Lettura di Corno inglese. Impressionismo, teoria, sintassi
Pubblichiamo in due tempi un commento a Corno Inglese di Massimiliano Tortora che uscirà sul n. 65 di Allegoria col titolo«Ogni apparenza dintorno vacilla s’umilia scompare».
L’impressionismo di Corno inglese: alcuni presupposti teorici
Corno inglese è costruito proprio come un’opera del “Debussy impressionista”: non solo svaluta qualsiasi istanza mimetica (il mare e il bosco della poesia montaliana, per quanto reali, non sono depositari del significato più intimo del testo), ma soprattutto richiede un’attiva partecipazione da parte del lettore. Sarà quest’ultimo infatti a dover riportare ad unità e compattezza quel quadro confuso e disordinato disegnato da Montale. Il momento disvelatore della poesia tuttavia non risiederà tanto nell’appagamento ottenuto nel finale attraverso la comprensione del significato e la mise en ordre effettuata dalla mente razionale, quanto nello spaesamento e nella sensazione di irrisolta sospensione che il lettore prova nell’atto della lettura, ossia quando si appropria del testo, o più specificamente di un testo che non conosce. È in quel frangente di smarrimento, di perdita, di non dominio perché assorbito dalle dinamiche imposte e scaturite dal componimento, che il lettore esperisce il superamento della contingenza, il dissolvimento delle categorie spazio-temporali. In questo senso Corno inglese prosegue quella lunga linea che prende le mosse, tanto per citare alcuni modelli, da L’infinito di Leopardi. Qui infatti, a partire dal v. 4 e da quel «Ma» stravagante su cui si è concentrata giustamente l’attenzione di molta critica leopardiana, il lettore, almeno fino al penultimo verso, è costretto a far convivere due diverse dimensioni temporali, quella narrativa inserita dal passato remoto incipitale («mi fu») e quella suggerita dai presenti indicativi successivi, che conducono alla «contrazione della linearità nella puntualità dell’istante»(1): sarà questa oscillazione insanabile, costretta ad esaurirsi solo nel “naufragio” del v. 15, ad offrire al lettore (e non certo all’io che tale esperienza l’ha già fatta) la sensazione dell’Infinito. Un modello, quello leopardiano, ben vivo ad inizio secolo, se addirittura Ungaretti, proprio nei termini qui esposti, non esita a farlo suo per l’Allegria. Non stupisce pertanto che anche il giovanissimo Montale, non affrancato ancora dal simbolismo e dai suoi orizzonti, finisse per ricorrere, sia pur ribaltandone le conclusioni come vedremo, al poeta moderno per eccellenza.
Alla base di tale impostazione vi è la concezione della poesia quale «medium», per dirla col Benjamin del Concetto di critica, attraverso cui raggiungere l’assoluto(2). Tuttavia, sempre seguendo il giovane Benjamin, il superamento dei consueti confini temporali e spaziali necessita sia di un percorso processuale (che nella poesia corrisponde alla costruzione del testo letterario da parte dell’autore), che di un improvviso salto (nella fase di ricezione), capace di proiettare chi legge in una dimensione altra: ed è solo in quest’ultima fase che il lettore, con un atto di discontinuità, riesce ad «afferrare d’un colpo»(3) quell’assoluto cui il testo stesso tende, senza poterlo agguantare. Se ne ricava che il lettore, in Corno inglese, finisce per rivestire un ruolo decisivo: è proprio la sua presenza a mettere in moto il dispositivo creato da chi scrive (ovvero la poesia), e a fungere da insostituibile reagente, capace, nel momento in cui lui stesso lo esperisce, di far compiere all’oggetto che osserva/legge quel salto che può coincidere nel lessico montaliano al concetto di «miracolo»(4).
La necessaria ambiguità sintattica
Come già messo in luce in più occasioni dalla precedente critica, la tessitura sintattica di Corno inglese non è solo complessa e articolata, ma in più di un passaggio anche sfuggente e di incerta ricostruzione, manchevole dei supporti e dei raccordi funzionali ad imporre un’unica e incontrovertibile interpretazione: «in questa zona di ellisse della frase sta appunto l’ambiguità lessicale e sintattica anch’essa tanto peculiare della poesia moderna»(5).
