“La suprema inchiesta.” Sul romanzo di Alberto Casadei
Non si può capire. Perché colpirla così, sino a fracassare la base del cranio? Era già morta. Infierire. Diventare come belve, ferae, diventare o ritornare? Essere uomini non è una condizione perenne.
(Alberto Casadei, La suprema inchiesta, il Saggiatore 2023, p. 328)
L’inevitabile quête
Roma, primi anni del 2000. Livia Bianchi, vicequestore aggiunto, indaga sull’assassinio della top escort Bella di Rodi. Come nel gioco dell’oca, il suo segnalino torna alla casella di partenza, quando il presunto autore dell’assassinio, un onorevole affarista, è trovato morto, «un altro morto proprio quando avrebbe potuto dire soltanto una parola e salvare Bella dalla condanna eterna» (p. 161).
Mentre si avviluppa l’inchiesta, Livia moglie/madre, Angelo Consani, Lorenzo e Giovanna, rispettivamente marito e figli del vicequestore, conducono, ciascuno, la loro personale, interiorizzata e inevitabile quête. A contare non è l’oggetto della ricerca ma «cercare, trovare, non accontentarsi del primo risultato, cercare di nuovo e di nuovo» (p. 127). Abile investigatrice, Livia è incapace di rispondere alle banalissime questioni della vita quotidiana. Angelo Consani, velleitario architetto e nuova figura di inetto, è alla ricerca della forma perfetta (e di fondi) per una Nuova Città Ideale. Lorenzo, adolescente no future, cerca la spinta per uscire dal suo sub-vivere secondo l’unica strategia del «depotenziare i desideri per vivere decentemente senza speranze eccessive» (p. 61). La trova, forse, dopo aver lanciato il blog «Gli akkontentati», nella fascinazione per la coetanea Ceci, nouvelle Beatrice, che lo conduce all’attivismo ecologista e no-global. Giovanna, bambina di nove anni dalle intuizioni fortissime, cerca, attraverso disegni del tutto simili a quelli di grandi pittori come Monet, la sua personale rappresentazione del mondo mentre assiste piano piano al suo disvelarsi. Sullo sfondo la Roma desolante degli intrighi politici, degli scandali, della codificata morale del«superior stabat agnus» (p. 152)degli affari e del malaffare, negli anni 2010-2011. La macrostoria (e la microstoria), quella coeva alle vicende e quella lontana, quella ufficiale, quella tragica e quella “pop”, irrompe per improvvisi e inaspettati squarci, frammenti, istantanee: la fine del quarto governo Berlusconi, lo tsunami in Giappone del 2011, la celebrazione dei 150 anni dall’Unità d’Italia, la morte di Amy Winehouse, i movimenti Occupy Wall Street e le proteste degli indignados, gli attentati di Anders Behring Breivik, il massacro di Babij Yar, il fallimento della rivoluzione degli intellettuali giacobini, l’incontro Joyce-Proust.
Lector in fabula
Lei quindi sarebbe…»
«Via, non darmi del lei, stiamo al tu, generico nel mio caso, dato che non ho persona, però sempre meglio che lo squallore degli altri vostri pronomi!»
«Tu probabilmente sei il demonio.»
«Eh, ancora con ’ste categorie dei millenni scorsi, e dire che tu più di tutti lo sai come dovresti chiamarmi.»
«La forza che incessantemente vuole il Male…»
«… e incessantemente compie il Bene, sai che palle. Un’altra banalità e ti rimando a chiudere la pratica di Bella!»
«Allora sei l’Inconscio universale.»
«Già più interessante, perché in effetti di ciò sapete pochino, a parte i tentativi pionieristici di quei simpatici indagatori di traumi e archetipi e menate varie, fortunatamente in ribasso fra i culturologi che vi ritrovate. Ma no, nemmeno quello, lascia stare, diciamo che io sono la Completezza e stai contenta al nome di comodo». (p. 309)
Inevitabile è anche la quête del lettore, che, lector in fabula, cortocircuito dopo cortocircuito, deve sottrarsi ai «consueti errori della coazione al senso» (p. 264), cercando l’unità nella molteplicità delle connessioni (e delle disconnessioni) tra elementi apparentemente incongrui, deve ricostruire una linearità, anche temporale, che sembra spezzarsi continuamente. Storie, dati, episodi (storici, realistici, fantastici), personaggi, figure (reali, fittizie, letterarie, artistiche), musiche, e, soprattutto, immagini si accumulano, si legano insieme (e si slegano), continuamente. Un video, il correlativo visivo del romanzo, e un apparato di 32 immagini, spiegano, integrano, interrogano il testo e assumono la funzione di iconotesti. Collassano i piani temporali, si sovrappongono e si intrecciano la voce narrante e le voci dei singoli personaggi. Il lettore ideale del romanzo non è certamente quello alla ricerca del «riposo intellettuale». L’allusivismo colto (mai sterile citazionismo) infittisce l’inestricabile groviglio di sensi e sovrasensi del testo, e l’ironia sottile, esorcizzante e necessaria, che sin dal titolo caratterizza il romanzo, svela il procedimento del double (o multiple) coding interpretativo che il lettore non può aggirare. Fittissimi riferimenti letterari, espliciti o sottotraccia (Dante, Calderón de La Barca, Baudelaire, Penna, Ungaretti, Montale, Grossman, ma soprattutto Joyce e Proust), aggrovigliano la rete dei possibili, aprono il discorso finzionale a quello metastorico e metaletterario, spingono verso la necessità di «una comprensione ulteriore» (p. 324), e conducono verso un inevitabile scacco gnoseologico.
