Vedevo quel segno, quello stemma, inciso sulla curva rotonda. Il tuo corpo bianco e roseo era bocconi sulla coperta rossa. Ti guardavo, la mia mano ti sfiorava, percorrevo l’arco della schiena, scendevo sulle caviglie, indugiavo sull’incavo del ginocchio, risalivo a quelle due rotondità lisce e sode, le aprivo delicatamente, ne scoprivo il solco, ne accarezzavo l’interno con un dito.
Poi sentivo la tua lingua che mi esplorava il bordo della bocca, mi percorreva l’interno della labbra, come sai fare tu, e intanto sentivo con la mano il tuo umido, là in fondo, te lo davo a succhiare con il dito, e ti vedevo la lingua, un poco arrovesciata che si muoveva sul labbro superiore, sentivo contro il palmo della mano il duro dei tuoi capezzoli, e poi eri tu che mi mettevi la mano fra i capelli mentre con le labbra ti cercavo, e trovavo il punto tenero, lo stringevo fra le labbra, lo percuotevo con la punta della lingua, mentre la tua mano era fra i miei capelli e dolcemente premeva, e sospiravi piano, e il tuo bacino cominciava ad alzarsi e ad abbassarsi, e allora dicevo “no, voglio farti aspettare, devi soffrire un poco”, e distoglievo le labbra, ti voltavo, i miei denti scostavano l’onda dei capelli, sentivano il sapore della nuca, la dolcezza delle spalle, e poi di nuovo sono tornato lì con la bocca, e bevevo il tuo umore, lo sentivo colare fra le labbra, e di nuovo ti vedevo la bocca che si apriva e ti sollevavi e spingevi verso la mia lingua e ancora un poco ti lasciavo per poi riprenderti un’altra volta, e ti muovevi, ti muovevi con le anche e ti strappavo un gemito, sino a farti sussultare… poi stavi calma, tutta distesa, supina, non serravi le gambe, le tenevi larghe, abbandonate, e non piangevi, mi guardavi, e avevi un tuo lungo sorriso che mi avvolgeva tutto, ampio, dolce, quieto.
Poi eravamo fuori, fra cespugli bassi, su un sentiero di rena. Sapevi la strada. “Sembra Cala di Forno”, ho detto, quando ho visto il mare. C’era una baia, con rocce ai lati. “Mettiamoci a sedere”, hai detto, “sentiamo il canto degli uccelli”, e si stava seduti lì, fra il bosco e il mare, e parlavamo sottovoce e io ti indicavo le diverse specie, le riconoscevo dal canto. Poi camminavamo nel mare, andavamo fianco contro fianco, l’acqua era già sopra i ginocchi. “Vieni”, hai detto, “andiamo verso quelle rocce”, e mi guidavi verso sinistra. La mia gamba destra nuda toccava la tua sinistra. Camminavamo insieme nell’acqua. Ti cingevo la vita con il braccio, sentivo la snellezza del tuo corpo, vedevo l’impronta dei tuoi capezzoli sul costume. “Guarda”, hai detto indicando un incavo della roccia, “un nido”. C’era un nido, ma non di gabbiani, c’erano sette uova piccole, era di uccellini di campagna, uguale a quello che stava in un ciglione, dietro la casa del poggio, tanto tempo fa, un giorno di Pasqua. “Vai a prendere tuo figlio”, ho detto,” facciamoglielo vedere”. Sei andata, e correvi in mezzo all’acqua, la facevi spruzzare, vedevo le tue spalle nude che si muovevano e si allontanavano, saltellavi nell’acqua con quei tuoi passetti veloci e leggeri, come se tu ballassi, come se tu camminassi sulle punte, e poi eri già sulla sabbia della spiaggia e saltellavi via, e non ti vedevo più, eri sparita, e io mi accucciavo per terra, mi piegavo sul mio ventre, e di colpo ero solo per sempre, stringevo il mio ventre, e piangevo.
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