Astronauti e campanili: su “Il telescopio della letteratura” di Alessandra Grandelis
Il telescopio della letteratura. Gli scrittori italiani e la conquista dello spazio di Alessandra Grandelis (Bompiani) è un saggio in 10 capitoli disposti all’incontrario: la scelta vuole mimare il count down che accompagna i lanci spaziali a cui ci siamo abituati sia guardando i numerosi film ispirati alle imprese astronautiche, sia rivedendo i filmati d’annata riproposti in occasione di ricorrenze “stellari”.
È bene entrare a piccoli passi in questo libro che, come i moon boot di Neil Armstrong sul suolo lunare, lascia un’impronta profonda in chi è desideroso di sapere come gli scrittori italiani del Novecento abbiano rappresentato le esplorazioni dell’uomo nello spazio. Lo facciamo guardando innanzitutto gli elementi paratestuali, ossia quei dintorni, quelle soglie che circondano il testo vero e proprio e che, oltre che a catturare la nostra attenzione percettiva, a esempio con certe scelte editoriali (la collana, la grafica), accendono le nostre aspettative di lettori. Sulla copertina, di un bel verde scuro, si staglia un astro luminoso che effonde i suoi raggi su una superficie irregolare dalla quale affiorano delle rocce: è forse la Terra, vista dal Mare della Tranquillità? O è piuttosto la luna, ammirata e vagheggiata dal nostro pianeta? Pur propendendo per quest’ultima ipotesi, non è poi così decisivo sciogliere il dubbio dal momento che nel Telescopio della letteratura il percorso tra terra e cosmo è fatto di continui andirivieni: infatti dalla terra si guarda all’universo stellato con desiderio (e mai l’etimologia di un termine è stata più appropriata!), immaginandone profondità illimitate. Tuttavia una volta giunti in orbita, lo sguardo degli astronauti torna alla terra, con ammirazione e nostalgia, e all’uomo, per ricordarne tanto i limiti quanto le possibilità: come il contadino calabrese citato da De Martino alla fine del saggio, il cosmonauta ha sempre bisogno del “suo campanile” e guarda alla terra come a un punto di riferimento tangibile e rassicurante.
Il testo presenta tre citazioni in esergo: quella di Calvino (“Ci sono cose che solo la letteratura può dare coi suoi specifici mezzi”) insiste sulla specificità che contraddistingue la letteratura rispetto agli altri linguaggi a sottolineare che “mettendo in campo gli strumenti conoscitivi della letteratura gli scrittori trascinano la scienza e la tecnica nel campo gravitazionale dell’immaginario” (p.154). È qui il caso di nominare almeno uno di questi elementi precipui, l’ambivalenza, l’ambiguità. Infatti, come si vedrà, la letteratura è attratta e al contempo respinta dall’esplorazione dello spazio: il suo sguardo è dubbioso e volto a svelare le intime contraddizioni di quella che la tecnica e i media presentano solo come conquista, progresso.
La seconda citazione, bellissima, è di Antoine de Saint-Exupéry che ha trasfigurato in letteratura la sua esperienza di aviatore della prima metà del secolo scorso:
Ogni passo avanti del progresso ci ha spinti un po’ più lontano, un po’ più fuori dalle abitudini acquisite, e oggi siamo davvero come emigranti in cerca di una patria.
L’espressione assai suggestiva che ci vede come “emigranti in cerca di una patria” oggi è del tutto svuotata della carica esistenziale che aveva per Saint-Exupéry e viene più spesso collegata alle nuove forme di colonialismo astrale portate avanti da Ellon Musk e da Jeff Bezos, per fare il nome di due imprenditori protagonisti della New Space Economy, troppo spesso dipinti in modo semplicistico come dei “visionari”.
Infine la terza citazione, di Walter Benjamin, può essere considerata l’ultimo viatico che ci porta al cuore dell’argomentazione di Grandelis: “Le stelle rappresentano la crittografia della merce. Sono il sempreuguale in grandi masse.” La corsa dell’uomo allo spazio, infatti, avviene nel corso del secondo dopoguerra mentre le due Superpotenze delineano le reciproche aree di influenza e portano avanti un braccio di ferro che le contrappone tanto in cielo quanto sulla terra. È un momento storico in cui l’Occidente conosce una tumultuosa crescita economica, che in Italia prende addirittura il nome di Boom, e che fa “deflagrare” produzione e consumo di merci: si pensi, a questo proposito, agli elettrodomestici acquistati in gran quantità a rate dagli italiani e, tra tutti, a quella televisione che diviene l’“oblò” da cui “ammirare entusiasticamente, in una lunga maratona mediatica, l’impresa che sancisce l’inizio di un’epoca”, l’allunaggio (p. 35).