Sono stati Gian Paolo Biasin prima e Romano Luperini poi a sciogliere i nodi enigmatici del testo e a proporre quella che sintatticamente appare come la soluzione più adeguata e verosimile(6). In base alla loro analisi è «Il vento» (v. 1) e non «il mare» (v. 10) – come pure sarebbe lecito supporre – il soggetto di «lancia a terra una tromba | di schiume intorte» (vv. 12-13), frase che quindi si impone come la principale del primo segmento testuale (vv. 1-13). A questa si legano le diverse subordinate: attraverso le relative soggettive infatti apprendiamo che il vento da un lato «suona attento | […] | gli strumenti dei fitti alberi» (vv. 1, 3), e dall’altro «spazza | l’orizzonte di rame […] e il mare» (vv. 3-4, 10); mentre nel primo, «l’orizzonte», «strisce di luce si protendono | come aquiloni al cielo che rimbomba» (vv. 5-6), l’altro, «il mare», «scaglia a scaglia, | livido, muta colore» (vv. 10-11). In base a questa ricostruzione, di fatto l’unica ammissibile, lo sguardo del lettore in prima istanza si concentra sul movimento del vento che dalla riva colpisce la pineta adiacente, e poi, allargando il punto di osservazione, si spinge fino all’orizzonte rubino tipico del tramonto, per tornare, dopo aver volto l’occhio in alto verso cui tendono gli ultimi raggi della giornata, in direzione del mare e infine della spiaggia: su questa si arenano le onde «intorte», «soffiate dal ribelle | elemento alle nubi» (Arsenio, vv. 16-17). In ogni caso la dinamica del vento muove dall’esterno – l’orizzonte – verso l’interno: tuttavia a questa conclusione il lettore può giungere solo alla fine del complesso periodo sintattico, ossia al v. 13; fino a quel punto è costretto a tenere in dovuta considerazione anche tutte le altre possibili soluzioni, le quali necessariamente restituiscono immagini e movimenti diversi.
Già all’interno della lettura corretta, centrata sulla convinzione che la principale sia costituita da «Il vento […] | lancia a terra una tromba | di schiume intorte;», si nota ad esempio una seconda opzione: che il mare non sia retto da «spazza» (v. 3), ma da «protendono». In quest’ultimo caso all’orizzonte, che si fonde con il cielo, si allocherebbero sia le «strisce di luce» protese «come aquiloni», sia il mare, già scuro, che si rovescia da un colore all’altro, senza mai assumerne uno preciso (secondo un atteggiamento tipicamente impressionista, peraltro). Per quanto poi scartata, la lettura, almeno sino a quando non si è giunti alla fine del periodo, è plausibile, e fa sì che il lettore debba collocare nel quadro mentale il mare sia a riva che all’orizzonte, e da quest’ultimo proiettarlo anche verso l’alto, come suggeriscono l’orizzonte stesso e il verbo “protendere” (e tenendo presente che la contiguità con il cielo è rilanciata anche dalle «Nuvole in viaggio, chiari | reami di lassù!», vv. 7-8): il «divino amico» (Falsetto, v. 49) finisce così per occupare tutti gli spazi disponibili (vicino, lontano, alto e basso).
Meno assurda, e ben più insidiosa, tanto da continuare ad essere ammissibile anche quando si sono recepiti tutti gli elementi del testo, è la proposta – terza possibilità di lettura – di ritenere il «mare» retto da «dove», e soggetto grammaticale di «lancia». In questo modo sebbene la frase rimanga monca e la principale sia annunciata da un soggetto cui non segue il verbo (ma non è del tutto assurdo in Montale), il senso complessivo del testo è contrassegnato da una sua coesione e una sua compattezza: «Il vento che stasera suona attento | […] | gli strumenti dei fitti alberi» (vv. 1, 3), dando vita ad un concerto naturale che concerne anche l’orizzonte – dove i raggi si protendono verso il cielo e il mare, cromaticamente instabile, getta a riva le sue schiume – dovrebbe coinvolgere anche il soggetto; questo non avviene, il periodo si inceppa, ed è costretto a riiniziare, dopo un segno di interpunzione di media fermezza (il punto e virgola), per sostenere esplicitamente l’estraneità dell’io lirico dall’armonia naturale. E tuttavia non è il significato ultimo quello che primariamente interessa, quanto l’immagine che il percorso che vi conduce crea: «il mare» appare distante, all’orizzonte appunto, e capace di avvicinarsi solo attraverso suoi secondari emissari, «una tromba | di schiume intorte», che piuttosto che essere parti integranti dell’essere, risultano dei derivati da questo espulsi. Inoltre questo «mare» lontano sembra maggiormente ancorato al basso: tutt’al più può essere increspato dal vento che viaggia in direzione contraria, ossia dalla pineta «dei fitti alberi» verso «l’orizzonte di rame»; un movimento antitetico a quello supposto attraverso le precedenti e diverse ricostruzioni del periodo che costituisce Corno inglese.
