La diffrazione fra tono e contenuto. Daniele Giglioli su “L’uso della vita”/3
Colpisce, in L’uso della vita. 1968, terzo romanzo di Romano Luperini, la diffrazione tra il contenuto incandescente e il tono, come definirlo? Triste no. Cupo nemmeno, e neanche amaro. Slontanato, forse; insieme partecipe e distante. E colpisce ancor più se si pensa che l’autore, oggi uno dei nostri massimi italianisti, è stato attore di primo piano negli eventi narrati, il ‘68 a Pisa, anticipazione in pratica e teoria di tante cose che nel bene e nel male si sarebbero concretizzate di lì a poco, con l’esplosione mondiale della rivolta da Parigi a Praga, da Città del Messico a Berlino. Luperini, che definisce il suo testo «una cronaca romanzata», sfugge insieme alla Scilla euforica dell’arroganza alla «formidabili quegli anni» e alla Cariddi depressa dell’«eravamo belli e bravi, ma purtroppo…». E ovviamente non è affatto pentito, come tanti che ne hanno ricavato un mestiere, di quanto ha fatto, detto e scritto allora. Ma neppure lo rivende, tutto lustro e ammiccante, agli scontenti di oggi. Fa brillare il passato nella sua unicità, nella sua singolarità, nella sua lontananza: nessuna familiarità, nessuna morale a buon mercato. Perché diventi esempio occorre prima avvertirne la distanza.
Come in ogni romanzo storico, i protagonisti sono inventati e i comprimari celebri. Massimo D’Alema, per esempio, entra in scena con le parole: «avventurismo… disoccupare… portare a casa qualcosa»; e sarà poi sempre così. A lui si contrappone Adriano Sofri, mercuriale, inquietante, demiurgo del caos e dell’improvvisazione. Paziente e umano Luciano della Mea, generoso e plagiabile un Ovidio Bompressi appena dissimulato sotto il nome di Ottavio; tutti colti al momento della genesi, prima che i luoghi comuni si impossessino della loro vita. Romanzesco è invece il personaggio principale, Marcello, cui pure l’autore deve aver prestato molti tratti. Figlio di un partigiano, espulso dal PCI perché in contrasto con la linea del partito, non più studente ma supplente precario, partecipa agli eventi con un trasporto che non sempre scongiura un sottile senso di esclusione: sarà quella la vita, la gioia, la giustizia? Di ogni passo compiuto paga il prezzo intero, compreso un soggiorno non breve nelle patrie galere, il contrasto durissimo col padre comunista, un aborto clandestino della ragazza con cui ha scoperto la felicità di avere un corpo. I brontolii sinistri che si annunciano li avverte nelle ossa, e non per senno di poi: suo allievo è quel Soriano Ceccanti che la notte di Capodanno resterà paralizzato per un colpo di pistola nel corso della contestazione alla Bussola di Viareggio; e si intuisce che Ottavio/Ovidio, il suo più caro amico, si sta preparando quale che sia un destino tragico.
Con leggerezza mai provata, Marcello vive e pensa per la prima volta in accordo; o cerca di farlo. Ma a ricordargli la tensione insopprimibile tra i termini provvede un altro personaggio storico, Franco Fortini, cui Luperini ha dedicato da critico pagine di grande penetrazione. Anche qui, d’altra parte, il narratore e il critico si sommano, e l’autore, come diceva Manzoni, vale veramente per due. I passi in cui compare Fortini, che al movimento dedica una riprensione fraterna senza sconti, sono raffinatissimi pastiches da sue pagine celebri, prima fra tutte L’animale, una grande poesia: un topo ucciso da un predatore, a sua volta condannato dal veleno che avrebbe comunque finito la sua preda, in una splendida, lucente mattinata d’estate. Non tutto ciò brilla è vero; la coincidenza di pensiero e azione, morale e politica, è uno sconto immeritato sulla contraddizione; il «buttare tutto sé stessi» in un’impresa è mistificazione, perché il «tutto sé stessi» è un mito estetizzante. Altra fatica, altra responsabilità, altra perenne incompiutezza appartiene a chi pensa che il fine della rivoluzione sia l’«uso formale» della propria vita di cui al titolo, anche questo ricavato da Fortini. Formale perché frutto di progetto, liberato dall’insensatezza di un disordine mercantile che nella vita vede solo un fattore di profitto.
Leggerezza e progetto hanno senso solo insieme; separati, sono il veleno che ha ucciso tanto il movimento quanto il suo futuro, il presente spaventato e rancoroso che ci tocca. La serietà, la severità di tono con cui Luperini rievoca la propria storia, saldano in unità mirabile sentimento e giudizio. Sconfitto (o beffardamente trionfatore, come dicono oggi alcuni), il suo ’68 è stato l’apparizione di una verità difficile: sprecata allora, irrisa oggi, ma che non per questo ha cessato di valere.
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NOTA
Questo articolo è uscito su La lettura, inserto del Corriere della sera, il 17 febbraio 2013
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