Senza camice. Insegnare dopo la medicalizzazione della scuola
Questo saggio, in una versione leggermente più estesa, uscirà su «Educazione democratica», Anno V, numero 9, gennaio 2015. Il numero, curato da Alain Goussot, è un monografico dal titolo Oltre la medicalizzazione: tornare a educare. Si ringraziano la redazione e le Edizioni del Rosone per la gentile concessione.
L’invenzione di una malattia
Nel dibattito pubblico, quando si affrontano questioni didattiche, ed in particolar modo di didattica speciale, di sovente ci si sofferma sui significati delle parole. Il conflitto delle opinioni si tramuta così spesso in una disputa linguistica, quasi che la capacità di definire un campo semantico coincida con la possibilità di occupare posizioni di rilievo all’interno di un campo specifico del sapere e del potere. Questa tendenza si è registrata negli anni Settanta-Novanta con le parole-emblema disabilità, diversità, handicap e più di recente con gli acronimi DSA e BES.
A titolo di esempio si ricordi la questione terminologica sorta intorno ai BES. Nel maggio 2013 la polemica è stata incentrata appunto sul senso delle parole e così agli sforzi definitori e chiarificatori di una parte:
«il concetto di “bisogno” ha anche delle connotazioni negative nella nostra lingua e credo che tale negatività condizioni troppo alcune posizioni critiche nei confronti del concetto di BES, ma questo effetto alone improprio va superato»,1
sono state contrapposte precisazioni nominalistiche di docenti e studiosi in aperto dissenso:
«quando, un qualsivoglia provvedimento permette l’impiego di una tale terminologia (che sia “I miei alunni con DSA” o “i miei alunni con Deficit di Attenzione ed Iperattività” “i miei alunni con BES” o “con FIL”…) anziché chiamare per nome e cognome ogni singolo studente, nasconde l’ottica della ghettizzazione»2
La focalizzazione dei problemi didattici in termini linguistici e semantici non avviene solo nei dibattiti. Non sono infrequenti, infatti, testi o capitoli di manuali interamente incentrati sulle parole- chiave del lessico pedagogico e didattico-speciale.3
Come e perché questo avvenga può essere meglio chiarito uscendo dallo specifico disciplinare di cui ci stiamo occupando, esulando dai problemi da esso posti e abbandonando le parole da cui sono perimetrati. L’esperienza di un’altra coscienza storica ci consentirà forse di assumere quest’ottica straniera.
Nel 1688 Johaneses Hofer conia il neologismo pedantesco nostalgia fondendo i termini nóstos (ritorno) e álgos (dolore). Come sappiamo, oggi il termine fa parte del linguaggio comune al punto che se ne è perso l’originario significato medico. In effetti Hofer con questo termine aveva inteso classificare in senso clinico la nostalgia dei giovani svizzeri costretti a vivere lontano da casa. Dopo di lui Scheuchzer tenterà una spiegazione fisico-meccanica del “maldicasa” sostenendo che la nostalgia scaturiva da un eccesso di pressione atmosferica e individuando nel vivere in collina o su una torre dei possibili rimedi. Nel 1710 Theodor Zwingler scopre che le melodie accrescono i sentimenti malinconici dei soldati svizzeri. L’ipermnesia, cioè la presenza del passato accresciuta dal sentimento doloroso della separazione, viene perciò ostacolata vietando ai soldati di ascoltare o riprodurre melodie e motivi familiari.
Con Gregory simili processi si iniziano a cristallizzare nelle categorie di memoria affettiva e memoria involontaria, mentre in termini filosofici Kant riformula il problema sostenendo che il nostalgico non desidera il luogo della sua giovinezza, ma la sua stessa giovinezza. La parola sta insomma subendo uno slittamento semantico che sarà portato a compimento dalla letteratura della nostalgia con i suoi topoi e il suo immaginario, nei quali il sentimento disadattato della gioventù romantica troverà espressione (si pensi alla letteratura dell’esilio o a ad opere come il Guglielmo Meister in cui la distanza diviene allegoria della separazione dell’uomo dall’ideale).
