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diretto da Romano Luperini

L’elezione del Presidente della Repubblica

Lunedì 24 comincia l’iter che deve portare all’elezione del prossimo Presidente. Ad oggi non sappiamo quanto sarà lungo e quanti scrutini ci vorranno. Al di là dell’impresentabile Berlusconi, pregiudicato che per la sua fedina penale non potrebbe fare neppure l’usciere in una pubblica amministrazione, il toto-nomi ha un interesse secondario rispetto al coacervo di problemi politico-istituzionali in campo. Premettiamo che la nostra Repubblica è parlamentare, in cui la Costituzione distingue il ruolo del capo collegiale del governo da quello arbitrale del capo dello stato. Tale meccanismo fu scelto non per un “barocchismo” dall’Assemblea Costituente, ma per evitare che una concentrazione dei poteri nelle mani di uno solo fosse l’anticamera di una nuova dittatura fascista, da cui ci eravamo appena liberati con un cospicuo debito di sangue. Infatti la “repubblica presidenziale” è da sempre l’obbiettivo della destra più o meno golpista da Randolfo Pacciardi a Edgardo Sogno fino a Licio Gelli. Oggi continua ad essere sbandierato da neo-fascisti della Meloni.

Nel concludere l’esercizio che ho tentato su questo blog nel giugno scorso di applicare le teorie politiche di Marx e di Gramsci, ancora valide per me, nell’articolo “Partiti e classi, oggi” argomentavo che non esiste in Italia, dopo la fine della DC, alcun partito rappresentativo degli interessi della grande borghesia, la quale influenza i tanti cespugli, che ambiscono a ricostruire un centro che non esiste e non può più esistere, e non si fida dell’accozzaglia di destra, che rappresenta la specificità del caso italiano, in cui stanno insieme partiti neofascisti, sovranisti e sedicenti liberali, rappresentanti nel loro insieme interessi piccolo-borghesi. Analogamente non esiste un partito dei lavoratori, i cui resti (leggi PD) inutilmente cercano di accreditarsi come partito della borghesia. Così il Parlamento è caduto dentro la palude melmosa e poco governabile di formazioni politiche oscillanti per la loro stessa natura piccolo-borghese, il cui caso più eclatante sono i 5 Stelle. La mancanza di una solida rappresentanza borghese ha reso inevitabile la soluzione tecnocratica di Draghi per avere il controllo del macro-prestito europeo del PNRR.  Su questa base avevo pronosticato: “il primo livello di torsione del sistema democratico sarà il prossimo anno l’elezione del Presidente della Repubblica e quindi il destino politico di Draghi. Il rischio é un’ulteriore riduzione degli spazi democratici”. Adesso ci siamo ed è il caso di essere molto vigilanti. L’invito è rivolto a quella che chiamo “la riserva della Repubblica”, cioè quella massa di elettori, molti dei quali lavoratori dipendenti, che delusa dalle scelte moderate dei loro partiti storici gonfia l’astensionismo di sinistra e ritorna in campo quanto le sorti della Repubblica democratica sono in pericolo (è accaduto in vari referendum).

Due possibili scenari. L’ascesa di Draghi al Quirinale, che ha ripreso quota negli ultimi giorni, mai smentita né assunta dal protagonista, porta alla crisi di governo e della sua maggioranza eterogenea e quindi alle elezioni anticipate che favorirebbero solo la destra sovranista e che non vuole nessuno eccetto i neo-fascisti della Meloni.

Se Draghi rimane a Palazzo Chigi, si pone il problema di un arbitro debole al Colle (un nuovo Mattarella, che si è rivelato molto meno debole di chi lo propose – leggi Renzi – pensando di non trovare opposizione ai propri giochi).

La soluzione migliore per la grande borghesia (e qualcuno lo ha anche suggerito per quanto sommessamente) è che Draghi assommi entrambe le cariche (qualcosa di simile: Draghi su una poltrona e una sua controfigura più o meno “tecnica” sull’altra). Come si vede pragmaticamente siamo ancora intorno alla repubblica presidenziale, al logoramento del nostro assetto costituzionale. Guardando lo scenario futuro sarebbe un ulteriore avvitamento della crisi della democrazia parlamentare, che il gergo qualunquista di molti media chiama crisi della politica. Non siamo, quindi, di fronte solo ad un attentato alla democrazia costituzionale, ma ad una progressiva restrizione degli spazi democratici con un Parlamento schiacciato tra governo e presidenza della Repubblica, sempre meno rappresentativo per il taglio del numero dei parlamentari e incalzato dai colpi della pandemia e dalla necessità di assecondare vigorosamente la ripresa economica verso la svolta ecologica e la piena occupazione.

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