Il «mare» regge «lancia» anche secondo l’implicita lettura di Martini(7), opportunamente sviluppata da Silvia Rizzo(8): tuttavia secondo i due studiosi «il mare» non svilupperebbe una subordinata a partire da «dove», ma si legherebbe per coordinazione a «l’orizzonte» (entrambi retti da «spazza» dunque), dando vita ad una duplice azione: il mutare colore e (una copula sostituita da una virgola, aggiunta però solo nell’ultima edizione(9)) il lanciare «a terra una tromba | di schiume intorte» (in sostanza «Il vento» «suona» gli alberi» e «spazza» sia «l’orizzonte» – «dove strisce ecc.» – sia «il mare» che «muta colore» e «lancia», uniti questi ultimi dalla virgola). Anche in questo, ad ogni modo, il movimento portante è quello dall’esterno verso l’interno (dove si trova il soggetto), compiuto di concerto dal «vento» e dal «mare».
Un’ultima (la quinta) possibile analisi del periodo, ipoteticamente plausibile solo sul piano teorico e comunque ammissibile durante l’atto di lettura almeno fino al v. 12, postula due soggetti di una principale legati reciprocamente dalla copula «e» («e il mare», v. 10). Il quadro d’insieme pertanto prevedrebbe «Il vento», che suona gli alberi e spazza l’orizzonte da cui si diramano i raggi solari, e «il mare», che si legherebbe per coordinazione al «vento» stesso del v. 1. È innegabile che una volta giunti al v. 13, la proposizione «lancia a terra ecc.» fa saltare tutta l’impalcatura, ma è altrettanto vero che fino a quel punto il lettore non può scartare tale congettura. Sicché è costretto a conciliare, a fondere, o in ogni caso a far coabitare le immagini derivate dalle altre soluzioni sintattiche con quest’ultima, in base alla quale «Il vento» procede dall’interno all’esterno (dai «fitti alberi» verso «l’orizzonte»), mentre «il mare» risulta statico, intento solo ai mutamenti di colore, tutti all’insegna del blu-violaceo imposto dal progressivo imbrunire.
La questione determinante dell’ingarbugliata ma non irresolubile costruzione sintattica sta nel fatto che, come più volte sottolineato, le diverse letture allo stato della prima ricezione del testo sono tutte plausibili, e non possono quindi essere accantonante rapidamente da chi legge; al contrario convivono le une con le altre, compenetrandosi e dando vita ad un insieme confuso e, almeno fin quando la mente razionale non districa la matassa, disordinatamente unitario. Sicché il lettore, assediato dalle molteplici soluzioni interpretative, è costretto ad abbracciare, nello stesso istante, immagini contrastanti tra loro: in un sol momento infatti deve seguire il vento e dunque procedere con lo sguardo dalla riva all’orizzonte (terza e quinta ipotesi) e dall’orizzonte alla riva (prima, seconda e quarta soluzione esegetica; tenendo comunque presente che in ogni caso un iniziale movimento da terra, ossia dai «fitti alberi» a mare/orizzonte, è indispensabile); inoltre si trova ad osservare il mare che si trova sia in basso (pressoché tutte le interpretazioni) che in alto (seconda), sia in posizione dinamica (terza possibilità) che statica (quinta e ultima soluzione). È nel coacervo di tali immagini, reciprocamente escludenti e comunque destinate a convivere, che il lettore, oscillando tra diverse possibilità, con un “salto” smarrisce completamente le elementari coordinate spaziali e il correlato principio di non contraddizione, “afferrando di colpo” una dimensione altra, superiore all’umana contingenza.