Ma se la letteratura metaforizza e interseca le definizioni e la filosofia estende e dissemina i concetti, la medicina continua per la sua via – tracciata dalla botanica sistematica – a ricercare le varietà morbose del “maldicasa” e a specializzare il termine: Pinel disegna un quadro clinico della nostalgia (confondendone i sintomi con la tubercolosi), Esquirol mette a punto «i metodi del trattamento morale della nostalgia» (convincendosi che per curare il nostalgico è necessario distruggerne l’idea fissa o con inganni pietosi o, all’occorrenza, con metodi brutali). L’esito di questo intenso lavorio linguistico-descrittivo è che alla fine del Settecento la nostalgia è riconosciuta in tutta Europa come male mortale. E’ stata inventata una malattia.
Ho ampiamente ripreso quanto scritto dal medico, critico e saggista ginevrino Starobinski in L’inchiostro della malinconia4 perché questo libro dimostra che «non si può cogliere nulla di un sentimento se non al di là del punto in cui viene nominato, nel quale si designa e si esprime».5 In altri termini, se le cose preesistono alle parole che li nominano, ci sono cose che iniziano ad esistere per la coscienza riflessiva solo nel momento in cui vengono nominate. In ogni epoca la verbalizzazione di un problema funziona al contempo da punto di innesco di una riflessione critica e da dispositivo che fissa, propaga, generalizza l’esperienza di cui è indizio. Ciò lo si vede meglio in tempi lontani dal nostro: che gli esuli languissero lontano dalla patria non era una novità, la novità alla fine del Seicento sta nell’attenzione del medico, nella sua decisione di considerare quel fenomeno come un’entità morbosa. E tuttavia questi tempi lontani possono essere a noi accostati: che vi siano bambini e ragazzi in difficoltà didattica non è una novità, le novità stanno nello spettro semantico, nel reticolo concettuale a cui si vogliono far afferire oggi queste difficoltà. Insomma:
«prima di essere riconosciuti come condizioni anomale, certe malattie sono vissute semplicemente come turbolenze nel corso abituale della vita, dal quale nessuno pensa di separarle. Finché il paziente non pensa di chiedere l’aiuto del medico, finché il linguaggio specialistico non prevede vocaboli che possono distinguere questi disturbi, la loro esistenza è nulla»6.
Il che, senza incorrere in banalizzazioni relativistiche, non vuol dire semplicemente che prima dei BES o dei DSA c’erano solo studenti in difficoltà, ma che ciò che è stato portato nel campo della scuola insieme alla parola BES è lo sguardo patografico che presiede a quell’atto linguistico. Con i nomi specializzati DSA e BES si medicalizza il rapporto di insegnamento e apprendimento,7 nasce una nuova coscienza pedagogica.
Credo che sia per questo che la disputa sul linguaggio pedagogico e didattico impiegato nei documenti ministeriali e nel dibattito scientifico sia diventato da alcuni anni a questa parte centrale.8 Siamo all’opposto dei giochi linguistici del postmodernismo messi a tema da Lyotard9: studiosi, esperti e insegnanti oggi si contendono un potere di nominazione che ciascuno sente per sé e per gli altri ormai sintomaticamente insufficiente e non riconosciuto.
Il potere di nominazione e gli insegnanti-medici
Anche se nel campo della scuola una parte residuale e combattiva di insegnanti cerca tenacemente di parlare un linguaggio “proprio”10 (che molto sommariamente può essere evocato con i termini ‘pedagogico’, ‘educativo’ o ‘utipistico’) e di non essere parlata da un linguaggio “altro” (identificato con un linguaggio ‘iatrogeno’, ‘burocratico’, ‘tecnocentrico’ o’economicista’), il potere di nominazione sulle questioni educative non è più assegnato in via esclusiva (se mai lo è stato) agli insegnanti. Anche in questo caso la questione è più evidente e interessante se messa a fuoco da lontano.
