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diretto da Romano Luperini

Politica e cultura: i dilemmi che abbiamo creduto oltrepassare. Verso una nuova stagione di lotte nella scuola?

Ma più c’è da tornare ad un’altra pazienza

alla feroce scienza degli oggetti alla coerenza

nei dilemmi che abbiamo creduto oltrepassare.

Franco Fortini

Il fronte culturale…

Giovedì 3 ottobre ho seguito da remoto la prima sezione del vostro convegno, Disumanizzazione della vita e funzione delle umane lettere, come tante colleghe e colleghi da tutta Italia. Un tema, quello della funzione formativa della letteratura, che aveva visto nel corso dell’estate perfino l’illustre intervento di Papa Francesco, da alcuni giustamente ripreso e citato durante il convegno, pur se da diverse prospettive. Dalla comparsa della locandina e del programma e soprattutto del testo di convocazione, mi era parso subito evidente che quella iniziativa stesse cogliendo un punto decisivo nel sentire di una parte del mondo degli insegnanti e più in generale di chi vive la scuola, tanto che non credo sia una forzatura affermare che l’immagine di un nuovo umanesimo, ripetutamente emersa dagli interventi come direzione programmatica della vostra proposta politico-culturale, volesse collegare il tema della disumanizzazione della vita non soltanto alla funzione delle umane lettere ma alla funzione della scuola tout court. Da questo punto di vista il convegno era riuscito già prima di cominciare. Aveva colto un bisogno. Saperlo interpretare e soddisfare è un compito per il presente e per il futuro.

… e quello politico-sindacale

Nelle stesse settimane in cui prendeva forma la due giorni palermitana, si concretizzava il percorso nato tra la fine dell’anno scolastico scorso e l’estate, un tentativo di mettere a confronto e in relazione soggetti, movimenti, gruppi, organizzazioni sindacali conflittuali intorno a un tema, quello della precarietà nel mondo della scuola, che stando alle ultime e ancora generiche stime riguarda circa 250-300.000 lavoratori (tra docenti e ATA) del milione e passa del comparto. A svolgere questo meritorio tentativo di sintesi — di quella possibile e basata sui contenuti beninteso, non di una unità come assoluto — è stato il movimento Educazione senza Prezzo (da ora ESP), il cui nome fa riferimento a una critica totale del mercimonio di titoli e percorsi formativi che frammentano, sviliscono e vendono a carissimo prezzo i canali di accesso alla professione docente. Una sorta di indignazione collettiva per la vendita delle indulgenze di un sistema della formazione corrotto all’inverosimile, votato alla rendita soprattutto delle università private online, generatore di precarietà e di percorsi formativi privi di qualità. Da tutto questo non può che discendere, ovviamente, la produzione in serie di figure professionali poco riconosciute dal punto di vista del ruolo sociale, spesso — sebbene non necessariamente — meno formate e meno colte che in passato, ma necessarie al funzionamento di un sistema scolastico che, nella metafora di quella che mi sembra la più avanzata e attiva delle organizzazioni studentesche di questo Paese, non a caso presente in questo percorso, OSA (Opposizione studentesca d’alternativa), viene definito della “scuola gabbia”. Gabbia non solo e non tanto come apparato repressivo, che pure esiste dentro e fuori dalle aule scolastiche, ma gabbia come luogo privo di orizzonti di miglioramento della propria condizione sociale, culturale e, in prospettiva, lavorativa. Gabbia come apparato ideologico, come luogo fisico di manifestazione di un disagio giovanile esploso negli anni del Covid e della didattica a distanza e ormai endemico. Un bel pezzo, direi, di disumanizzazione della vita, proprio nel luogo che nelle vostre intenzioni, e anche in quelle di chi scrive, dovrebbe assolvere il ruolo opposto, un ruolo di emancipazione e costruzione di cultura condivisa.