Un discorso simile deve essere affrontato per il tempo lineare, anch’esso vittima, durante la prima lettura di Corno inglese, di un’abile abolizione. Certamente il venir meno dello spazio euclideo (l’affermarsi della possibilità, per lo stesso oggetto, di situarsi in posizioni diverse nel medesimo momento) proietta il lettore in un mondo sottratto alle consuete leggi di natura, tra cui non può non figurare lo scorrere del tempo. Tuttavia i due incisi, confinati tra trattini o parentesi(10), contribuiscono a creare un’atmosfera di atemporalità, consequenziale all’assoluto che il lettore si trova momentaneamente ad abitare. Il «forte scotere di lame –» del v. 2 non solo rimanda al frastuono causato dalle lamiere scosse dal vento, ma riecheggia anche lo stridere delle spade («lame») in battaglie d’altre epoche(11); epoche imprecisate, dai modi e costumi differenti e ormai tramontati, che in qualche modo acquisiscono un’aura leggendaria. Ma la leggenda vera e propria è offerta dagli «alti Eldoradi» del v. 8. È innegabile che l’espressione si riferisca al «paese dell’oro dei conquistatori dell’America»(12). Tuttavia in un altro punto della sua Opera in versi, Montale ricorre allo stesso mito: «Un dì | brillava sui cammini del prodigio | El Dorado, e fu lutto fra i tuoi padri» si legge infatti in Costa San Giorgio (vv. 11-13). Evidentemente interpellato sul passo, Montale nella quarta edizione delle Occasioni (1942) annota: «È noto che el dorado fu il mito dell’uomo d’oro, prima di diventar quello del paese dell’oro»(13); ed è da segnalare, a testimonianza di un forte interesse sul tema, che già nella prima e nella seconda edizione Einaudi (1939 e 1940) l’autore aveva avvertito: «Riguardo alla leggenda evocata cfr. Eduardo Posada, El Dorado, nouvelle histoire tirée des chroniques de la Nouvelle Grenade, trad. di Josepph de Brettes, Liège»(14). È stata Maria Elisabetta Romano a mettersi sulle tracce di questa particolare monografia, rinvenendo però solo un esemplare edito a Bogotà nel 1936 da Minerva, la cui copia posseduta dalla Biblioteca Nazionale di Firenze è andata perduta, probabilmente a seguito dall’alluvione(15). Le date non tornano e si eviti qualsiasi tentativo di farle quadrare. Si noti però come la questione dell’El dorado, cioè del mitico uomo d’oro nascosto nelle inaccessibili foreste sudamericane, fosse sicuramente a cuore a Montale, tanto da rendere lecito la supposizione che alcune informazioni fossero possedute dal poeta sin dalla fine degli anni Dieci(16). Anni in cui, ed è qui il punto determinante, l’espressione El dorado manteneva in sé ancora l’immagine dell’uomo dorato, oltre che del luogo: sicché tale significato non può essere escluso dalla metafora contenuta in Corno inglese. E proprio questi Eldoradi, luoghi mitici e fuori dal tempo, come fuori dal tempo è l’uomo da cui l’immagine deriva, riconsegnano al lettore un’atmosfera di atemporalità, del tutto contigua al sovvertimento spaziale, già rilevato. L’oscillazione tra tempi/luoghi diversi e inconciliabili obbliga chi legge a vivere un mondo altro: quello appunto dell’assoluto, agguantato «d’un sol colpo», attraverso un insperato, ma comunque costruito, «miracolo».
Il miracolo infranto
Obiettivo principale di Corno inglese è quindi quello di «cogliere l’istantaneità di una percezione sensoriale»(17), estendendola, e offrendola al lettore che con la propria ricezione la rende possibile e attuabile. È in testi come questi, per rubare le parole a Jauss, che «l’arte, e con essa il Giudizio estetico, assume allora il compito di restituire, attraverso l’estetico, la perduta totalità della natura, negata dalla svolta copernicana dell’approccio alla realtà, al sentimento del soggetto»(18). Il testo poetico, conseguentemente, si configura benjaminiamente come un medium, attraverso cui raggiungere, agguantare, semmai comprendere, sia pure solo fugacemente, l’assoluto: una comprensione che avviene prima in maniera processuale – tramite appunto il componimento e tutti i suoi congegni messi in moto nell’atto della lettura – e poi «immediatamente», con un salto, quando nel lettore «ogni apparenza dintorno vacilla s’umilia scompare» (Oboe, v. 2). E del resto l’orizzonte di attesa costruito da Montale in Corno inglese conduce proprio alla fusione tra io lirico e vento, in un tutto unico che per brevità chiameremo natura. La lettura però, sia pure limitata per ora a vv. 1-13, si esaurisce solo quando si giunge al punto finale, o almeno alla pausa forte che chiude il periodo («schiume intorte» in questo caso). E nel momento in cui si giunge alla fine, insegna ancora Jauss, per comprendere appieno il significato di ciò che si è letto si ripercorre mentalmente, e istantaneamente, il percorso in senso inverso, ossia dal punto finale all’incipit:
Partendo dalla forma ormai compiuta, il lettore cercherà e realizzerà retrospettivamente, attraverso una nuova lettura, il significato non ancora compiuto, rifacendo il percorso dalla fine al principio, dalla totalità al singolo elemento. […]
Trovare il significato non ancora realizzato richiede, come già osservato, che ci si volga indietro dalla fine all’inizio; con ciò l’individualità ancora indeterminata può essere illuminata a partire dalla raggiunta totalità della forma, la sequenza delle congetture può essere chiarita nel contesto e il senso ancora aperto può essere cercato nell’appropriatezza di un nesso di significati(19).