Prendiamo a campione il tema, recentemente rilanciato anche dal documento la Buona scuola, della formazione degli insegnanti di sostegno, cioè della loro specializzazione. Sotteso alle parole «specializzazione all’insegnamento» vi è un aspetto di più antico conio che rimanda alla concezione sociale del docente. Se vi badiamo, infatti, dietro la parola «specializzazione» è ravvisabile un’ipotesi di parcellizzazione del lavoro al fine di renderlo più efficiente. La merce culturale, inclusa quella didattica, come qualsiasi altra merce è prodotta con maggior profitto se alla sua base vi è un’organizzazione razionale del lavoro. Tale processo contraddistingue la produzione dei beni culturali già a partire dall’età giolittiana. In questo periodo gli intellettuali, e con essi gli insegnanti, diventano dei salariati soggetti alle medesime leggi che governano qualsiasi altro lavoratore. Tuttavia, la massificazione e proletarizzazione del ceto intellettuale, seppure di antica data, si compie pienamente solo nella società capitalistica avanzata e cioè, se parliamo dell’Italia, fra la fine degli anni Sessanta e gli anni Novanta, quando, ormai definitivamente congedata la concezione umanistica e idealistica dell’insegnante come missionario e intellettuale, si impongono strutturalismo e cognitivismo, e quando la legislazione scolastica riceve un forte impulso riformatore. Evidentemente si è affermata nei nostri anni quella che Ricuperati11 chiamerebbe una nuova «funzionalità politica» del ruolo del professore;12 in ragione di tale funzionalità il docente deve essere addestrato, quasi come un operaio specializzato, a svolgere utilmente e senza intoppi il proprio mestiere. L’insegnante-specializzato è la più recente incarnazione dell’intellettuale declassato d’età giolittiana. D’altronde non è un caso se nelle gerarchie invisibili che sovra-ordinano la scuola, i docenti di sostegno, iperspecializzati nella mediazione didattica e privi di un mandato più ampio quale quello della mediazione di un oggetto disciplinare, siano spesso ritenuti degli insegnanti in tono minore e con poteri meno ampi. Ma così inteso l’insegnante sarà o l’esecutore, più o meno capace e fedele, di protocolli predisposti altrove, oppure sarà costretto a una ribellione solitaria, a vivere cioè l’esposizione alla vita scolastica come il romance del docente coraggioso (di cui scrive Marina Polacco13 e di cui molta letteratura scolastica è talvolta enfatico documento), che cerca modi nuovi e non istituzionali per insegnare.
Sia nella veste passiva dell’ “esecutore” che in quella attiva dell’ “eroe” appare comunque chiaro che agli insegnanti, e non solo a quelli di sostegno, oggi manca l’autorità a dire,14 cioè a fondare sulle proprie argomentazioni la propria parola e le proprie azioni. L’impulso medicalizzante, l’abito clinico, la delega ai saperi medico-scientifici, immaginati come forti e oggettivabili, come rassicuranti e determinabili, come utili e misurabili, dunque surrogano – e al tempo stesso evidenziano – uno spaesamento storico e sociale nelle relazioni educative e nei rapporti di cura: più debole e disorientato dell’alunno-paziente è l’insegnante-medico. Stando così le cose può non essere scontato chiedersi se si può essere insegnanti, ovvero insegnanti normalmente riconosciuti e apprezzati, senza indossare un camice. In altre parole cosa ne è dell’insegnamento dopo la medicalizzazione della scuola?
