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diretto da Romano Luperini

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Su “La grande bellezza”

La grande bellezza è un film indubbiamente di qualità. Non un capolavoro, ma un buon film. Ottimo attore protagonista, ottima fotografia, ottimo ritmo cinematografico che rende piacevole la visione.

Il suo argomento è la corruzione presente, la crisi morale e civile di Roma e dell’Italia d’oggi, e il rimpianto per un passato splendido e tramontato per sempre. Ma questo argomento, che pure sarebbe oggi centrale, è trattato con troppi compromessi espressivi, che finiscono per essere anche morali. Questi compromessi hanno reso il film gradevole e indolore. E hanno certamente collaborato a fargli vincere l’Oscar.

Il principale di questi compromessi è costituito dai luoghi comuni che vi abbondano e che probabilmente favoriscono la visione del film e rassicurano il lettore. Troppi.

Luoghi comuni filmici, anzitutto. Quella Roma decadente è un luogo comune. Il film è una ripresa di cose note, paesaggi urbani, circostanze e situazioni in buona misura mutuati da Fellini e soprattutto da La dolce vita, un film più volte riecheggiato molto da vicino, anche in alcune tesi di fondo.

E poi luoghi comuni, per dir così turistici, di un modo di vedere Roma e l’Italia molto diffuso all’estero, un modo, direi, un po’ ovvio e smaltato, a volte al limite della cartolina illustrata o dell’articolo di giornale. Un esempio: la inquadratura della nave Concordia ripiegata su se stessa all’isola del Giglio, inquadratura che riprende una immagine che ha fatto il giro del mondo. Naturalmente ha un valore simbolico, vuole alludere alla crisi italiana. Ma perché il protagonista-giornalista ha deciso di andare al Giglio? La scena vuole essere una strizzatina d’occhio (una delle tante) al pubblico e ai mercati internazionali oppure ha qualche funzione narrativa che lo spettatore però non percepisce? E in questo secondo caso perché la macchina da presa non va su quella nave, non mostra da vicino l’orrore e si limita alla divulgatissima (e anch’essa, in fondo, smaltata) immagine da lontano?

Luoghi comuni politici: per esempio, è troppo logora e ormai fuori corso la figura della intellettuale militante di sinistra che frequenta i salotti per celebrare il proprio impegno etico-civile, si lamenta perché esso non viene più accolto con la gratitudine e l’entusiasmo di un tempo, e subisce perciò il sarcasmo del protagonista, giusto ma scontato.

Luoghi comuni letterari: la figura dello scrittore protagonista è vecchia, la letteratura francese e in parte anche quella italiana (per esempio: Brancati) hanno offerto molte volte questa immagine di intellettuale stanco e ironico, scettico e sarcastico, che ha pubblicato in gioventù un bel libro e, non scrivendo più, ora vive nel suo ricordo. La figura si riscatterebbe se venisse trattata in modo critico e grottesco, e invece la simpatia del regista (e dell’attore che lo interpreta) è anche troppo esplicita.

Il fatto è, insomma, che il film non ha la cattiveria che vorrebbe e dovrebbe avere. Né bastano a riscattarlo del tutto gli aspetti surreali, d’altronde anche troppo esplicitamente felliniani.

Poi certo La grande bellezza ha i suoi momenti di intensità. Anche qui un esempio. La rievocazione della vita e della morte di Moana Pozzi non è affatto smaltata, e la sua dolente implicita denuncia della corruzione romana risulta perciò estremamente efficace.

La grande bellezza è un film piacevole. Ma manca di energia. Vi manca, direi, la forza della negazione. La gradevolezza è appunto il suo limite.

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