Il percorso inverso non solo ristabilisce la posizione fisica dell’io lirico, collocato di fronte al mare (e dunque da questi separato) in attesa di essere colpito dal vento rigeneratore (come il «reliquiario» di In limine, pronto a trasformarsi in un vitale «pomario»), ma conduce al primo verso, lì dove c’è l’unica indicazione temporale precisa di tutto il testo: «stasera». Volutamente ripetuta a fine componimento (v. 16), l’indicazione àncora ad un presente ben tangibile e concreto, che gli sforzi dei versi successivi non sono del tutto riusciti ad abolire. Detto più chiaramente, lo «stasera» iniziale mina tutta la tensione espressa nel prosieguo del testo, il cui scopo era quello di travolgere il lettore in un tempo acronico, scandito, verrebbe da dire, dall’«elisie sfere» (Falsetto, v. 16), che accompagnano invece la perenne giovinezza di Esterina. Non sarà certamente un caso se il testo che qui abbiamo scelto come archetipo di un modello di poesia che il Montale di Corno inglese sembra voler riprodurre, L’infinito di Leopardi, si apre con un «Sempre», contiguo agli «interminati | spazi», ai «sovrumani silenzi», e all’«eterno» capace di coniugare «le morte stagioni, e la presente | e viva». «Stasera» invece contrasta tutto ciò, e finisce per far inceppare il fluido meccanismo ricercato nella costruzione del testo. Si comprende allora il motivo per cui all’altezza del v. 9 un inaspettato quinario interrompe la sequenza di endecasillabi (vv. 1-3, 5-6, 8) e settenari (vv. 4, 7), introducendo un’aritmia difficilmente riconducibile ad una qualche forma di unità (nei vv. 10-18 si rintracciano settenari, ottonari (20), novenari, un quinario, un senario e un verso, quello finale, di due sole sillabe). E del resto già i precedenti sei endecasillabi si caratterizzavano per una loro evidente difformità di accenti, come se, partendo ognuno da un punto diverso, cercassero, senza ancora trovarla, una comune sintonia(21).
I cinque versi successivi che chiudono Corno inglese, vv. 14-18, sono una conseguenza di quanto successo in precedenza. Giunto alla fine del contorto periodo sintattico, il lettore ritrova inalterata la sua contingenza e storicità: il tempo è ancora quello presente, e l’io è solo, niente affatto fuso con gli altri elementi naturali. Il concerto a cui partecipano vento, mare, cielo e alberi non coinvolge il «cuore» del soggetto: il “corno inglese” annunciato nel titolo (che peraltro ha rapporti di consonanza fonetica con «cuore») rimane uno strumento isolato, incapace di interagire con il mondo circostante. Il miracolo è infranto, e quella musica dionisiaca capace di attuare per via estetica «la distruzione del velo di Maia»(22) non può essere suonata.
Tutt’al più, al pari di quanto accadeva nella chiusa de I limoni, la possibilità del miracolo può essere dislocata nel futuro: il congiuntivo ottativo «suonasse» – anche a fronte della constatazione che il «cuore» è solo uno «scordato strumento», v. 18 – testimonia la caparbia pretesa da parte del soggetto di un evento liberatore che redima l’io dalla contingenza, e apre ai futuri sviluppi narrativi; e di Accordi, nel ’22, e di Ossi di seppia, nel ’25 o ’28. Proprio la collocazione in una o nell’altra delle due sillogi muta in parte il significato dei versi finali.
Accordi si apre con Violini, in cui l’«attesa di un prodigio» (v. 10) è menzionata esplicitamente, per proseguire con Violoncelli, che declina la precedente attesa in un invito alla fusione con il mondo circostante(23); e dopo l’ammonizione all’io-tu femminile recalcitrante a fuoriuscire da sé («non uscirai tu, viaggiatrice spersa, | dai limiti del ‘Brutto’…», vv. 7-8), la silloge conosce un ambiguo momento panico in Flauti-Fagotti («Esitai un istante: indi balzai | alla finestra e spalancai le imposte | sopra la vasca sottostante; e tosto | fu un tuffarsi di rane canterine, | uno sciacquare un buffo uno svolìo | d’uccelli nottivaghi;», vv. 22-27). Solo dopo Oboe, che ha la funzione di asserire la concreta possibilità di una rivelazione e di un livello esistenziale diverso («I sensi sono intorpiditi, | il minuto si piace di sé | e nasce nei nostri occhi un po’ stupiti | un sorriso senza un perché», vv. 6-9), in Corno inglese l’io lirico può tentare finalmente l’abbraccio panico con la natura. Sebbene fallisca, il rilancio dei versi finali è adeguatamente ripagato dalla conclusiva Ottoni: «Vedi letizia breve, molto attesa, | ch’entri nella mia vita, tutta cinta | di fiori, come sia per te la pésa | malinconia dei giorni andati vinta» (vv. 5-8). Il congiuntivo ottativo «suonasse» su cui era costruita la chiusa di Corno inglese nel ’22 è pienamente ripagato, e va dunque interpretato come un atto di fondata fiducia nei confronti di un prodigio atteso e reclamato(24).
