
Ricordando Graziana Pentich
La storia
Nel lontano giugno 1976, a diciassette anni, leggo su La Nazione di Firenze un trafiletto veloce e tremendo: «Suicida a Roma Leone Gatto, figlio del poeta Alfonso e della pittrice Graziana Pentich». Si era gettato nel vuoto dal terrazzo di casa, a soli ventisette anni. Tre mesi prima era morto suo padre a Orbetello, in un disgraziato incidente stradale. La notizia mi turba e a caldo scrivo una poesia, intitolandola A Leone Gatto. Quella poesia ancora acerba ma sincera finirà, l’anno successivo, nel mio primo libriccino pubblicato dall’editore Antonio Carlo Ponti, l’unico ad avere a Perugia una collana di poeti locali e probabilmente anche l’unico, lui romano ma di radici umbre, a mantenere contatti con intellettuali e poeti della capitale. Così la mia opera d’esordio, La primavera di Edipo, finisce nelle mani di Elsa De Giorgi, attrice e scrittrice molto nota nell’ambiente, amica di Pier Paolo Pasolini e Anna Magnani, Alberto Moravia e Enzo Siciliano. Nelle sue serate letterarie, puoi incontrare anche Alfonso Gatto e Goffredo Petrassi, Elio Pecora e Renato Guttuso, nonché Graziana Pentich. Ed è proprio la segretaria di Elsa De Giorgi a parlare al telefono ad Antonio Carlo Ponti, in mia presenza: gli dice che Elsa è contenta di ricevermi a Roma, ma ancora più importante è che mi metta in contatto con la Pentich, di cui mi lascia indirizzo e numero telefonico. Ovviamente ha letto la poesia dedicata al figlio Leone e vuole conoscermi. È il 1978.
A LEONE GATTO
Questa, Leone,
è la ballata dei vinti,
la danza della morte
che ci accompagna
ad ogni tramonto,
cinica testimone
della contingenza umana.
È votato all’anonimato
il tuo non essere:
per questo io lascio la traccia
di quella che è stata
la tua religione, la nostra religione…
Amaro è il ritaglio del quotidiano
che serba tuttavia
qualcosa di sacro, di eterno:
è la nostra fede,
la nostra più bella sfera
dell’esistenza, che non fugge
con la coscienza della sconfitta,
ma si fa più poetica,
e varca l’essenza materiale
del nostro essere,
vola in alto.
Non sono uccellacci
quelli che vediamo vagare
per la volta celeste,
ma le farfalle
che abbiamo partorito
senza dolore,
per cercarci in questo mondo
che vuole umbratile
la nostra presenza.
(da La primavera di Edipo, Umbria Editrice, Perugia, 1977)
L’incontro
Graziana Pentich, triestina, era stata per oltre venti anni compagna di Alfonso Gatto, condividendo scelte politiche e artistiche, cambiando luoghi di vita e abitazioni, in una sorta di spensierato equilibrio su un abisso. La coppia aveva già perso prematuramente il primo figlio Teodoro e nel 1970 la lunga relazione si era interrotta. Il 1976 era stato l’anno delle perdite definitive. Le restavano la scrittura e la pittura, le amicizie. Quando la conobbi, nel settembre del 1978, lavorava a un programma radiofonico in RAI. Avevo diciannove anni e andai a Roma per la prima volta dalla provincia umbra, emozionato e un po’ timoroso, come forse lo era stato Fellini partendo da Rimini, ma certo lui con una valigia più grande e tutti i sogni della sua vita. Fui invitato a pranzo dalla Pentich, in un semiattico in via Flaminia 399. Nel salottino alla parete un poster di Leone. Era una donna semplice, di un’epoca sana e dura, ormai quasi sessantenne. Cucinò un piatto di pasta e delle verdure, in quella casa in cui si respiravano storie d’arte e trattenuti silenzi, dove si erano conosciuti Anna Maria Ortese e Dario Bellezza in un incontro che avrebbe segnato le loro esistenze. Ma io avvertivo la solitudine, osservavo il terrazzo pensando che da lì si fosse gettato suo figlio, anche se magari tutto era accaduto altrove. E faticavo a trovare argomenti per non rinnovare ferite recenti. Mi aveva accolto emozionatissima, confesssandomi che da due anni non riceveva più nessuno. Parlammo di poesia, del viaggio che deve compiere un giovane dentro la sua creatività, la difficoltà di avere un pubblico. Mi fece leggere le Pagine di Giacomo Joyce, uno stralcio della tesi di laurea di Leone pubblicata su «Nuovi Argomenti” a cura di Enzo Siciliano; aveva per il figlio un’ammirazione non solo emotiva ma lucida, dettata dalla sua sanità morale e dalla sua partecipazione al destino degli introversi che lottano con se stessi per trovare l’amore. Ed era tanto, forse troppo in una Roma cinica anche negli ambienti culturali. Poi scomparve un attimo e tornò con un regalo: due disegni a penna su cartoncino ispirati alle sculture di Henry Moore. Nel primo pomeriggio la accompagnai all’ufficio postale, dove ci salutammo.

L’epilogo
Restai in contatto epistolare con Graziana almeno fino al 1980, quando le scrissi che non avrei più pubblicato un libro di poesia per non vederlo morire. Allora ero ancora pieno di furori giovanili, come scrive Vittorini in Conversazione in Sicilia, ma sono rimasto fedele a quel proposito fino al 2014. Graziana Pentich ha continuato a fare mostre e a scrivere. È morta nel gennaio 2013, a 93 anni. Ha donato il suo archivio di opere e manoscritti alla Fondazione Maria Corti, presso l’Università di Pavia. E forse lì sono finite anche le mie lettere. Recentemente ho scoperto, in un articolo sul «Piccolo», che anche Trieste ha dimenticato la sua pittrice, poetessa, scrittrice. Del suo rapporto con Alfonso Gatto disse: «Vicina al poeta per più di due decenni, ero vissuta sempre in piedi sul ciglio di un abisso, ma col coraggio noncurante e divertito degli equilibristi» (I colori di una storia. Momenti di vita e luoghi di poesia, Milano, Scheiwiller, 1993). E in piedi Graziana Pentich è rimasta fino alla fine, anche se la sua città non ha dedicato ai suoi dipinti nemmeno una mostra. Quanto a me, di certo non l’ho dimenticata, anche se la mia gioventù si è presa le sue strade lontano da Roma e da lei. Con qualche rimpianto.

(Foto di copertina, Graziana Pentich, Autoritratto, 1951-52. https://www.lombardiabeniculturali.it/opere-arte/istituti/1179/. Opera conservata presso la Fondazone Maria Corti. https://lombardiarchivi.servizirl.it/groups/UniPV_CentroManoscritti/custodians/1286)
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