Necessità di alzare lo sguardo

La proposta di ESP di un percorso comune tra lavoratori e studenti ha portato ad una manifestazione alla quale l’organizzazione sindacale a cui appartengo e per la quale lavoro, USB, ha contribuito fattivamente e convintamente. Nei mesi scorsi eravamo stati protagonisti, insieme agli studenti universitari di Cambiare rotta, di una serie di assemblee in giro per l’Italia, sul nuovo sistema dei 30/60 CFU, che abbiamo chiaramente portato come tema della manifestazione. Per la prima volta dopo quasi un decennio è nuovamente possibile parlare di mobilitazioni del mondo della scuola. Il 12 ottobre un migliaio di docenti e di studenti (so che state pensando: pochissimi! Ma da tanto tempo non si vedevano proprio in piazza) ha attraversato in corteo Roma, nello stesso giorno in cui altre migliaia di persone manifestavano a pochi chilometri da lì contro il genocidio palestinese e contro il progetto suprematista e colonialista di Israele e le sue politiche criminali. Il punto oggi forse più estremo e esplosivo della disumanizzazione che il sistema del Capitale produce in una spirale di guerra e devastazione che deve allarmarci tutti, come ha ricordato Romano Luperini nel suo intervento di apertura, al tempo stesso lucidissimo e visionario. Dico questo perché credo che il ragionamento che sto cercando di portare avanti e che vuole collegare le questioni finora solamente accennate nei primi due paragrafi, si svolge all’interno di un contesto che non è esattamente di ordinaria amministrazione. Chi lo legge con le chiavi di interpretazione della tradizione marxista vi vede dentro la crisi strutturale del Capitale, la fine evidente del mondo unipolare (e della cauzione ideologica della fine della storia che voleva giustificarlo), la crisi di egemonia delle classi dominanti in Occidente, la crisi delle democrazie liberali e la nascita di autocrazie inedite (l’accoppiata Trump-Musk ne è solo l’ultimo esempio), la passività della classe lavoratrice e più in generale delle classi subalterne nella nostra parte di mondo, la disoccupazione strutturale come effetto dell’automazione e dello sviluppo tecnologico, la nascita del liberal-fascismo, per usare la sintetica ed efficace espressione di Giorgio Cremaschi, la tendenza immanente alla guerra, la gestazione di un mondo multipolare, il razzismo diffuso, il rischio di infarto ecologico del pianeta, e tanto altro. Tutte questioni che chi vuole umanizzare la società attraverso la scuola è costretto a porsi, mentre la scuola stessa accentua i suoi tratti repressivi (il caso Raimo è solo la punta dell’iceberg di un processo complessivo) come sono costretti a porsele anche lavoratori e studenti se vogliono immaginare una scuola nuova, se vogliono «formare un mondo diverso», come recitava lo striscione dietro al quale abbiamo sfilato il 12 ottobre.

Fare un passo avanti (senza i due indietro): ripoliticizzare la scuola

Ora, la tesi neanche troppo originale di questo contributo è che se non colleghiamo funzione e condizione, lavoro culturale, lavoro sindacale e lavoro politico, ognuna delle istanze giuste e condivisibili che portiamo avanti è destinata nella migliore delle ipotesi a generare sacche di resistenza, a “salvare” qualche studente a fronte di centinaia di migliaia di sommersi, a rallentare parzialmente la mutazione genetica della scuola della Costituzione (ah già, c’è anche l’Autonomia differenziata che avanza, nonostante la Legge Calderoli sia uscita malconcia dalla Consulta) e della Resistenza cara al mondo della sinistra scolastica — e giustamente aggiungerei — o a permettere di stabilizzare un certo numero precari (ma siamo sicuri che è il nostro lavoro a determinarlo?). Intanto però la condizione salariale e contrattuale certifica lo stato di ceto medio impoverito degli insegnanti (gli ATA stanno infinitamente peggio) e la formazione dei docenti (alla quale avete dedicato opportunamente grande spazio durante il convegno, e che anche noi come organizzazione sindacale abbiamo individuato come terreno privilegiato di intervento, grazie alle attività congiunte con il nostro centro studi, il Cestes) è sempre più in mano ai tecnocrati del modello UE e delle multinazionali dell’informatica e della formazione, nonché dell’editoria.