Tre conformismi
I paradigmi culturali egemonici oggi a scuola si irradiano in tre macrodirezioni per convergere sul finale del loro dispiegarsi in uno stesso punto. Da questo punto si diramano però numerose altre possibilità, come sempre accade quando la realtà si raggruma in contraddizioni. Immaginiamo tre fasci di luce che trapassano in uno stesso punto un prisma.
La prima direttrice è tracciata senz’altro dal conformismo cognitivista. Con esso i processi prevalgono sui saperi e le performance degli studenti (ma per osmosi graduale anche quelle degli insegnanti) – intese in senso strettamente intellettualistico – predominano sulle motivazioni ed esitazioni, sulle lunghe manovre di avvicinamento15 che sempre accompagnano lo studio e l’insegnamento. Il conformismo cognitivista, con la sua idolatrica e meccanica adorazione per le competenze, si innesta sulla crisi dei saperi disciplinari (e più in generale sulla crisi della cultura occidentale) e delle relazioni liquide. Nella società della conoscenza avanzata conta solo il risultato positivo e tangibile (che perciò stesso deve essere rendicontabile attraverso i dispositivi valutativi): gli oggetti complessi e i soggetti esitanti ne sono travolti. Tutto ciò che è lento, lungo o lungamente mediato è rigettato con insofferenza, respinto nel mondo delle velleità astratte, dei giochi infantili, anch’essi minacciati, d’altronde, da un mercificazione crescente o, quando le intenzioni vogliono essere più nobili, da un utilitarismo miope, da un didascalismo opprimente che invade i tempi, i modi e i territori dell’infanzia.16
La seconda direzione è additata dal conformismo digitale. L’enfasi sulla diffusione delle tecnologie digitali e sulla informatizzazione delle scuole è una versione 2.0 della tecnocrazia moderna. Col mantra digitale si vorrebbero risolvere tutti i mali del mondo scolastico, dal costo dei libri di testo all’innovazione didattica, dai malfunzionamenti organizzativi all’ammodernamento delle pratiche gestionali, dalle difficoltà di apprendimento alle formalizzazione e condivisione di pratiche efficaci di insegnamento. Nei fatti invece il colonialismo digitale (e non il digitale in sé, come opportunamente spiega Roberto Casati17) è solo un idolo forte con il quale si cerca di rimediare innanzitutto all’assenza di una visione politica e alla sfiducia nella capacità di mediazione dei docenti. Inoltre la logica computazionale e binaria dei computer bene si accosta al cognitivismo imperante. Il rivestimento elettrico delle lezioni offre uno stile del tutto rispondente al contenutismo cognitivista. Scrive Todorov: «la nostra epoca è diventata quella dell’oblio dei fini e della sacralizzazione dei mezzi».18
Il conformismo terapeutico è la terza forte tendenza in atto nella scuola italiana. Nasce dall’imposizione degli standard cognitivisti e dalla dematerializzazione delle relazioni educative, ma anche, come abbiamo visto, dallo spaesamento della funzione insegnante, che per essere legittimato oggi è indotto a indossare vesti che non gli sono proprie. Per il conformismo terapeutico tutto quello che non va a buon fine e non può essere controllato non può che essere considerato deviante. Il conformismo terapeutico ha un fondo autoritario tipicamente neo-liberale: prima della persona c’è un risultato da raggiungere e un processo da ottimizzare. Ad esempio Dario Ianes sostiene che «il concetto di BES non è clinico, né tantomeno medico. Non lo si trova infatti in alcun sistema di classificazione delle patologie, tipo ICD 10 o DSM V. Il concetto di BES è politico, nella misura in cui stabilisce, come macro categoria, quali siano le situazioni che hanno diritto a forme di individualizzazione e personalizzazione nella scuola». Concordo: il concetto di BES è politico, ma, va anche precisato, politicamente conservatore poiché «rispecchia l’autocomprensione etico-politica di una cultura di maggioranza, predominante per tutta una serie di ragioni storiche».19 Questa cultura ha paura, poiché si regge sui meccanismi ansiogeni ed autodistruttivi innescati dalla dittatura del PIL, ed è insicura sino al punto di scambiare i rapporti di cura fra le generazioni con le cure sanitarie, più asettiche senz’altro, ma al fondo non meno dolorose.
