenza corporale non è mistica né metafisica: laica e terrena, centellina i frammenti della vita resistendo alla dissipazione e ammortizza la tensione tragica assoluta in una melanconia sensibile e ragionante, come se il corpo fosse un balcone (immagine ripresa nella raccolta Dal balcone del corpo, 2008) da cui affacciarsi sul nulla con i frammenti di una resistenza.
Questa soggettività corporale diventa una cosa sola con il problema della lingua e del nome (Non volevo nomi per morti sconosciuti…, Non esiste innocenza in questa lingua…, Non del tutto vecchia…, In qualche luogo in Russia esiste la mia anima…), della funzione della scrittura (Se ho scritto è per pensiero…). La lingua non è innocente, non procede per una nominazione fiduciosa, non ha fedi, ma è, come la corporalità, uno stato di resistenza. La curvatura metapoetica che la lingua dà alla vita dei dettagli non ha la sicurezza di salvarli o assicurarli in un significato assoluto, come può avvenire nel rapporto tra lingua e oggetti del lirismo tragico di De Angelis. La lingua e i nomi sono una forma di prova costante nei confronti della vita. Così la scrittura che nega sia le suggestioni edonistiche, la spiritualità orfica e ogni tipo di ‘poetichese’, sia la referenzialità oggettuale e il realismo, pur portando i dettagli della realtà nei testi con concretezza materica. La scrittura supera la necessità di una poetica, sa che «nulla è difeso» e che si deve tentare lo sforzo di reperire le parole come i dettagli e di farle combaciare con i dettagli per assicurare loro un significato temporaneo, ma che sta tenace in questa vita:
[…]
Scrivi perché nulla è difeso e la parola bosco
trema più fragile del bosco, senza rami né uccelli
perché solo il coraggio può scavare
in alto la pazienza
fino toglierle peso
al peso nero del prato.
(Se ho scritto è per pensiero…, vv. 16-21)
Oltre ogni sovrastruttura e vincolo di poetica, la poesia di Antonella Anedda rappresenta una delle frontiere migliori nel lirismo rifunzionalizzato di fine secolo. La soggettività lirica è spogliata dall’espressione radicalmente individualista del sé che si era diffusa negli anni Settanta, per cui la lettera del testo poteva apparire spesso come mera appendice di un’affermazione individuale. L’autonomia espressiva viene calibrata nel senso di una scrittura come conoscenza. La lingua si articola con fluidità tra diverse prospettive (astratto/concreto; universo/dettaglio) e scelte formali coerenti ad esse, mantenendosi integra in una intenzione conoscitiva, etica e morale.
_______________
NOTE
L’immagine è un’installazione di Daniel Buren
iCfr. Umberto Fiori, La poesia è un fischio. Saggi 1986-2006, Milano, Marcos y Marcos, 2007, p. 38.
iiUmberto Fiori legge “Occhiata” (I poeti leggono se stessi /4), rubrica di auto commenti a cura di Maria Borio, cit., http://www.nuoviargomenti.net/poesie/umberto-fiori-legge-occhiata-i-poeti-leggono-se-stessi4/.
iiiCfr. Umberto Fiori, Case, Introduzione di Maurizio Cucchi, Genova, San Marco dei Giustiniani, 1986.
ivAndrea Afribo, Perdere tutte le bravure, Introduzione a Umberto Fiori, Poesie 1986-2014, cit., p. VI.
vCfr. Umberto Fiori, Tutti di tutti, «Il gallo silvestre», 11, 1999.
viId., Quattro chiacchiere sulla similitudine (Le forme delle poesia /1), nella rubrica che prende in esame le forme retoriche e stilistiche della poesia attraverso i commenti dei poeti, a cura di Maria Borio, 26 gennaio 2015, «Nuovi Argomenti»: http://www.nuoviargomenti.net/poesie/quattro-righe-sulla-similitudine-le-forme-della-poesia-1/.
viiCfr. Antonella Anedda, La vita dei dettagli, Roma, Donzelli, 2009.
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