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diretto da Romano Luperini

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Il tramonto della saggistica

Sto per pubblicare la mia ultima raccolta di saggi (uscirà fra poco presso Quodlibet). Di saggi (di critica letteraria o di critica della cultura o al confine fra cultura e politica) non ne scriverò più. Giustificano questa affermazione anzitutto le ragioni dell’età e del logoramento che questa comporta. Ma ci sono anche altri motivi di natura culturale e politica. Da quaranta anni, e nel libro stesso che sta per uscire, batto e ribatto sugli stessi temi: la condizione intellettuale, lo stato della letteratura e della critica, la storicizzazione del presente. Ma, quando ho pubblicato le prime due raccolte (Marxismo e letteratura, 1971, e Marxismo e intellettuali, 1974), i libri di saggi potevano avere ancora un’eco nella società civile e nei movimenti di lotta. Oggi chi scrive sulla letteratura e sulla condizione intellettuale si rivolge tutt’al più a una cerchia ristretta di specialisti o, peggio, di lettori coatti (colleghi e studenti): una circolazione a circuito interno. Per chi si scrive e per cosa si scrive sembra diventata questione superflua: pare ovvio infatti scrivere per la carriera accademica, o giornalistica, o per un successo comunque destinato a bruciarsi in pochi giorni, anche quando (molto raramente, peraltro, almeno nel campo da me frequentato) scoppino casi mediatici che possono dare qualche immediata risonanza. Per me ovvio non è. Lo testimonia, spero, il libro che sta per uscire, che si ostina a cercare interlocutori nei movimenti che attraversano la società italiana e nelle persone di cultura che si sforzano di trovare un senso politico e sociale nella loro specifica attività, e a interrogare i testi letterari in cerca di un segno dei tempi che possa dare significato alla nostra esistenza. La cultura non dovrebbe essere, come oggi si dice, un bene comune? Una dimensione, insomma, che esige un discorso anzitutto politico e che riguarda la vita di tutti?

Il guaio è che, a considerarla così, siamo rimasto in pochi. Il genere saggistico, come momento di tensione fra impegno etico-politico e impegno culturale, è ormai al tramonto. L’editoria non lo vuole più, perché non ha pubblico: manca, infatti, una comunità di uomini colti come è esistita in Italia, nel bene come nel male, sino a trent’anni fa. Il genere “saggio” è stato sostituito dalla ricerca accademica che si rivolge a una cerchia di specialisti ( e che viene ininterrottamente alimentata, a un livello sempre più basso, dai criteri quantitativi ormai prevalenti nei metodi di valutazione e nei concorsi) e dall’intrattenimento giornalistico, che si rivolge a tutti e deve essere perciò poco problematico, gradevole e facilmente accessibile. Come è declinata la figura storica dell’intellettuale quale si era andata delineando dall’Illuminismo a oggi, così nell’ultimo trentennio sta venendo meno la sua forma specifica di espressione, il saggio politico-culturale. Forse è giunto davvero il momento di darle congedo.

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NOTA

Questo intervento verrà pubblicato sul prossimo numero de L’Immaginazione.

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