Un punto prismatico
Il punto in cui i tre conformismi convergono lo definirei disumanizzazione della scuola20. Ma la disumanizzazione della scuola non è un punto di arrivo, è semmai uno squarcio aperto in seno ad essa. Un punto prismatico.21 Ed infatti, dalla crisi di nominazione non emerge solo la babele dei linguaggi e la sempiterna lotta dei gruppi sociali per la conquista di un’egemonia, ma si irradia anche un bisogno di condividere significati, di superare il pastiche linguistico postmodernista.
Al medesimo tempo dalla crisi dell’insegnante esecutore, costretto a indossare un camice, non si generano solo gli slanci generosi e solitari di insegnanti-eroi ma anche una nuova spinta autolegittimante ben viva in autori come Morin o Recalcati e così riassunta da Bajani: «servono insegnanti che si assumano la responsabilità politica di insegnare a immaginare un nuovo mondo».22
Ancora la disumanizzazione della scuola è un punto prismatico perché dalla sanitarizzazione della scuola, dall’isolazione e dal confinamento delle persone, o dalla medicalizzazione degli insegnamenti non emerge solo la crudezza di un apparato produttivo che è diventato anche educativo e si è dotato di dispositivi di controllo e autoconservazione, ma anche la constatazione che il riconoscimento della pluralità delle specie umana è fecondo solo se ci permette di non rinunciare alla nostra comune umanità. I BES che stigmatizzano per via documentale i ragazzi scarsamente performativi come i cappucci e i sonagli stigmatizzavano per via visiva e uditiva i lebbrosi ci mostrano che ogni comunità deve non solo costruire ma anche tenere aperti i suoi confini, diversamente cessa di essere una comunità e diviene un reparto e in un reparto nessuno può vivere felicemente.
Dopo la medicalizzazione della scuola, forse sono essenzialmente queste possibilità di umanizzazione delle persone e delle loro vite che possono essere insegnate alle nuove generazioni. C’è da lavorare negli interstizi, dopo aver guardato la luce attraversare la forma solida e compatta del prisma rifluire in molteplici direzioni.
1 D. Ianes, Bisogni educativi speciali. Alcune opportunità da cogliere, in http://www.laletteraturaenoi.it/index.php/la-scuola-e-noi/scuola-e-universita/143-bisogni-educativi-speciali-alcune-opportunità-da-cogliere-il-dibattito-sui-bes-3.html#comment-71.
2 E. Terracchini, V. Bocchini, I Bisogni umani di crescita ed apprendimento non sono speciali, in http://www.laletteraturaenoi.it/index.php/scuola_e_noi/164-i-bisogni-umani-di-crescita-ed-apprendimento-non-sono-speciali-il-dibattito-sui-bes-9.html.
3 Basti ricordare E. Marescotti, Le parole chiave della pedagogia speciale, Carocci, Roma 2006.
4J. Starobinski, L’inchiostro della malinconia, Einaudi, Torino 2012.
5Ivi, p . 207
6Ivi, p. 210
7Ma lo stesso avviene negli altri campi dell’educazione. Si pensi alla propensione di genitori ed educatori a trattare l’adolescenza come un problema sanitario cfr. Silvia Vegetti Finzi, L’età incerta. I nuovi adolescenti, Mondadori, Milano 2001.
8Ad esempio Franco Cambi, Le pedagogie del Novecento, Laterza Roma-Bari, 2012 pone come problema critico «l’espropriazione del pedagogico» ed invita la comunità scientifica ad un lavoro comune per non far decadere la pedagogia a mera tecnica e per mantenerne il valore di sapere riflessivo.
