ventitré maggio millenovecentonovantadue
Roberto Alajmo, scrittore, giornalista e intellettuale palermitano, racconta ad un ragazzino di oggi la strage di Capaci e i fatti successivi, intrecciano alla linearità del resoconto inserti e frammenti dei libri in cui ci ha narrato quei giorni difficili. Il brano che riportiamo è tratto da un volume in preparazione che uscirà l’anno prossimo presso Palumbo editore.
23 maggio 1992: in un colossale attentato dinamitardo nella zona di Capaci, sull’autostrada alle porte di Palermo, viene assassinato Giovanni Falcone, il magistrato che più di ogni altro ha avversato le cosche mafiose.
Ventitré cinque novantadue
Arrivò all’aeroporto assieme alla moglie e trovarono come sempre tre auto. Lo aspettavano direttamente sulla pista e partirono senza perdere tempo. Aveva voluto guidare lui e l’autista si eramesso dietro. Le altre macchine, una avanti e l’altra a seguire. Giunti più o meno allo svincolo di Carini, la moglie chiese:
– Le chiavi ce le hai tu?
Intendeva le chiavi di casa. Lui fece una cosa assurda: tolse le chiavi dal cruscotto per controllare, mentre la macchina correva a centoventi. L’autista disse:
-Dottore, che fa?
E lui rispose:
– Ha ragione.
Rimise le chiavi al loro posto e rallentò leggermente. Allora ci fu un muro di terra e di fuoco che si alzò improvvisamente, e la Croma ci andò a sbattere contro. (R. Alajmo, Almanacco siciliano delle morti presunte, Palindromo editore)
L’impatto emotivo dell’attentato di Capaci, dove oltre a Falcone e alla moglie morirono tre agenti di scorta, fu enorme. Nel mondo, in Italia, in Sicilia e soprattutto a Palermo, dove sembrò in un primo momento che la potenza operativa dimostrata da Cosa Nostra nel far saltare in pieno giorno un pezzo di autostrada segnasse il trionfo del Male nei confronti del Bene.
Ma come succede quando viene toccato il fondo, proprio nel momento della massima disperazione si trova la forza di dare un colpo di reni.
Nei giorni successivi all’attentato, alle finestre delle case di Palermo cominciarono ad apparire dei lenzuoli bianchi con sopra scritti slogan contro la mafia. Su di questi lenzuoli si leggeva: «Io so, ma non ho le prove», una vecchia frase di Pier Paolo Pasolini che alludeva alla sua consapevolezza di intellettuale, che per conoscere le colpe e i colpevoli non aveva bisogno di prove. E aveva ragione: specie vivendo a Palermo, chi voleva poteva capire benissimo cosa fosse la mafia e chi fossero i mafiosi, a prescindere da processi e sentenze.
Il piccolo focolaio di rivolta morale rappresentato dal “Comitato dei Lenzuoli” fu la prima presa di posizione da parte della cosiddetta “società civile”. Furono settimane molto intense, fatte di assemblee, manifestazioni, iniziative di ogni genere che culminarono in un pomeriggio di giugno, alla ricorrenza del primo mese dalla strage di Capaci, con una catena umana che attraversò la città dal tribunale fino a quella che era stata la casa di Giovanni Falcone.
23 giugno. Ognuno ricorda dov’era, a quest’ora, un mese fa. E intanto si avvicina l’appuntamento, fissato per le 17. I giornali ne hanno parlato, ma i dubbi sulla mobilitazione della città vengono confermati quando, alle 17:15, davanti a Palazzo di Giustizia ci sono trecento persone, sempre le stesse che a Palermo da vent’anni si incontrano alle manifestazioni. Tanto peggio. Vuol dire che anziché una catena umana, impossibile, faremo una marcia.
Fra i trecento ci sono oltre tutto anche i giornalisti, fotografi e operatori. Qualcuno di loro non riesce a nascondere una forma di sadico scetticismo. Palermo non è venuta, il teorema della città irredimibile è confermato. Per i professionisti veri l’importante è che i partecipanti siano pochissimi o moltissimi, in modo da poter fare comunque un titolo a effetto.
Succede che poi passano i minuti e la gente comincia ad arrivare col ritardo cronico comune anche ai meridionali onesti. Adesso la piazza èpiena. Le magliette del comitato finiscono in un lampo. Parte uno striscione e dietro il gruppo dei più impazienti. Si cerca di tenere le mani degli amici, ma è pura illusione, perché la catena si spezza e si ricompone mille volte. Lungo la strada diventano due o tre catene umane sovrapposte. Ma è un disordine felice, perché al di là di tutti gli schieramenti la gente è scesa in piazza a titolo personale.