L’indagine critico-letteraria di Grandelis mette in combustione tra loro atteggiamenti e posture molto diversi nei riguardi della prima fase dell’era spaziale e della ricostruzione postbellica: l’euforia tutta terrestre per l’incipiente consumismo e l’acritico ottimismo per il raggiungimento di insperati orizzonti spaziali che sembrano preludere a una nuova fase per l’umanità viene analizzata accanto all’atteggiamento disforico di chi, viceversa, guarda con sospetto all’“effetto alluvionale e omologante” della réclame e della televisione (Pasolini, per tutti) e a quanti vedono nell’esplorazione dello spazio la fine di un’epoca in cui gli uomini potevano vivere tutto il mistero insito nel cosmo, trasfondendolo nel racconto fantastico (Buzzati).
Basti pensare a come poeti e narratori reagiscono alla diretta del 20 luglio 1969 nel ricco capitolo che la rievoca: alle posizioni entusiastiche di Piovene e Parise, entrambi convinti che l’approdo dell’uomo sulla luna non faccia altro che aggiungere completezza al desiderio di conoscere e di capire dell’uomo, si contrappone Ungaretti che, almeno in prima battuta, mostra la sua delusione per la fine di quell’alone di impenetrabilità che le stelle avevano avuto per l’uomo. Da parte su Montale ricorda che l’uomo dovrà “convincersi che il suo significato è dentro se stesso e non fuori di se stesso” (p. 118). A Alfonso Gatto, infine, il nostro satellite appare in tutta la sua desolazione, la sua solitudine, immerso nel buio, ormai deprivato di quell’aura poetica e indecifrabile che lo ha contraddistinto nell’immaginario umano per secoli. Per questo alla domanda su cosa vorrebbe che gli astronauti trovassero sulla luna Gatto risponde:
Volendo […] appellarsi all’immaginazione dei poeti, io vorrei trovare sulla Luna le persone che mi sono più care. Vorrei sul Mare della tranquillità, in una barca, trovare insieme con mia madre le ultime persone che ho amato di più, e le cito alla rinfusa, che stanno bene insieme: Giovanni XXIII, Marylin Monroe, il dottor Schwartz e Luther King.” (pp.39-40)
Il libro decolla, è il caso di dirlo, con il cap. 9 dal titolo “Viaggiare nello spazio, incontro alla luna. Storia e controstoria della letteratura” dove Galileo, Leopardi, Pirandello appaiono come autori fondamentali non solo per la storia letteraria ma anche per la storia del pensiero: la fine di una visione antropocentrica del mondo emerge prepotentemente nelle loro pagine e costituisce il trampolino di lancio per entrare nella “letteratura dello spazio” del Novecento. Nei capitoli successivi Landolfi, Buzzati, Moravia, Pasolini, Primo Levi, Calvino, Solmi e Zanzotto, Volponi e Morselli, Consolo e Rodari sono le specole narrative, saggistiche e poetiche attraverso cui leggere “l’epica del volo spaziale e nel contempo la colonizzazione cosmica e consumistica dell’immaginario” (p. 28); forse può rappresentare in modo esemplare la spinta conoscitiva che ha condotto l’umanità nello spazio questa affermazione di Primo Levi che rappresenta gli astronauti come pesci immersi nell’acqua alle prese con “la questione evoluzionistica dell’adattabilità”:
tutti abbiamo visto sugli schermi gli astronauti librarsi nello spazio come pesci nell’acqua, imparare nuovi equilibri e nuovi riflessi, mai realizzati sul suolo. (p.102)
L’indagine appassionata e preziosa di Grandelis, accompagnata da una nutrita bibliografia, ha il pregio di rimandare a una ricca messe di testi, mai avulsi dal contesto storico-culturale e la cui presentazione è sostenuta da utili iniezioni di teoria letteraria (tra i vari riferimenti merita di essere citato, in particolare, come faro ben presente allo sguardo dell’autrice, Francesco Orlando).
Quando il lettore giunge al cap. 1, “Sul punto di tornare”, Grandelis ci riporta saggiamente a terra ricorrendo allo sguardo antropologico di Ernesto De Martino che interpretata l’incessante dialogo degli astronauti con le basi spaziali terrestri non solo come un dovuto passaggio di informazioni ma più come un modo per vincere l’angoscia dell’esilio spaziale e restare legati al proprio campanile, la terra:
Anche gli astronauti possono patire di angoscia quando viaggiano nel silenzio e nella solitudine degli spazi cosmici, lontanissimi da quel campanile di Marcellinara che è il pianeta terra; e parlano e parlano senza interruzione con i terricoli non soltanto per informarli del loro viaggio, ma anche per aiutarsi a non perdere la loro terra. (p.153)
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