Diverso è il caso di Ossi di seppia, nell’edizione Ribet del 1928. Già il testo de I limoni, nella quarta strofe, dopo aver derubricato il «miracolo» della terza (l’incontro con la «disturbata Divinità») a mera «illusione», era stato costretto a ripiegare ad un auspicio di prodigio in un futuro non meglio precisato. Lo smacco di Corno inglese quindi assume già i toni di risposta a quella fede espressa nel testo precedente: la sua chiusa sembra restituire al lettore solo una speranza che, se non è totalmente sfiduciata, è comunque certamente molto compromessa. Un tono che appare ancor più remissivo se letto con la lente dei componimenti successivi: è proprio il susseguente Falsetto infatti a sancire l’esistenza, cui appartiene senz’altro l’io di Ossi di seppia, di una «razza | di chi rimane a terra» (v. 51) e che non ha alcuna possibilità di abbandonarsi alle braccia del «divino amico» (v. 49) mare. Le Poesie per Camillo Sbarbaro, dopo l’apertura di Quasi una fantasia, che nell’edizione definitiva verrà posposta (secondo una logica che prevede sempre uno spazio per un orizzonte metafisico e superiore, e comunque irraggiungibile(25)), concluderanno il percorso, negando all’intero mondo degli adulti l’accesso ad una sfera altra, precedentemente concessa alla mitica (giacché somigliante all’«arciera Diana», Falsetto, v. 12) Esterina. Solo i «fanciulli» infatti possono cibarsi di una «pastura | che per noi non più verdeggia» (Caffè a Rapallo, vv. 36-37), e suonare quell’«indicibile musica» (v. 14; più avanti definita «innocente», v. 17) capace di esprimere senza ulteriori mediazioni l’assoluto e lo stato di pura necessità: quella musica appunto che è stata tentata in Corno inglese, rimanendo però al livello di un insieme di suoni disarmonici e discordanti. E proprio questo fallimento, inscenato nel sesto momento di Accordi e riproposto in Ossi di seppia, rappresenta il consapevole superamento di Montale della cultura poetica su cui lui stesso si era formato: quella appunto del simbolismo.
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NOTE
1) C. Colaiacomo, Camera obscura. Studio di due canti leopardiani, Liguori, Napoli 1992, p. 30.
2) Scrive Benjamin, nella sua tesi di laurea: «Se l’arte come assoluto medium della riflessione è fondamentalmente concezione sistematica del periodo dell’«Athenaum», essa si trova però continuamente sostituita da altre designazioni, che causano l’apparenza di sconcertante multiformità del suo pensiero»; «L’arte è una determinazione del medium della riflessione, probabilmente la più feconda che esso abbia ricevuto. La critica è conoscenza dell’oggetto in questo medium» (W. Benjamin, Il concetto di critica nel romanticismo tedesco, Einaudi, Torino 1982, pp. 39 e 59)
3) L. Wittgeinstein, Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino 1995 [Ia ed. 1967], §191, p. 103.
4) Anche in questo punto, l’interpretazione che qui si propone è debitrice delle tesi espresse da Benjamin ne Il concetto di critica, nella cui seconda parte si legge: «La critica [che possiamo declinare anche nel senso di lettura] dunque, esattamente al contrario della concezione attuale della sua essenza, non è, nella sua intenzione centrale, giudizio, ma, da un lato, compimento, completamento, sistematizzazione dell’opera; dall’altro, la sua dissoluzione nell’assoluto. Come si mostrerà, ambedue i processi coincidono. […] Critica [ovvero anche lettura] dell’opera è piuttosto la sua riflessione, che, ovviamente, può solo svolgere il germe critico immanente all’opera stessa. […] Il valore di un’opera dipende, infatti, solo ed esclusivamente da ciò: se essa renda possibile, oppure no, la sua critica immanente. Là dove questa è possibile, là dove, dunque, esiste nell’opera una riflessione che può essere sviluppata, assolutizzata e dissolta nel medium dell’arte, ivi c’è un’opera d’arte» (Benjamin, Il concetto di critica nel romanticismo tedesco, cit., p. 73, corsivi miei).
5) H. Friedrich, La struttura della lirica moderna, Garzanti, Milano 1983 [Ia ed. 1958], p. 164; la stessa espressione, «ambiguità sintattica», sulla scorta di Bloomsfield è stata usata anche da Gian Paolo Biasin: «In realtà, però, ciò che conta è proprio la possibilità della doppia interpretazione (come lo “scordato strumento”): si tratta di un caso specifico di quella “ambiguità sintattica” che per Bloomsfield costituisce un mezzo poetico atto a richiamare l’attenzione sul contesto, a farci “esitare di esso” e a renderci consapevoli della sua “intransitività che impedisce un salto troppo facile verso il significato referenziale” delle singole parole» (Biasin, Il vento di Debussy, cit., p. 32; le citazione di Bloomsfield sono tratte da M. Bloomsfield, The Syncategorematic in Poetry: From Semantics to Syntactics, in Id., Essays and Explorations. Studies in Ideas, Language and Literature, Harvard University Press, Cambridge (Massachusetts) 1979, pp. 273-274).
