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diretto da Romano Luperini

Oltre il politicamente corretto e la cancel culture. Su Guerre culturali e neoliberismo di Mimmo Cangiano

Nel dibattito sulle guerre culturali, quello di Mimmo Cangiano è senza alcun dubbio il testo più importante e politicamente decisivo finora scritto. Buona parte dei libri e saggi usciti sul tema si tiene, se va bene, alla bibliografia disponibile in italiano, se va male, al catalogo di episodi di cronaca cuciti dal filo di uno sdegno moralistico (di sinistra e di destra). Al contrario, Guerre culturali e neoliberismo (Nottetempo, 2024) è fondato su una conoscenza di prima mano della bibliografia statunitense; e non tanto della vasta pamphlettistica prodotta a valle, quanto piuttosto dei classici di quei Cultural studies che, a monte, hanno fornito le categorie d’interpretazione al dibattito: per citare solo due nomi, Judith Butler per i Gender e Homi Bhabha per i Postcolonial Studies. Anche in forza della sua lunga esperienza di ricercatore e docente negli Stati Uniti, Cangiano ricostruisce il retroterra politico e intellettuale di cui la congerie di fenomeni che va sotto il nome di «guerre culturali» non è che sintomo (abbattimento di statue di colonizzatori, linguaggio inclusivo, rappresentatività delle minoranze nell’accademia e nell’industria culturale, dibattito sul canone letterario, identity politics, …). Non c’è dubbio che tra questi fenomeni circoli un’«aria di famiglia» (p. 9) e che essi possano essere considerati la manifestazione di «una sorta di cornice morale del nostro tempo» (p. 16).

Le guerre culturali rischiano però di essere una trappola per la sinistra ed è soprattutto agli intellettuali e militanti di questa parte politica che Cangiano si rivolge. Da un lato, la sinistra spesso si limita a reagire all’azione ideologica della destra (“non si può più dire niente”, ecc.), negando la stessa esistenza delle guerre culturali e considerandole un’invenzione propagandistica conservatrice. Dall’altro, essa finisce per dividersi lungo una faglia equivoca, quella che contrappone diritti civili a diritti sociali: i primi starebbero a cuore a un progressismo ormai perfettamente acclimatato al capitalismo, i secondi a una sinistra polverosamente legata all’analisi di classe e incapace di sintonizzarsi sulle nuove necessità di riconoscimento delle minoranze. La verità è che

a sinistra non è in gioco un conflitto fra diritti civili e diritti sociali. I due campi dei diritti […], quando intesi in relazione al funzionamento del mercato capitalistico, non sono separabili […]. Ma è certamente in gioco […] un profondo contrasto fra una visione materialista e una culturalista (p. 98).

Secondo Cangiano le guerre culturali hanno in sé un nocciolo emancipativo che la sinistra deve preservare, perché in esso si manifesta l’effettiva richiesta di riconoscimento da parte di soggetti che sono stati storicamente privati della parola e della visibilità sociale da quel “maschio bianco etero e cis” che è ormai diventato figura proverbiale del dibattito. Ma le guerre culturali faticano terribilmente ad autostoricizzarsi e ad ammettere di essere esse stesse il prodotto (o, come si diceva, il sintomo) di trasformazioni storiche. Questa cecità rispetto alle condizioni materiali che le determinano le rende facilmente sussumibili dalla logica individualista liberal e dalla mercificazione del capitale. Occorre perciò «rimaterializzare» il dibattito, individuando con chiarezza il problema: il culturalismo.

Culturalismo, capitalismo, postmodernismo

Guerre culturali e neoliberismo riporta qua e là aneddoti della vita americana dell’autore, capaci di esemplificare in bozzetti ora gustosi ora malinconici quanto viene argomentato. In uno di questi aneddoti leggiamo di uno studente americano che così esprime la propria adesione all’idea del glass ceiling (il “tetto di cristallo”): «“it’s a shame! È una vergogna!” mi disse un benintenzionato studente, “che ci siano così poche donne ai vertici della camorra!”» (p. 44). Naturalmente siamo di fronte a una manifestazione di progressismo tanto eccessiva e grottesca da risultare comica, ma in cui, proprio per questo, traspare “in purezza” la forma mentale culturalista.

Se si recide ogni nesso con la soggiacente strutturale materiale del sistema di produzione in cui viviamo e che risponde ancora al nome di capitalismo, diventa irrilevante quali siano la natura e gli scopi dell’organizzazione in cui ci auguriamo che le donne (o una minoranza) abbiano la possibilità di far carriera. Per questo è assai meno comico leggere che a esibire il logo del Black lives matter sulla propria home page, pochi giorni dopo l’assassinio di George Floyd, sia stata anche Amazon: un’azienda nota per aver impedito per anni la formazione di sindacati tra i propri dipendenti e per il fatto di favorire ora la formazione di associazioni su base identitaria, allo scopo di dividere i lavoratori proprio lungo quelle faglie che reggono le identity politics, come la differenza razziale. Divide et impera. La sinistra woke definisce di solito questi comportamenti opportunisti forme di washing, ovvero ipocrite riverniciature etiche del proprio profitto. Ma non è certo Amazon ad aver inventato quelle faglie identitarie, che si limita semplicemente a sfruttare.