Ciò che rimane è un testo sulle «finzioni necessarie» e «le consapevolezze primarie» (titolo delle due sezioni del romanzo), sull’illusoria idea di poter assegnare un senso ultimo all’esistenza, sul dolore, sull’utopica umana aspirazione alla conoscenza e alla completezza, sull’essenziale che sfugge, ineluttabilmente, anche e soprattutto nella caotica e fluida era dell’iperinformatività, dei Big data, del «sapere orizzontale» (p. 129), su quell’essenziale visibile, forse, soltanto a «uno sguardo privo di storia e di condizionamenti, quello che Giovanna di sicuro possiede» (p. 328).
La molteplicità e il ‘pastiche’ intermediale
Che però hanno suoni diversi, ipeticomegliuomini non sono mai uguali, ecco bisognerebbe intanto integrare quei suoni lì, le voci come la mia o quella di Bloom, e poi immagini su immagini, vistinventate, e poi montare tutto in un carosello di capitoletti, uno sul presente, uno su un passato uno su un tempo geologico unosulTempo, e forse si comincerebbe a comprendere l’utilità di un romanzo fatto di niente o fatto di troppo come il mio e il suo, non quelli precisi, su una singola vicenda, su un eroe o su una famiglia, no, romanzistoriearazzi, sì, dove si legger si ascolta si intravvede una figura e dietro c’è una serie di nodi, lo volti lo rivolti, trovi le tracce trovi i legami, ma in fondo non puoi sapere se hai capoito davvero, nemmeno se ti arriva una bella epifania o una bellissima intermittenza. Esticazzi.
Pseudo-romanzo, pseudo-poliziesco, pseudo-Bildungsroman (come si legge nell’avvertenza al lettore che precede il testo) e ancora romanzo-Cloud, iper-romanzo, romanzo filosofico, queste alcune delle etichette possibili, qualora fosse necessario trovarne una, per incasellare le strutture, fluide e aperte, entro le quali si muove «l’oggetto narrativo non identificato» [1] di Casadei. Un giallo assoluto, senza soluzione, secondo la sciasciana definizione del Pasticciaccio di Gadda (ipotesto dichiarato nel correlativo visivo del testo).Elemento chiave: la molteplicità. Un romanzo collettore o connettore che tende alla molteplicità attraverso tutte le strade individuate già da Calvino nell’ultima delle Lezioni americane e ne percorre una nuova, quella della intermedialità. Dietro il romanziere, è impossibile non scorgere il critico letterario, qual è prima di tutto Casadei, autore tra gli altri di contributi fondamentali come Biologia della letteratura (Il Saggiatore, 2018). La suprema inchiesta sembra essere il punto di confluenza dell’indagine dell’autore sul valore e le potenzialità della scrittura nell’era della intermedialità e della iperinformatività, e delle riflessioni, condotte sulla scorta della Cognitive Poetics, sul rapporto tra creazione artistica, potenzialità e propensioni umane. Le connessioni che si aprono nel testo appaiono, da un lato, il riflesso di quella propensione biologica umana a «connettere sempre, a scovare analogie» (p. 163), ai processi di blending tra elementi distanti e apparentemente slegati e incongruenti, dall’altro, sembrano riprodurre la condizione di intermedialità diffusa, propria del Web-Cloud, in cui viviamo e nella quale si addensano, per giustapposizione, si combinano e si ricombinano continuamente miriadi di informazioni, storie, dati, immagini. Il ‘pastiche’ intermediale scommette sull’inatteso, sulla funzione nuova da assegnare alla parola nella cultura del visuale e dell’iperreale, interroga sulle potenzialità della forma romanzo nell’era in cui «l’enorme potenzialità descrittivo-interpretativa realizzata con il nesso pensiero-linguaggio-scrittura è adesso minoritaria rispetto a quelle intermediali possibili grazie al Cloud» (Biologia della letteratura, p. 203).
[1] Un raccontino su “La suprema inchiesta” in http://www.laboratoriodiletteratura.it/.
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eccezionale questo commento! Complimenti, mi è venuta voglia di averlo subito tra le mani, cosa differente dal ” volerlo in libreria”. Francesca, obiettivo raggiunto!!!
Sorprende, ma forse no, di non vedere questo romanzo fra quelli scelti nei principali premi letterari. Scrittura alta, al massimo livello di uno che non è certo ignaro di quello che in letteratura si è fatto finora. Farei solo un piccolo appunto, ma a lettura solo iniziale. Non mi sembra corretto l’uso della virgola in una frase nominale (p. 22).