Ci sono le condizioni per una ripoliticizzazione della scuola? La domanda di partenza non può che essere questa, se non si vuole ragionare in modo minoritario o non si vuole proporre solo un “umanesimo zoppo”. Perché unire quel che vorrei si unisse, fronti di lotta differenti e spesso su piani complementari, presuppone esattamente questo processo di politicizzazione. È questa la ragione per la quale abbiamo costruito USB Scuola, non riconoscendo nelle organizzazioni storicamente presenti, da quelle firmatarie di contratto, tra cui la FLC CGIL, e la galassia ormai molto frammentata del mondo COBAS, la progettualità e l’obiettivo ambizioso che ci siamo dati come USB. Non sto sostenendo la mia parrocchia, non sto vendendo il marchio, non sto neanche teorizzando una autosufficienza, sto ponendo una questione politica: come si ripoliticizza una scuola sotto attacco, in cui è finita l’onda lunga del ’68 e l’onda lunga anche del modello culturale del PCI? Che quest’onda lunga sia finita è un elemento di lettura decisivo, a nostro parere, perché uno dei punti programmatici che dobbiamo avere è quello di una ri-alfabetizzazione sui diritti e sui fondamentali, che per giunta non può minimamente avere forme di proselitismo classiche, ma deve passare da una capacità di relazione e di crescita che difficilmente sarà tumultuosa, ma funzionerà, almeno per un po’, per una progressiva sedimentazione di forze. Ci sono oggi tracce di movimento nella scuola, ma non c’è il movimento per come lo abbiamo visto e conosciuto tra gli anni ’90 e fino ai primissimi anni ’10 del nuovo secolo. Ma ci sono le contraddizioni, c’è il malessere dei lavoratori, c’è il disagio studentesco, c’è il procedere della subordinazione della scuola ai modelli produttivi territorializzati della Riforma dei tecnici e professionali, del 4+2 e degli ITS, c’è il PCTO, c’è la militarizzazione della scuola e tanto altro che non sto qui ad elencare, su cui si può e si deve pensare, lavorare e lottare, cogliendo il connubio tra riformismo trasversale («decisionista e verticistico» come è stato definito in un recente intervento su questo blog), pseudo-modernizzazione spinta e agende di lungo periodo di una scuola ormai totalmente per il mercato.

Come proseguiamo?

Di che cosa ci parlano, allora, il vostro convegno, le mobilitazioni dei precari, le tante piccole forme di associazione tra docenti che si vanno sviluppando in tante realtà, e soprattutto i segnali di risveglio studentesco? Ci parlano di una crisi della scuola e degli istituti formativi e di un potenziale di reazione ancora a uno stato abbastanza embrionale (ecco perché i 1000 che sfilavano non erano poi così pochi, ed ecco perchè non è nemmeno così rilevante misurare tutto questo in termini di adesioni agli scioperi delle scorse o delle prossime settimane, non ancora almeno), e della comune ricerca di una forma di movimento e di un modello organizzativo che non può limitarsi a riproporre vecchie e rassicuranti modalità. Questa scuola non serve più perché la società italiana è dentro una decadenza materiale, ideologica e morale profondissima, perché il nostro Paese è stato spogliato della sua sovranità politica e di una seria pianificazione economica, perché ha un ruolo semiperiferico nel contesto della UE e riceve tutte le bastonate della crisi del modello tedesco. È la scuola di quello che Roberto Fineschi chiama «capitalismo crepuscolare». Di fronte a tutto questo è necessario avere la massima capacità di lettura dei processi da parte dei professori come intellettuali, quelli di cui parlava Luperini, ma ci vogliono anche agitatori negli organi collegiali, delegati RSU consapevoli e combattivi (a proposito, ad aprile 2025 si vota di nuovo), rapporti con le organizzazioni studentesche e giovanili paritari e non strumentali, coerenza tra principi e collocazione politica e sindacale. Cari amici e care amiche de La letteratura e noi, come vedete non propongo una strada precisa, ma un invito comune a pensare e ripensare ai rapporti tra scuola, cultura e politica, quei dilemmi che, prendendo a prestito e parafrasando il verso di una celebre poesia di Franco Fortini cui allude il titolo di questo contributo, abbiamo ancora di fronte. Potrebbe essere la traccia di un prossimo convegno? Parliamone insieme.

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