Il discorso sulle identità oppresse e sulle minoranze, nella sua forma attuale, ha una doppia, e contraddittoria, origine storica. Da un lato esso affonda le radici nel femminismo della differenza, che ha spezzato al suo interno il monologismo del soggetto occidentale, mostrando come questo escludesse donne, persone omosessuali e non bianche, … È questo il nocciolo sano delle guerre culturali, che bisogna aver cura di non buttar via. Per un altro verso, però, quel discorso deriva da una storia politica che è lontana da quella della sinistra: una storia che, soprattutto, è lontana dalla prospettiva materialista dentro la quale ancora stavano i movimenti per l’emancipazione novecenteschi.

La natura culturalista del dibattito odierno, infatti, dipende assai più dalle trasformazioni del capitalismo a partire dagli anni Ottanta. Non a caso negli Stati Uniti le guerre culturali, dentro l’accademia e sui giornali, iniziano proprio in quel decennio, che vede la vittoria del neoliberalismo, l’ingresso nella «condizione postmoderna» e la certificazione della «fine della storia»: il capitalismo e le democrazie liberali vittoriose dichiaravano la propria insuperabilità storica. Nel momento in cui si affermava la fine delle ideologie, si imponeva un’unica ideologia, quella del mercato.

Poiché è dell’ideologia naturalizzare i propri presupposti e riuscire a imporsi come senso comune, le leggi dell’economia capitalistica cessarono di essere intese come prodotti della storia, per diventare oggettive e universali. La conseguenza è che la sfera che il marxismo chiama sovrastrutturale, quella delle idee e della cultura, viene sganciata completamente dai rapporti con lo “sfondo” immutabile di un’economia fattasi natura. Considerare la produzione di idee nel suo legame dialettico con la sfera della produzione materiale diventa impensabile. E in effetti proprio il postmodernismo, con la sua ironia, il suo disimpegno politico, la sua enfasi sul riuso e citazione sincronica degli stili storici, aveva sancito l’immagine di una cultura, per così dire, dinamicamente congelata in una produzione di contenuti tumultuosa ma ferma sul posto.

Il fatto è che, come ha osservato Terry Eagleton in Ideologia, «la tesi della fine-delle-ideologie era con tutta evidenza un prodotto della destra, [ma] la nostra soddisfazione “post-ideologica” ostenta spesso credenziali di sinistra». Ed è precisamente quel che è successo dentro i dipartimenti umanistici delle università americane, dove il culturalismo si è tinto addirittura di presunti caratteri radicali e rivoluzionari.

«Essenzializzazione di ritorno»

L’equivoco ideologico è dunque quello di aver scambiato la fine delle Grandi narrazioni proclamata da liberalismo e capitalismo per un riscatto delle piccole narrazioni alternative e oppresse.

Ma è vero: le grandi astrazioni universalistiche della modernità, per il carattere di uniformità e neutralità del soggetto che ne era al centro (l’uomo, il cittadino, l’operaio, …) finivano effettivamente per oscurare la differenza dei soggetti altri. Quest’«idea […] che le “meta-narrazioni” abbiano occultato la situazione particolare (e la particolare epistemologia) di determinati gruppi identitari» (p. 67) è al centro di quei Cultural studies egemoni da qualche decennio nei dipartimenti di Humanities americani, ma che hanno ormai attraversato l’Atlantico per entrare anche dentro le università europee.

Negli Studies il compito che si assegna alla cultura umanistica è decostruire l’oppressione strutturalmente connaturata alla cultura occidentale in quanto meta-narrazione. Ma la decostruzione è già diventata programma banalizzato di infiniti corsi universitari – dentro università gestite con logiche sempre più aziendalistiche – e non ha alcuna capacità di reale critica dell’esistente e di intervento su di esso: in senso stretto, perché il suo teorizzare raramente valica i confini dei campus universitari; in senso più ampio, perché essa è incapace di pensare il nesso tra struttura e sovrastruttura, società e idee, produzione materiale e produzione culturale. Ed è proprio il carattere culturalista che fa tralignare tale programma di decostruzione, ancor prima che sul piano politico, su quello filosofico, producendo quella che Cangiano chiama «essenzializzazione di ritorno».

Nella vulgata degli Studies (fanno eccezione i teorici più raffinati e consapevoli politicamente), capitalismo e patriarcato, capitalismo ed eteronormatività, capitalismo e whiteness, … vengono identificati ed esauriti l’uno negli altri. Nell’incapacità storica di intendere il capitalismo come modo di produzione basato, anche oggi, sullo sfruttamento, lo si interpreta esclusivamente come un «regime culturale teso a creare codificazioni» (p. 67) e a imporre norme. Così, tutto ciò che è anti-normativo (ibrido, fluido, marginale, nomade, differente) può presentarsi come di per sé contestativo e anti-sistema. Il capitalismo viene cioè essenzializzato in un moloch ideologico che ha sempre i connotati del monologismo, dell’autoritarismo, del fallocentrismo, …; di ritorno, anche le posizioni antitetiche si cacciano da sole nel vicolo cieco di una posizione materialmente disincarnata, idealistica, destoricizzata, essenzializzata.