6) Cfr. Biasin, Il vento di Debussy, cit., pp. 31-32, e Luperini, Commentando Corno inglese, cit., pp. 151-152.
7) Cfr. Martini, Occasioni musicali nella poesia del primo Montale, cit., in particolare pp. 111.
8) Si allude al saggio Schede per Corno inglese, menzionato nella nota 3.
9) Persuasiva ci pare l’interpretazione di Luperini, secondo cui Montale «ha sentito il bisogno di inserire nella edizione definitiva una virgola dopo “colore” al v. 11 (nelle edizioni precedenti assente), ma non l’ha inserita prima del pronome relativo “che” del verso precedente: se il segmento “che scaglia a scaglia, | livido, muta colore» è un inciso che divide il soggetto “mare” dal verbo dell’azione “lancia”, dovrebbe essere segnalato da una doppia virgola all’inizio (prima di «che») e alla fine (dopo «colore»). Quella virgola, da sola, potrebbe invece indicare una cesura, una sospensione necessaria perché il lettore possa ricollegare al suo lontano soggetto (la parola «vento») il verbo “lancia”» (Luperini, Commentando Corno inglese, cit., p. 152). Di avviso diverso è Silvia Rizzo, secondo cui la variante – l’aggiunta della virgola appunto – è stata dettata dalla necessità di legare per asindeto «muta colore» e «lancia a terra» (Rizzo, Schede per Corno inglese, cit.).
10) Si ricordi tuttavia che per il v. 3, all’altezza dell’Opera in versi, Montale aveva pensato ad una variante volta a sopprimere i trattini che racchiudono il verso, come testimonia una lettera a Rosanna Bettarini del 13 novembre 1978: «Allego una possibile variante per Corno inglese. A me quel “ricorda un fortissimo scuotere di lame” messo tra virgolette [l. lineette] pareva insopportabile: “Il vento che stasera suona attento | con un suo forte scuotere di lame | gli strumenti degli alberi e ha sconvolto | uno sfondo di rame”» (Montale, Opera in versi, cit., p. 865)
11) Cfr. Ramat, Montale, cit., p. 22.
12) Id., Ossi di seppia, cit., p. 17.
13) Id., Opera in versi, cit., p. 921.
14) Ibidem.
15) Cfr. M.E. Romano, Baudelaire occultato e rilevato e le armoniche di Costa San Giorgio, in «Rivista di letteratura italiana», XIII, 3, 1995, pp. 478-479; simili ricerche, probabilmente meno agguerrite, sono state compiute anche da chi scrive, giungendo però a risultati niente affatto diversi.
16) Ciò non toglie che questo verso montaliano sia stato suggestionati da passi di altri poeti che più o meno esplicitamente ricorrevano all’immagine dell’“Eldorado”: sulle possibili fonti cfr. R. Luperini, Storia di Montale, Roma-Bari, Laterza, 1986, p. 28 (che indica un passo dei Trucioli sbarbariani: «Come d’un eldorado, andavamo in cerca d’una locanda», C. Sbarbaro, L’opera in versi e in prosa, Milano, Garzanti, 1999, p. 178), G. Lonardi, Montale, la poesia e il melodramma, «Chroniques italiennes» LVII, 1, 1999, p. 71 (in questo caso è La favorita musicata da Donizetti a fungere da modello), e Rizzo, Schede per Corno inglese, cit., che fa luce oltre che su Pascoli (gli «alti Eldoradi» rappresenterebbero una «variazione raffinata del più banale “nuvole d’oro” di Pascoli, Myricae, Con gli angioli, v. 8», p. ??), sulla Tempesta di Shakespeare (che con Corno inglese, secondo la convincente lettura proposta, avrebbe più di un legame intertestuale). Non è escluso che abbia avuto un suo ruolo anche Le voyage di Baudelaire, in cui si legge: «Chaque îlot signalé par l’homme de vigie | est un Eldorado promis par le Destin; | l’Imagination qui dresse son orgie | ne trouve qu’un récif aux clartés du matin» (II, vv. 13-16).
17) Luperini, Commentando Corno inglese, cit., p. 150.
18) H.R. Jauss, Apologia dell’esperienza estetica, Einaudi, Torino 1985, p. 17.
19) Id., Estetica e interpretazione letteraria, Marietti, Genova 1990, pp. 164 e 180.
