Rimanere dentro: a proposito di Cella di Gilda Policastro
Uscito da qualche mese, Cella (Marsilio) è il terzo romanzo di Gilda Policastro. Non avendo né l’arte né gli strumenti del critico e non avendo letto i due precedenti lavori, provo a mettermi a confronto con il testo a partire dall’esperienza emozionale della lettura privata. Tre sono i lasciti personali a libro concluso.
Una lettura agile e non faticosa
Ho letto il libro in due giorni, pur non essendo un lettore particolarmente veloce. Cella è un libro che scorre rapidamente, le pagine si susseguono in modo ritmico, la fine del romanzo è un traguardo che si raggiunge senza fatica. So di non essere il primo a riconoscere questa caratteristica, sottolineata da vari recensori, anche a distanziarsi da certo (stupido) stigma sull’autrice di prosatrice difficile al limite dell’intellettualismo. Trattandosi di un libro dalla trama piuttosto esile e piatta, pur complicata dall’intersecarsi continuo di connessioni repentine sul piano del tempo e dello spazio, è interessante capire dove poggi la sostanza di tale rapporto felice con il lettore. Nel mio caso la risposta è la scrittura e in particolare il ritmo della sintassi che l’autrice riesce a governare per tutto il romanzo in modo sorprendente. Traluce senz’altro la sensibilità della Policastro poetessa di valore, che gestisce i periodi in ritmo cadenzato. Un po’ come quando ascoltiamo a lungo quelle persone che sanno catturare la nostra attenzione con il tono della voce e il dosaggio di parole e silenzi, tale da non farci mai replicare, la voce narrante di Cella ci porta dentro una spirale che termina solo nel penultimo capitolo del libro. È questo dunque a mio giudizio uno dei pregi più importanti del romanzo: la voce di Cella è notevole.
Dentro la cella
Alla capacità di catturare il lettore corrisponde come forza equivalente ma contraria il senso di asfissìa che si inizia a provare fin dalle prime pagine. Se la voce narrante assume dall’incipit la forma assimilabile (ma non del tutto sovrapponibile) al modello del monologo interiore, è la stessa impostazione grafica della pagina, priva di rientri o a capo e con rarissimi dialoghi evidenziati, a costruire la cella attorno allo stesso lettore. Il concetto messo in opera è quello della prigione che il personaggio abita nelle forme della provenienza sociale, della famiglia violata, dell’amore sottomesso, dell’incomunicabilità generazionale. La scelta di abitarla, libera e consenziente da parte del personaggio, è ciò che desta e ha destato facili critiche in merito alla rappresentazione di una condizione femminile di questo tipo. In realtà, oltre la scrittura, uno dei valori incontestabili del romanzo è proprio la verisimiglianza e l’abisso di complessità femminile sondato attraverso la donna Cella. Talmente scomodo che alla fine del romanzo, la stessa autrice sembra cedere alla paura di dare realtà ad un personaggio del genere, chiudendo con un finale che personalmente suona come un’inutile excusatio non petita.
Perché la lotta armata?
Per quanto mi riguarda il punto debole del romanzo è la scelta collaterale e poco utile dell’utilizzo della lotta armata come espediente narrativo. Nelle numerose recensioni nessuno si sofferma su tale dato, la stessa autrice in un colloquio orale con Giulio Mozzi reperibile in rete non entra mai in tema. Ciò mi sembra indice di un di più che alla fine appesantisce la potenziale purezza della caratterizzazione dei personaggi. In particolare la figura di Giovanni più di tutte patisce l’astrazione di un contesto che suona come avulso durante tutta la lettura. Mi sono domandato impropriamente il perché di tale scelta. Esiste forse una fascinazione per la generazione della Policastro, alla quale anche io appartengo, per un periodo storico che molti di noi hanno studiato e letto, forse a contrasto con il mondo apparentemente piatto e paludoso all’interno del quale ci siamo trovati ad essere giovani. Negli ultimi anni molti sono stati i romanzi che hanno utilizzato la lotta armata come sfondo di una ricerca di intenti e anche contraddizioni forti che forse il presente non riesce ad offrire. Il problema è che poi tali narrazioni hanno spesso finito per diventare narrazioni di una narrazione che non coincide mai con il referto oggettivo di chi quegli anni li ha vissuti. A maggior ragione in un libro come Cella, dove il dato della lotta armata funge unicamente da espediente narrativo, ma di fatto non incide minimamente nella rappresentazione di nessuno dei personaggi, tale contesto rischia la ridondanza e il già sentito.
Concludo
Un’esperienza di lettura per me intensa e non pacifica, una scrittura notevole, un personaggio femminile importante. Un libro che ho avuto il piacere di leggere pur non avendo accettato alcune scelte, ma che ha saputo mettermi in dialogo all’interno del suo angusto spazio.
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