9F. Lyotard, La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere, Feltrinelli, Milano 1979. Secondo Lyotard nella società postmoderna il legame sociale osservabile è quello delle mosse linguistiche, in cui ciascun attore si cimenta con spirito agonistico in giochi linguistici ispirati a criteri di performatività. Per Lyotard è il gioco linguistico stesso il nuovo legame sociale. Oggi, al contrario, mi pare che la ricerca spasmodica di parole d’ordine indichi il bisogno di ricostruire un terreno comune, o meglio di “occupare” lo spazio culturale di un altro per imporre una qualche forma di Koinè.
10Si pensi al valore testimoniale che hanno assunto in questi anni i documenti collettivi dei collegi docenti, dei coordinamenti o delle associazioni degli insegnanti. Ma soprattutto si vedano i libri dedicati all’esperienza dell’insegnamento su cui ha scritto pagine lucide C. Bertoni, «Se questa è vita?»: scuola e università, Between, III.6 (2013), http://www.Between-°©‐ journal.it/, specie trattando della figura dell’insegnante d’eccezione che emerge in molti romanzi di docenti: «nei loro racconti tutto il fascino, la passione, il peso dell’insegnamento si condensano nel loro singolo, eccezionale slancio, che fa maggiormente emergere l’opacità del contesto».
11G. Ricuperati,La scuola nell’Italia unita in Storia d’Italia, vol. XVIII, Einaudi, Torino 2005.
12Su La funzionalità politica del lessico scolastico cfr. E. Annaloro, Il senso delle parole. La funzionalità politica del lessico scolastico, in Chichibío 40, anno XVIII, novembre-dicembre 2006, p. 2.
13 M. Polacco, «E quell’infame sorrise». A proposito di somari scolastici e della loro rappresentazione, in Between, III.6 (2013), http://www.Between-journal.it/, pp. 18-19.
14L’espressione è parafrasata da E. Said, Dire la verità. Gli intellettuali e il potere, Feltrinelli, Milano 1985.
15L’espressione è presa a prestito da F. Lorenzoni, I bambini pensano grande. Cronaca di un’avventura pedagogica, Sellerio, Palermo 2014.
16Sul tema dei giochi infantili segnalo l’illuminante articolo di E. Zinato, Verifica delle parole: scuola, gioco, educazione, intrattenimento, in «Le Parole e le Cose » del 30 dicembre 2013, http://www.leparoleelecose.it/?p=1218
17R. Casati, Contro il colonialismo digitale. Istruzioni per imparare a leggere, Laterza, Roma-Bari 2013 e in modo ancora più nitido nel suo Glossario per affrontare la migrazione digitale, in http://www.laletteraturaenoi.it/index.php/interpretazione-e-noi/223-glossario-per-affrontare-la-migrazion digitale.html
18 T. Todorov, Lo spirito dell’illuminismo, Garzanti, Milano 2006, p. 85
19J. Habermas, L’inclusione dell’altro. Studi di teoria politica, Feltrinelli, Milano 2008, p. 157.
20La definizione è mutuata dal celebre saggio di Ortega y Gasset, La disumanizzazione dell’arte, SE, Milano 2001. Della necessità di umanizzare la vita ha invece scritto F. Dolto.
21Ad esempio F. Rella, Miti e figure del moderno, Feltrinelli, Milano 1981, sostiene che la malattia contenendo un eccesso di esperienza, permette un nuovo sguardo. E’ così in Kafka in cui la malattia, mitologizzandosi, si presenta come la verità.
22 A. Bajani, La scuola non serve a niente, Laterza, Roma-Bari 2014; Propende per questa stessa prospettiva E. Morin che definisce l’insegnamento un compito di salute pubblica, una missione fondata sull’eros o desiderio della conoscenza. La centralità del desiderio nell’insegnamento è affermata con forza anche da M. Recalcati, L’ora di lezione, Einaudi, Torino 2014.
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