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A proposito dell’appello per le scienze umane

Tre studiosi di indirizzi diversi e di diverse idee politiche, Asor Rosa, Esposito e della Loggia, hanno firmato sulla rivista «il Mulino» (2013, 6) Un appello per le scienze umane (pure loro, dunque, chiamano «scienze» le discipline umanistiche, pur rimproverando nel loro manifesto l’andazzo attuale, anche nelle università, a chiamare “scienza” anche gli indirizzi di tipo storico ed ermeneutico). Il manifesto contiene molte prese di posizione pienamente condivisibili sul collasso dei modelli culturali del passato e sul «retaggio» (termine ricorrente) «di cui la tradizione umanistica è parte fondamentale», contro la marginalizzazione delle «scienze umane», la tecnicizzazione dell’insegnamento anche in campo umanistico, l’uso indiscriminato (e spesso grottesco e caricaturale) della lingua inglese, i sistemi di valutazione mutuati dalle discipline che si applicano alle scienze della natura, alla medicina e alla matematica. Benissimo, erano cose già note e più volte dichiarate (anche dal sottoscritto, per quel poco che può valere, e anche recentemente in Tramonto e resistenza della critica), ma che ora vengano riprese e rilanciate da tre studiosi di grande autorità non può che fare piacere.

Il problema non è quello che c’è, è quello che non c’è. Mi spiego. Di fronte alla crisi culturale attuale si può rispondere in vari modi. Quello scelto dai tre studiosi è l’arroccamento, la difesa unilaterale, priva di sfumature e spesso retorica, del passato. Manca, per esempio, la nozione di relativismo che andrebbe applicata pure alla tradizione dell’umanesimo, invece esaltata in blocco, non senza esplicita ripresa delle tesi, persino ingenue nel loro entusiasmo, della candida Nussbaum. Prendiamo il nesso fra umanesimo e democrazia, su cui molto si insiste nell’Appello. E’ vero: le discipline ermeneutiche possono essere scuola di democrazia perché insegnano la relatività (appunto!) delle interpretazioni e dunque possono insegnare anche metodi di studio e di discussione fondati sulla tolleranza e sul rispetto degli altri. Ma la democrazia moderna è nata in Inghilterra da una tradizione fortemente collegata al metodo scientifico, all’empirismo e allo sperimentalismo (anche in campo filosofico: basti pensare alla linea che va da Guglielmo d’Ockam a Newton, passando attraverso Locke, che è stato, come è noto, uno dei padri dello Stato liberale quando da noi “umanisti” imperavano la Controriforma e l’alleanza fra Trono e Altare, che fra l’altro i tre autori, volti alla celebrazione della tradizione italiana, sembrano voler rivalutare).

Fa specie che sottoscriva tanta passione un intellettuale “di sinistra” come Asor Rosa (d’altronde ammiratore, non da ora, della Controriforma) che pure dovrebbe aver assimilato qualcosa da Benjamin e da Said o anche solo dalla scuola di Francoforte. L’umanesimo è stato anche privilegio e «boria di dotti», avrebbe detto un autore più volte citato dai tre autori, Vico; ha conosciuto, come l’illuminismo di Adorno e Horckeimer, una sua «dialettica», è attraversato da una contraddizione. A suo tempo non dovremmo avere imparato che non c’è documento del nostro patrimonio culturale che non sia anche documento di barbarie e che, nella storia della civiltà occidentale e della sua cultura più prestigiosa, splendore e orrore, Beethoven e Hiroshima, democrazia e dittatura, sono strettamente intrecciati? E a fondamento del nostro umanesimo c’è pure un libro, l’Iliade, che un altro autore dimenticato, Simone Weil, vedeva come il «poema della forza» e di un mondo abbandonato da Dio.

In fondo i nostri tre autori hanno in comune solo la formazione culturale, il Liceo Classico di una volta, la nostalgia del quale circola ampiamente nell’Appello. Ma l’ideatore di quel liceo classico e dell’idea dell’umanesimo come fondamento della classe dirigente non era propriamente un teorico della democrazia. Ranuccio Bianchi Bandinelli raccontava che Hitler, visitando nel maggio del 1938 gli Uffizi a Firenze, di fronte ai capolavori della pittura italiana, esclamasse, rivolto a Mussolini e agli altri accompagnatori riverenti (fra i quali lo stesso filosofo del fascismo, autore della riforma della scuola e ideatore di quel liceo classico): «Fortuna che ci siamo noi a salvare questo patrimonio culturale; se vincessero i bolscevichi, lo distruggerebbero».

L’umanesimo ha due facce: ha insegnato e può insegnare la democrazia come il suo contrario. Bisogna scegliere. Nell’epoca del precariato e della emigrazione di massa dei lavoratori della conoscenza da un lato e della invasione dell’Europa da parte dei popoli affamati (e da chi, poi, se non da noi e dai nostri padri e nonni, non importa se “umanisti”?) dall’altro, non mi pare che basti un arroccamento sulle italiche glorie del passato.

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