20) Sugli ottonari, non inutile è rimandare alle considerazioni di Bonora, che, in riferimento al verso «e il mare che scaglia a scaglia», sosteneva: «Per le sinalefi questo dovrebbe essere un ottonario, che è il più cantabile dei versi italiani, per i suoi accenti fissi di terza e di settima. Ma questo verso di Montale, comunque lo si legga, non ha accenti di terza e settima; è un ottonario ‘muostruoso’, che si può pronunciare scandendolo come se fosse costruito su tre membri trisillabi, oppure, eliminando tutte le sinalefi, come un verso di undici sillabe, non dico un endecasillabo, per non far pensare a una certa regolarità di accenti» (Bonora, Lettura degli Ossi di seppia, cit., p. 49).
21) Interessante notare che tutti e sei endecasillabi presenti in Corno inglese hanno accentazione diversa tra loro: v. 1 (accenti in seconda, sesta e ottava), v. 2 (seconda, quarta e sesta), v. 3 (terza, sesta e settima), v. 5, sdrucciolo oltretutto (prima, quarta e sesta), v. 6 (prima e quarta), e infine v. 8 (prima e sesta). Sul sistema metrico in Ossi di seppia cfr. M. Antonello, La metrico del primo Montale 1915-1927, Pacini Fazzi, Lucca 1991.
23) F. Nietzsche, Nascita della tragedia ovvero ellenismo e pessimismo, traduzione e prefazione di E. Ruta, Bari, Laterza, 1919, p. 33. La concezione della musica quale arte non referenziale in grado – diversamente dalla scrittura, dalla pittura e dalla scultura – di riprodurre l’assoluto, secondo una lezione offerta da Schopenhauer e riproposta da Nietzsche, era molto diffusa ad inizio secolo, e soprattutto negli anni in cui Montale componeva Corno inglese. Si pensi, un esempio su tutti, ad un testo come Eupalinos ou l’Architecte di Valéry, che affianca l’architettura, arte a suo avviso sublime proprio perché non vincolata alle costrizioni rappresentative, proprio alla musica: questo testo di Valéry, com’è noto, eserciterà una notevole influenza su Montale, come ben messo in luce da T. de Rogatis, in Montale e il classicismo moderno, Pisa-Roma, IEPI, 2002, pp. 39-70.
23) Cfr. i seguenti versi di Violoncelli: «La tua forma | più vera non capisce ormai nei limiti | della carne: t’è forza di confonderti | con altre vite e riplasmarti tutta | in un ritmo di gioia» (vv. 13-17).
24) Per una serrata argomentazione sulla collocazione di Corno inglese in Accordi, cfr. Luperini, Commentando Corno inglese, cit., pp. 155-158; utili indicazioni al riguardo, con attenzione anche alle divergenze rispetto agli Ossi, cfr. Martini, Occasioni musicali nella poesia del primo Montale, cit., in particolare pp. 113-118.
25) Su questo punto rimando a quanto ho già scritto in M. Tortora, Incontro nel sistema narrativo di Ossi di seppia, in Id., Letteratura e politiche culturali, Morlacchi, Perugia 2012, pp. 63-82.
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Ho sceso, dandoti il braccio
Ho sceso, dandoti il braccio
di Eugenio Montale
Commento di Giuseppina Vinci
Il poeta scende i gradini in compagnia della moglie e scende nei meandri
della vita, i gradini indicano le fasi della vita e lui le attraversa fiducioso
perché la moglie lo rassicura. Come un bimbo si affida alla madre,
così il poeta alla donna che ama.
E adesso che piove sulla sua tomba, solo vuoto dentro e fuori.
Una donna compagna della vita, sostegno nel travaglio dell’essere,
non presente ormai ma viva nel ricordo.
Il ricordo eterna i momenti più cari dell’esistenza.
Nei ‘’frammenti’’ di ricordi con la compagna accanto, il sostegno
lungo il cammino non facile che è il pellegrinaggio terreno di ognuno.
La luce in un mondo opaco rischiara l’animo del poeta, il senso
In un mondo senza senso, nell’assenza di valori.
La Morte ha offuscato la luce, l’ha spenta,
e non vi è più colei a cui affidare e confidare il proprio travaglio
Niente ha più senso adesso, anche i cipressi accanto alla tomba sono
malati. Relazioni, incontri, tutto è vano
Non più impegni, nulla da rincorrere.
Il Poeta ‘l’uomo dal fiore in bocca’’ per il quale la vita ha perduto quel
po’ di senso che le si poteva attribuire
racconta la solitudine, la propria. Al travaglio, l’inutilità, il non senso di
ciò che gli rimane.
Giuseppina Vinci Docente al Liceo classico Gorgia di Lentini