Anche la Palermo che non ti aspetti: i negozianti (i negozianti di Palermo!) abbassano le saracinesche e si uniscono alla catena. Si passa davanti alla chiesa di San Francesco, e le campane suonano. Così pure le campane delle altre chiese lungo la strada.
Alle spalle ci si lascia un cartello che dopo tanti mesi nessuno ha avuto il cuore di togliere. Serve a ribattezzare piazza Vittorio Emanuele Orlando. Adesso davanti al tribunale c’è un ritratto pensoso di Falcone e una scritta: piazza Vittime del 23 maggio.
La catena umana arriva sotto quello che già tutti chiamano l’albero di Falcone, ed è diventato il centro ideale della resistenza. Qualcuno ha cominciato col mettere un mazzo di fiori la sera stessa del 23 maggio, e poi un altro, e poi un bigliettino, una fotografia, un pensiero. Fino a farne una specie di altare dell’antimafia. Qui legge una poesia Michela Buscemi, la donna che si ribellò agli assassini del fratello. Racconta il sogno di svegliarsi un giorno e scoprire che la mafia non c‘è più.
Parla pure la figlia di Azoti, un sindacalista ucciso nel medioevo della lotta alla mafia. Era il tempo in cui non si era nemmeno cominciato a contare i morti. Poi, a un certo punto, sembrò che i morti non si potessero più contare. Se oggi c’è tanta gente significa che sta nascendo la volontà di ricominciare a contare e a farli contare. (R. Alajmo, Un lenzuolo contro la mafia, Navarra editore)
Le manifestazioni di massa spesso creano illusioni ottiche. Le centomila persone che presero parte alla catena umana erano tantissime. Ma non rappresentavano la maggioranza della popolazione. Creavano consenso attorno a un’idea, ma magari mentre queste persone sfilavano in corteo orgogliose di schierarsi dalla parte della legalità, nello stesso momento c’era qualcun altro che stava tramando per dare il colpo di grazia a quella stessa idea di legalità.
Falcone aveva un amico, un collega che si chiamava Paolo Borsellino. Assieme avevano seguito i grandi processi alla mafia, e dopo la morte di Falcone a tutti sembrò ovvio che Borsellino prendesse il suo posto come simbolo della lotta a Cosa Nostra. Borsellino stesso era conscio del peso di un’eredità morale di cui vedeva chiaramente anche i risvolti più atroci: sapeva, e disse ai suoi familiari, di essere il prossimo sulla lista di Totò Riina. Passarono altre settimane, quasi un mese durante il quale la Sicilia migliore immaginava di potersi riprendere dallo choc dell’attentato di Capaci. Era il 19 luglio, una domenica. E toccò a Paolo Borsellino.
diciannove sette novantadue
Non c’era nessuno per le strade, e le sirene della scorta suonavano inutilmente. Domenica di fine luglio in città già ferita e distratta. Quando l’automobile si fermò di fronte alla casa della madre, il giudice non pensò a lei. Pensò che nell’appartamento di fronte qualche mese prima avevano trovato un libro mastro dal quale risultava che nella parte nuova della città pagavano il pizzo praticamente tutti. E quelli che non lo pagavano era perché venivano gestiti direttamente dal racket.
Dalle auto scesero gli uomini armati e si misero a scrutare sui balconi e dietro le macchine posteggiate. L’autista di una delle auto di scorta fece manovra e s’andò a piazzare all’inizio della strada per controllare meglio la situazione. Intanto il giudice fece i passi che servivano per arrivare al portone.
Mise il dito sul citofono. (R. Alajmo, Almanacco siciliano delle morti presunte, Palindromo editore)
L’esplosivo nascosto nel bagagliaio di una macchina posteggiata lì accanto spazzò via Borsellino e cinque uomini di scorta. L’impatto sull’opinione pubblica fu se possibile ancora più traumatico. Proprio mentre ci stavamo rialzando, era arrivato un altro colpo, di quelli da cui non ci si risolleva più.
E invece ci rialzammo. Contro ogni logica, quando tutto sembrava definitivamente perduto, nel momento più buio, ancora una volta la società civile in Sicilia trovò la forza di risollevarsi e riorganizzarsi.
Ci furono altre stragi mafiose, altri attentati, e non solo in Sicilia. Ma nel gennaio del ’93 venne arrestato Totò Riina, e dopo di lui molti altri capimafia. A tutt’oggi la partita non è vinta, ma nemmeno è persa come sembrò per due volte, definitivamente, nell’estate del ’92. La partita continua, e sei avvertito: in qualche misura a giocare presto sarai chiamato anche tu, nella tua qualità di cittadino.
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