La verità è che il capitale non ha una sola logica, quella del rigido monologismo oppressore, ma «molteplici prassi» (p. 104), che adatta al bisogno, per continuare a estrarre plusvalore. Il capitalismo ragiona infatti strumentalmente e non ha altri obiettivi che il profitto: questa è la sua interna logica, né gli è connaturata questa o quella ideologia. Perciò esso può investire sulle identità tradizionali (si ricorderà “l’uomo che non deve chiedere mai”), come sulle identità non-normative; può mantenere la propria alleanza storica con il colonialismo estrattivo, come schierarsi dalla parte degli oppressi (Amazon e il BLM).

Ma su questa strada ci si può spingere oltre. Scrive Cangiano: «Deleuze, per non parlare di Gramsci, ci aveva avvertiti per tempo che il capitalismo, sostituito il “desiderio” al “bisogno”, flirta molto di più del comunismo con il pluralismo, l’ibridazione, la trasgressione» (p. 58); inoltre «come scrive Fisher, “‘flessibilità’ e ‘nomadismo’ sono gli imperativi gestionali che caratterizzano tutta la società del controllo post-fordista”» (p. 48). Insomma, sono precisamente alcune delle categorie “post-ideologiche” e postmoderne degli Studies ad essere in perfetta sintonia con le esigenze del capitalismo neoliberale, anche se tali categorie hanno l’apparenza di correlativo simbolico di gesti politici radicali: «Questa cultura può dunque certamente farsi sovversiva, ma mai trasformativa» (p. 51).

Deliberalizzare’ la critica e la politica

Il punto non è rifiutare la queerness o le teorie delle differenza, ma, come si diceva, materializzarle, cogliendo la dialettica tra teoria e prassi, tra struttura e sovrastruttura. Proprio questo si era in grado di fare nel secolo scorso grazie al concetto di classe, che non identifica il soggetto sulla base di ciò che è, ma per ciò che fa, ovvero per la posizione che occupa nel modo di produzione capitalistico.

Il concetto di identità così come viene declinato oggi nelle guerre culturali tende a cristallizzare le appartenenze, separando e mettendo gli uni contro gli altri soggetti accomunati da una stessa condizione materiale di sfruttamento, ma divisi dall’appartenenza culturale. Anche in questo caso non si tratta di negare che il capitale ricorra anche alle differenze razziali o di genere per un surplus di sfruttamento: si tratta però di non erigere tra un’identità e l’altra steccati che da sociali e storici diventano ontologici (essenze). Infatti non dovrebbe sfuggire che uno degli effetti – paradossale rispetto alle premesse logiche – di un discorrere teorico che si vorrebbe decostruttivo sia quello di aver fortificato le identità, balcanizzando il panorama sociale.

Se la sinistra non chiarirà a se stessa questo nodo teorico, sforzandosi di ‘deliberalizzare’ (e ‘deculturalizzare’) le proprie categorie politiche, si troverà sempre di più a fare i conti con un devastante spezzettamento sociale – fino al limite massimo dell’individuo che “non si lascia mettere etichette” e che nemmeno si rende conto di affermare così solo una concezione proprietaria dell’identità: spezzettamento che rende difficile, se non impossibile, l’azione collettiva di trasformazione e che la sostituisce con l’ottenimento di alcuni vantaggi simbolici e di una maggior inclusione nel sistema (anche in quello della camorra, perché no). Ad esempio, il concetto in voga di «razzismo sistemico», se interpretato in forme culturaliste e liberal, rende completamente ciechi al fatto che «il gap di ricchezza fra bianchi e neri è determinato per oltre il 90% dal gap di ricchezza esistente fra il 10% dei bianchi più ricchi e la loro controparte nera» (p. 43).

Non solo, si verifica quella che Jonathan Friedman ha chiamato «inversione ideologica»: il progressismo si identifica sempre di più con il postnazionale, il liberale, il globalista, valori incarnati dalle élite internazionali cosmopolite, illuminate e woke, allontanandosi sempre di più dalle classi popolari nazionali, percepite come retrive (patriarcali, razziste, omofobe) e per questo abbandonate nelle braccia delle destre identitarie e neonazionaliste. Anche qui si mostra la completa mancanza di quel materialismo che Cangiano giustamente invita a reintrodurre nel quadro. Ci siamo dimenticati qualcosa che nel Novecento era chiarissimo: «anche se un gruppo di lavoratori ha tendenze reazionarie, ciò non modifica il suo status oggettivo di lavoro sfruttato» (Keeanga Yamahtta Taylor, p. 159).

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