Su “La grande bellezza”/2
In bilico tra lusso e ineleganza si svolgono le vicende di Gep, giornalista potente e fortunato con un nickname rapidissimo, autore di un unico romanzo, ormai sparito dalla circolazione, vincitore di un lontano Premio Bancarella. Lo scenario è Roma, la Roma di oggi, la capitale barocca, la capitale di princisbecco, la capitale senza governo e senza autorità, una città vista di notte o nei pochi brandelli diurni residui. In questo mondo che “non è più raffinato”, i personaggi sono talvolta solo poco meno gretti delle storie che raccontano, anime in pena e spesso miserabili, destinate a patire giusto un poco e ad amare anche meno, a non vivere mai nessuna pienezza, ma ad abusare di sé in ogni modo. Sono “tutti sull’orlo della disperazione”.
Sono vite che si affievoliscono i protagonisti di La grande bellezza di Paolo Sorrentino, esperienze sfocate, non per ignavia, bensì per un’attitudine innata alla superficialità e all’insipienza. Si potrebbe vedere attraverso la loro carne, ma l’unico a penetrarle è Gep, il protagonista (un ottimo Toni Servillo): l’uomo, ben deciso a mantenere le apparenze, gli abiti, la divisa della mondanità su cui spadroneggia, di tanto in tanto affonda le mani nella pochezza di questa vita come a porgerla allo spettatore, disperdendendola poi senza nessun rimpianto. Tanto rumore per nulla, potrebbe essere il suo slogan: tanto chiasso per ottenere la più calcolata immobilità, altare di una “demenza eroica”, un’esistenza meno vanesia che intransitiva. Assistiamo ad azioni senza scopo, un teatro delle dinamiche sociali che collassa insieme alle apparenze, salvo poi rimettersi tutto a posto come se nulla fosse. Perché nulla conta (“Questa è la mia vita, e non è niente”, si dice nel film).
L’ultima fatica di Paolo Sorrentino, che ha vinto l’Oscar come migliore film straniero in questo 2014, è un capriccio, una lunga, esausta conversazione che ci si aspetta in una serata estiva sì, ma formale, con i colletti inamidati e l’indiscrezione di qualche bottone sfilato. Gli argomenti di queste chiacchiere sono studiati apposta per evitare qualunque forma di coinvolgimento, escludono l’impegno, non sono dei rompicapi e non sono neanche dei grattacapi, è proibito affrontare dei temi. Ci si guarda in faccia e ci si prende un po’ in giro, poco importa se davvero o per scherzo, tanto tutto sfuma. Uno sbilanciamento fin troppo calcolato verso il plebeo (incarnato in particolare nel personaggio di Lorena, Sabrina Ferilli) vuol sfidare e rigenerare le convenzioni, salvo ricadere poi alla perfezione nell’oziosa, contraddittoria e inquieta inconcludenza generale.
La grande bellezza ambisce però a delineare dei ritratti, a ritagliare delle figure, pur senza pretendere di tratteggiare delle vere e proprie biografie, perché è proprio la scrittura della vita che è ostacolata in questa cinematografia. Sembra quasi che l’inconcludenza esistenziale del protagonista di This Must Be The Place, un’inconcludenza fatta di episodi, di impermeabilità al tempo, si sia radicalizzata, sia stata eletta a sistema. Per quanto sia un personaggio ben più profondo e attivo degli altri, lui che era “destinato alla sensibilità, destinato a diventare uno scrittore”, lo stesso Gep smarrisce la sua ambizione: lui che cercava la grande bellezza, sembra incapace di afferrarla, si commuove pure, attraversa Roma e la abita per intero, ma fallisce. La trova poi nella vacuità della sua vita, nella menzogna, in una generica dilazione della vita (“in fondo, è solo un trucco”). Le parole di Gep sono quasi un manifesto:
Parliamo di vacuità, sciocchezzuole, pettegolezzi, proprio perché non abbiamo nessuna intenzione di misurarci con le nostre meschinità. […] Non abbiamo altro rimedio che guardarci in faccia e farci compagnia, pigliarci un po’ in giro.
Né è un caso che il protagonista le pronunci tra gli altri, quasi un maestro del coro che diriga la partitura obbligata, nella quale non sono ammesse voci soliste, se non di sconfitti e profughi. Gep mostra di voler includere anche i perdenti in questa sua non-narrazione della Roma del XXI secolo, lasciando a ciascuno il suo spazio, ma sono proprio loro, i disadattati, a fuggir via. Tra nostalgia e desiderio di futuro, sentimenti scavati via dal presente, i personaggi di questa giostra, pur bombardati dal loro tempo, non attribuiscono importanza risolutiva a nulla, meno che mai agli altri. Non sanno stare l’uno con l’altro e non trovano una reale ragione per farlo: colpisce la ripetuta pubblicità di un famosissimo aperitivo che, più che come sponsor “occulto” del film, campeggia sulle serate romane come il fantasma di una mondanità tutt’altro che spensierata e comunque svuotata di gioia.
La grande bellezza di Paolo Sorrentino è un film molto riuscito sul piano estetico, in perfetta continuità con uno studio della fotografia che, tappa dopo tappa, è arrivato qui a una nitidezza forse un po’ troppo smaltata, ma di qualità ottima. C’è una ricerca registica della composizione più che del movimento: l’inquadratura, la forma, la definizione a scapito della narrativa. In definitiva, si riconosce senz’altro l’autore, mentre si stenta a registrarne un messaggio nuovo o un’interpretazione convincente del nostro tempo.
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